Francesco Paolella (1978) ha studiato filosofia a Bologna e a Parma. Si occupa di storia della psichiatria. Fa parte del Comitato tecnico-scientifico del Centro di storia della psichiatria di Reggio Emilia.È membro di Clionet, Associazione di ricerca storica e promozione culturale. È redattore della "Rivista Sperimentale di Freniatria" e scrive per TYSM.

Recensione a: R. Ferrucci, Il mondo che ha fatto, La nave di Teseo, Milano 2025, pp. 376, € 20,00.

I protagonisti di questo libro di Roberto Ferrucci, scrittore veneziano, sono due: da un lato, Daniele Del Giudice, di cui Ferrucci è stato amico e sodale per molti anni e il valore della cui opera non è necessario ricordare qui. Dall’altro lato, c’è la lunga, atroce malattia dello stesso Del Giudice, un penoso stato di vuoto e di silenzio, causato da un grave problema neurologico e che l’ha portato alla morte nel 2021. Ferrucci ci racconta in questa pagine, dunque, la luce e l’ombra, la vita e la morte di Del Giudice per come ha potuto conoscerle, con una frequentazione assidua tanto dello scrittore quanto, soprattutto, dei suoi testi. Se ne ricava l’impressione di un libro che è un lungo tentativo di esaurimento della propria memoria (se volessimo parafrasare Perec), pieno di nostalgia (e di qualche rimpianto), ma allo stesso tempo pieno di fiducia, di speranza nell’invincibilità dei libri e della scrittura.

Ferrucci a volte dà l’impressione di sentirsi quasi un sopravvissuto, un uomo che ha avuto la possibilità di conoscere e far parte di un mondo ormai scomparso, di aver vissuto in un’epoca )non molto lontana da noi, a pensarci) in cui i libri erano “cose” davvero importanti e in cui gli scrittori erano davvero considerati e ascoltati. Leggere di incontri, festival e rassegne, di articoli di fondo e  di “terze pagine”, dedicati alle idee, agli autori, alle parole (e non sempre e soltanto in chiave promozionale o autocelebrativa), oggi può suonare forse un po’ inattuale, come se si trattasse del frutto di un passato ormai archeologico. Ad ogni modo, la passione per le parole e per le “storie” traspare continuamente in queste pagine e ci consegna l’immagine di uomini votati a combattere l’oblio e la caducità a cui la nostra stessa natura ci condanna. Lo sosteneva benissimo lo stesso Del Giudice in uno degli interventi raccolti nel recente Del narrare (Einaudi, 2023) e che vale la pena di riportare qui.

“Precarietà” – diceva Del Giudice – è una parola a cui tengo molto, nel senso che se esiste una vocazione per questo lavoro [della scrittura] non può che essere una vocazione alla precarietà. A che cos’altro se no? Non hai nulla. Prima di un libro non hai nulla, dopo un libro non hai nulla lo stesso, tanto meno che potrai rientrare nella zona [del narrare] e farne un altro. Non possiedi niente, sei totalmente precario, è il tuo fare che è precario. Lavori con una materia che non ha consistenza. […] Chi lavora con il linguaggio non ha niente, è totalmente precario. Inoltre, i conti si fanno alla fine, e forse neanche si riesce a farli alla fine, forse dopo, chi lo sa? (Del Giudice, Del narrare, p. 239).

L’amore per le parole, per la loro precisione e la loro efficacia, la ricerca di una prosa onesta e nitida, la ricerca di emergenze sempre nuove, ovvero di ciò che sta emergendo in un certo momento e che ancora non è stato definito, in sintesi un’etica della scrittura che è in primo luogo responsabilità davanti ai futuri lettori, tutto questo è il bagaglio di valori che Daniele Del Giudice ha saputo portare avanti col proprio lavoro, assieme alla pazienza (ha pubblicato – come si sa – relativamente poco nella sua lunga carriera) e alla capacità di consegnare al pubblico libri che, ancora oggi, appaiono davvero nuovi e attuali a ogni riedizione.

Questo volume di Ferrucci è anche un libro sui luoghi, dei posti dove si è posato lo sguardo di Del Giudice: pensiamo soltanto alla Trieste di cui è scritto ne Lo stadio di Wimbledon, in quel viaggio di ricerca su Roberto Bazlen e sulla sua scelta di vivere per la scrittura, senza però scrivere mai nulla. Ferrucci ha fatto un viaggio a Trieste per rivedere, ma senza cadere nelle angustie retoriche della nostalgia, i luoghi descritti da Del Giudice nel libro e, in un certo qual modo, dare ad esso una nuova possibilità di vita, una nuova condivisione.

La vita degli scrittori, si sa, è una vita necessariamente solitaria e Daniele Del Giudice era senza dubbio un uomo molto attento a difendersi difendendo un proprio spazio di vita e di lavoro. D’altra parte, da questi ricordi di Ferrucci si ricava l’immagine di una persona allegra e generosa, attenta e partecipe. In questo senso, tanto più stridenti sono le parti del libro dedicate al momento in cui, repentinamente, comparve la terribile malattia di Del Giudice, a cominciare dai primi segni (perdita di parole, perdita di memoria), sempre drammatici per chiunque, ma tanto più per uno scrittore, cioè di un artigiano che lavora con le parole e la propria memoria.

Fra i tanti esempi, colpisce soprattutto il racconto dell’ultima volta in cui Ferrucci e Del Giudice poterono cenare assieme in una pizzeria di Venezia. Del Giudice ormai faticava ad esprimersi e, per questa ragione, “imbeccava” l’amico con qualche parola isolata, evocativa di episodi memorabili del loro passato comune.

È capitato anche a Tiziano e me, quella sera, un quadro pronto a sorreggerci. È stato Daniele a trovarlo. Introduceva degli aneddoti, che a me sono sembrati subito scelti con cura, aneddoti che riguardavano sempre lui e me, in questo modo era sufficiente che lui pronunciasse due o tre parole chiave e io potevo continuare perché di quell’episodio conoscevo tutto. Ero diventato io il suo narratore, in un rovesciamento necessario ma per me ancora inaccettabile. […] Era l’unica maniera di partecipare alla conversazione, che però era comunque attiva, condivisa, con dei contenuti. Sembrava proprio fossero solo le parole, a mancargli, ad averlo abbandonato (p. 300).

Invece, e in brevissimo tempo, la mente di Del Giudice divenne inespugnabile e scese il buio attorno a lui. Per concludere, non si può non essere d’accordo con Ferrucci: non ci resta che scoprire i libri di Daniele Del Giudice o anche soltanto rileggerli, di tanto in tanto, per ritrovare la sua voce e – riprendendo il titolo del libro – tutto il mondo che egli ha saputo fare, scrivendo.

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