Francesco Paolella (1978) ha studiato filosofia a Bologna e a Parma. Si occupa di storia della psichiatria. Fa parte del Comitato tecnico-scientifico del Centro di storia della psichiatria di Reggio Emilia. È membro di Clionet, Associazione di ricerca storica e promozione culturale. È redattore della "Rivista Sperimentale di Freniatria" e scrive per TYSM.

Recensione a M. Barbagli, Comprare piacere. Sessualità e amore venale dal Medioevo a oggi
il Mulino, Bologna 2020, pp. 634, €36,00.

Contrariamente a quanto molti potranno pensare, il Novecento, con le sue guerre mondiali e tutte le mutazioni e innovazioni avvenute anche nel campo dei comportamenti e dei costumi, non è stato il secolo della prostituzione. Essa ha sicuramente “riempito” tante case e tante strade nelle città di tutto il mondo e tuttora rappresenta un problema sociale irrisolto; allo stesso tempo, però, è anche vero che, ormai da un secolo appunto, stia declinando la domanda di “amore venale”. Si tratta di una riduzione progressiva e che dipende in primo luogo dalla progressiva equiparazione fra i sessi, dalla diffusione di una sempre maggiore libertà sessuale, specialmente femminile. In sintesi, potremmo dire che la società permissiva ha finito per togliere acqua al fiume della prostituzione. Per gli uomini, e per i giovani in particolare, è stato sempre meno necessario ricorrere al lavoro delle prostitute; e tutto ciò riguardava direttamente il tramonto, ormai irreversibile, di quella che Marzio Barbagli definisce e descrive diffusamente in questo volume come la «doppia morale sessuale»:

una per le donne, l’altra per gli uomini. Le prime dovevano rimanere vergini fino al matrimonio e restare poi fedeli al marito. I secondi potevano invece avere rapporti sessuali con quante donne volevano, prima di sposarsi, e anzi, secondo alcuni, era bene che lo facessero per giungere al talamo nuziale con una buona esperienza in proposito. Dopo le nozze, le loro infedeltà erano considerate delle lievi violazioni dei loro obblighi morali (p. 478).

A partire dal tredicesimo secolo, la storia della prostituzione nel mondo occidentale ha conosciuto mutamenti davvero notevoli e che sono dipesi da trasformazioni economiche, culturali e demografiche altrettanto epocali. Ciò che è rimasto costante è il fatto che la prostituzione è stata sempre, o quasi, prostituzione femminile. A differenza di quella maschile, di cui, per ragioni anzitutto morali, abbiamo fra l’altro a disposizione ben poche tracce, soltanto la prostituzione femminile è stata disciplinata dalle autorità civili e religiose, essendo essa considerata in sostanza come un male minore per evitare guai peggiori. La storia della prostituzione è una storia di regolamentazioni; essa è stata ammessa, pur con alti e bassi, in tutte le società europee, riconoscendo in essa una “valvola di sfogo” necessaria, soprattutto allorquando fenomeni imponenti come l’urbanizzazione, la diffusione della leva militare e la crescita delle università, hanno favorito la concentrazione di masse di uomini “liberi” nelle città. Ogni nazione ha avuto, nei secoli, atteggiamenti e legislazioni diverse, più o meno tolleranti; ed è, allo stesso modo, evidente che l’elemento religioso ha avuto un peso considerevole nel determinare questi ultimi. Sono interessanti, a questo riguardo, le posizioni emerse, ad esempio, all’indomani della riforma protestante, da cui derivò sempre una posizione più severa verso il sesso venale rispetto a quella assunta nel mondo cattolico.

