Francesco Paolella (1978) ha studiato filosofia a Bologna e a Parma. Si occupa di storia della psichiatria. Fa parte del Comitato tecnico-scientifico del Centro di storia della psichiatria di Reggio Emilia. È membro di Clionet, Associazione di ricerca storica e promozione culturale. È redattore della "Rivista Sperimentale di Freniatria" e scrive per TYSM.

Recensione a
G. Romano, Il caso di G. La patologizzazione dell’omosessualità nell’Italia fascista
ETS, Pisa 2019, pp. 124, €12,00.

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La storia delle istituzioni manicomiali italiane e, più in generale, la storia della psichiatria nel nostro Paese hanno ormai raggiunto una profondità e una estensione davvero notevoli. Tutti (o quasi) i più importanti ospedali psichiatrici hanno almeno una loro storia; e ricerche importanti si sono occupate di descrivere i modi in cui la psichiatria, con il suo essenziale (e contraddittorio) doppio mandato (a un tempo medico e di difesa sociale), sia stata “utilizzata” in diversi momenti della storia nazionale otto-novecentesca, dall’epoca coloniale alle guerre mondiale e, non da ultimo, durante il regime fascista.

A partire dallo studio di un caso e, in sostanza, da un cartella clinica conservata negli archivi dell’ex ospedale psichiatrico di Collegno, questo volume di Gabriella Romano, fra l’altro autrice dell’importante Il mio nome è Lucy: l’Italia del XX secolo nei ricordi di una transessuale, edito una decina di anni fa da Donzelli, si occupa dei modi in cui l’omosessualità era considerata e perseguitata durante il fascismo, anche attraverso proprio gli internamenti manicomiali. L’ideologia fascista al potere intensificò e moltiplicò pregiudizi ben più antichi e già radicati contro la cosiddetta “inversione sessuale”, tutti stereotipi che la stessa classe psichiatrica aveva per parte sua già contribuito a diffondere fin dalla seconda parte dell’Ottocento. L’essere omosessuali, questa degenerazione pericolosa perché considerata “contagiosa”, è sempre stata rappresentata come un invincibile segno di asocialità. Agli occhi del regime mussoliniano, tutto votato al culto della virilità e del “popolazionismo”, l’omosessualità finiva poi per essere un vero e proprio sabotaggio, una sorta di antifascismo nei fatti. Ovviamente, esistevano diversi livelli di “colpa”, a seconda che l’omosessualità fosse attiva o passiva, congenita o acquisita, ma ad essere davvero temibile e moralmente disprezzabile, e questo valeva tanto per i gerarchi quanto per i medici e gli scienziati, era la visibilità dell’inversione sessuale, lo scandalo che necessariamente doveva venire da una effemminatezza esibita o soltanto colta in pubblico. Come è noto – pensiamo soltanto ai lavori pionieristici di Giovanni Dall’Orto o al fondamentale volume di Lorenzo Benadusi (Il nemico dell’uomo nuovo, Feltrinelli, 2005) – il fascismo cercò sempre di reprimere le manifestazioni più eclatanti di omosessualità, i comportamenti scandalosi, per poter mostrare che gli italiani fossero, in realtà, immuni da questo “vizio immondo” e antipatriottico.

La patologizzazione dell’omosessualità, già ben inserita nella scienza psichiatrica nazionale, serviva anche a questo scopo del regime: prevenire o punire, a seconda dei casi, la pederastia, trattata più o meno come una vera e propria deficienza o “pazzia morale”, e ciò anche attraverso l’internamento in manicomio. In alternativa alle vessazioni poliziesche, le “cure” psichiatriche potevano davvero risolvere il problema, togliendo dalla vita civile persone la cui vista era imbarazzante e dannosa. Come dicevamo, questo lavoro di Romano si occupa in particolare della storia di G., rimasto chiuso per circa due anni in un manicomio piemontese perché omosessuale. La sua vicenda è, allo stesso tempo, tanto esemplare quanto eccezionale. È esemplare anzitutto perché G. era, di fatto, il tipico marginale “da manicomio”, caduto in povertà, reietto dalla sua famiglia e costretto a vagabondare da un luogo all’altro per sopravvivere. Ed è esemplare perché, come assai spesso accadeva in caso di internamento manicomiale, era stata proprio la sua famiglia a richiedere che G. fosse rinchiuso in ospedale psichiatrico.

D’altro lato, G. non era il classico internato: era avvocato, aveva una cultura forte e, quindi, aveva anche gli strumenti per tentare una vera e propria strategia difensiva, strategia che, fra l’altro, ebbe un insperato successo, visto che G. riuscì a essere dimesso e a essere anche risarcito dalla famiglia per il torto subito. Dalla sua cartella clinica e, in particolare, dai suoi autografi (fra cui soprattutto un vero e proprio Memoriale difensivo) è, appunto, possibile ricostruire questa strategia, fatta di verità e bugie, di autocensure, di coperture (come un imminente, finto matrimonio), di confessioni, ma anche di minacce e ricatti. Gli scritti di G. sono interessanti perché ci mostrano la difesa di un omosessuale “dall’interno”, per così dire, della mentalità fascista allora dominante, e da parte di un uomo disposto a tutto pur di salvarsi. Questo libro ha, dunque, molti spunti interessanti e, opportunamente, l’autrice ha voluto allargare la sua ricerca sia ad altre storie coeve di omosessuali finiti in manicomio, sia, soprattutto, ad una (per quanto forse troppo sintetica) rassegna di quanto la psichiatria italiana aveva prodotto fino ad allora sul tema nelle riviste specializzate. Resta comunque ancora molto da scavare e, sicuramente, gli archivi clinici dei manicomi possono aiutarci tanto nel delineare sempre meglio una storia delle persecuzioni contro la minoranza omosessuale in Italia lungo tutto il Novecento.

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