L’età moderna, a partire dall’Ottocento in particolare, ha visto affermarsi un po’ ovunque la prostituzione come un mercato sempre più visibile e legalizzato, oltre che sempre più diffuso. È stata la Francia la patria del regolamentarismo, con la comparsa delle case di tolleranza e con la sottomissione delle prostitute a una doppia autorità, sia a quella (sempre arbitraria) della polizia sia a quella dei medici. Questo mercato è, inoltre, sempre più esplicitamente caratterizzato da due mondi diversi e sempre meno comunicanti, uno alto (fatto di cortigiane e signore delle camelie) e uno basso, reso possibile dallo sfruttamento “intensivo” delle donne comuni, radunate nei postriboli o che lavoravano isolate. Il regolamentarismo, senza dubbio, è stato favorito e giustificato anzitutto da un enorme problema di salute pubblica, dato dalla diffusione impressionante delle malattie veneree, e della sifilide in particolare. Soltanto i movimenti di opinione abolizionisti, promossi dalle diverse forme di femminismo otto-novecentesche, hanno negato che le case chiuse fossero degli argini “igienici” alle epidemie del “mal francese” ma che, al contrario, essi stessi fossero luoghi di diffusione di malattie, oltre che di immoralità e disperazione.

Come giustamente ha notato l’autore, chi – nel passato – ha inteso studiare questo fenomeno, lo ha invariabilmente riferito all’offerta, ovvero sia alla presunta “vocazione” di alcune donne a fare della propria sessualità una fonte di guadagno, e trascurando sempre la questione della domanda. La prostituzione, intesa come problema eminentemente femminile, ha interessato storici e giuristi, teologi e medici, raggiungendo una sorta di culmine nell’Ottocento italiano, con la teoria lombrosiana della prostituta come equivalente femminile del criminale nato. D’altra parte, è importante sottolineare come, fra Settecento e Ottocento, ci fu un cambiamento considerevole: non si attribuì più al genere femminile una “insaziabiltà” erotica, una esuberanza di appetiti – ben maggiore che negli uomini –, la quale avrebbe condotto alcune verso il meretricio, ma si affermò, all’opposto, una maggiore “freddezza” femminile:

Questo rovesciamento di prospettiva fu in parte provocato da un profondo mutamento nella concezione dei corpi e della procreazione, che ebbe appunto luogo fra il Sette e l’Ottocento, quando si abbandonò la teoria dei due semi e si cessò di considerare rilevanti per il concepimento l’orgasmo e l’emissione femminile del seme. Anche da questa concezione trasse forza l’idea che la prostituzione corrispondesse a un bisogno sociale ineliminabile. Grande parte degli europei avrebbe potuto sottoscrivere l’affermazione, fatta da alcuni medici, che “il rapporto sessuale è una imperiosa necessità, impiantata nella nostra natura” (p. 392).

Al di là delle opinioni di medici e filosofi, dalla seconda metà dell’Ottocento, è un punto di vista diverso o, per meglio dire, il punto di vista delle vere protagoniste di questa storia, ad essere finalmente emerso. La soggettività delle (ma anche dei) “sex workers” si è ormai fatta conoscere, così come i loro bisogni collettivi e individuali (di tutele, di diritti ecc.). Il calo generalizzato della domanda, di cui dicevamo all’inizio, è dipeso anche da una radicale trasformazione nell’identikit del cliente-tipo; esso è oggi anzitutto contrassegnato da una forte componente straniera, di immigrati:

L’influenza dei processi migratori sulla domanda di sesso mercenario da parte degli uomini è favorita da fattori di varia natura. In primo luogo, questo processo sottrae gli individui che partono al controllo esercitato dai familiari, dai parenti e dai conoscenti. L’anonimato in cui vengono a trovarsi nel paese di arrivo e la sensazione che quello che stanno vivendo è un periodo transitorio incoraggiano gli emigrati a comportamenti sessuali che normalmente eviterebbero (p. 468).

Questo ultimo aspetto ci permette di sottolineare, in conclusione, un altro aspetto centrale nella storia della prostituzione: la mobilità, che ha sempre caratterizzato il mondo dell’amore mercenario, dall’epoca delle mulieres vagae medievali in avanti. Le prostitute hanno poi dovuto anche farsi carico del fatto di essere viste elementi perturbatori dell’ordine sociale o fonti di contagio, addirittura simili ad animali e accomunate ad altre categorie di marginali ed emarginati, come gli ebrei e i vagabondi.

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