Francesco Paolella (1978) ha studiato filosofia a Bologna e a Parma. Si occupa di storia della psichiatria. Fa parte del Comitato tecnico-scientifico del Centro di storia della psichiatria di Reggio Emilia. È membro di Clionet, Associazione di ricerca storica e promozione culturale. È redattore della "Rivista Sperimentale di Freniatria" e scrive per TYSM.

Recensione a
D. Fertilio e O. Ponomareva, Eroi in fiamme. Makuch e gli altri che sfidarono l’Urss
Mauro Pagliai Editore, Firenze 2020, pp. 264, €15,00.

Come per quasi tutto ciò che riguarda il totalitarismo sovietico, anche la memoria dei dissidenti si sta perdendo irrimediabilmente. Qui da noi, nell’Occidente dei vincitori, essa è stata volontariamente o involontariamente rimossa, e questo fin dall’epoca in cui il “pericolo rosso” ancora minacciava concretamente la nostra vita. Il mondo della cultura, e specie i paradisi degli intellettuali come la cultura progressista francese o, per altri versi, quella italiana, hanno sempre respinto con sufficienza o con malcelato fastidio le testimonianze di chi era riuscito a scappare dall’Unione sovietica o dai suoi Paesi “alleati”. Ragion per cui è sempre stato difficile far conoscere in Europa le voci di altri intellettuali, di altri poeti, artisti e filosofi, i quali – in Polonia, in Russia o nei Paesi baltici – combattevano una battaglia disperata contro il conformismo sovietico, contro la propaganda sovietica, contro la repressione sovietica.

Chi sacrificava la propria libertà o la propria stessa vita – come è il caso dei protagonisti delle storie raccontata in questo volume, Eroi in fiamme, appena edito da Mauro Pagliai Editore – contro il potere socialista, contro l’ingordigia dei burocrati del partito e contro la violenza incessante della polizia segreta, doveva temere, però, qualcosa di più grave che il silenzio o l’irrilevanza. Chi decideva di opporsi al comunismo imperante, distribuendo volantini, nascondendo in casa un quaderno di poesie o, in casi estremi, dandosi fuoco in una piazza, doveva temere non solo il “vuoto” che il regime avrebbe subito creato attorno al proprio gesto (e alla propria famiglia), ma soprattutto l’assoluto discredito della sua volontà, di ogni suo ideale. Era, infatti, una prassi consolidata quella che gli apparati poliziesco-giudiziari provvedessero subito dopo un “evento” più o meno eclatante e comunque disturbante, a liquidare l’autore come uno squilibrato o una persona dalla mente annebbiata, se non un vero e proprio malato di mente. E ciò non avveniva soltanto negli anni più crudi dello stalinismo, ma anche quando la “destalinizzazione” era – almeno in teoria – un fatto compiuto. Ecco che, immancabilmente, ogni controrivoluzionario era un folle perché non riusciva ad apprezzare l’intrinseca razionalità del socialismo reale o, in altri termini, perché non riusciva a piegare la realtà, il proprio sguardo sulla realtà, alla teoria, alla verità dialettica ufficiale. E su questa speciale “follia antisovietica” sarebbe importante recuperare quanto ha scritto, ad esempio, Vladimir Bukovskij, da poco scomparso.

Questo volume si concentra, appunto, sulle figure – disperse, marginali – degli “eroi in fiamme”, di coloro che scelsero di mostrare al mondo l’intollerabilità di una vita soffocata e inautentica. Tutti ricordano il martirio di Jan Palach e il significato che la sua autoimmolazione seppe assumere, anche in Occidente. Ma furono molti altri gli uomini che scelsero la via del fuoco, specialmente dopo che furono annientate le deboli speranze del Sessantotto orientale, così diverso (per lo stile e le ambizioni) da quello dei movimenti occidentali. La biografia di Vasyl Makuch, il cui nome non dice niente a nessuno qui da noi, è esemplare di quanto potesse essere cruenta la disillusione fra i dissidenti dopo la repressione sovietica in Cecoslovacchia. Di più, anche nel suo caso – lui che aveva già trascorso parecchi anni in un gulag – la fede religiosa fu senza dubbio un movente forte, così forte da decidere di darsi fuoco e «gettare le proprie ceneri in faccia al Partito» (p. 35). Allo stesso modo, contro ogni velleità “internazionalista”, a pesare nella sua scelta fu anche il senso di appartenenza nazionale; era l’idea di ribellarsi in nome di una patria sempre calpestata dall’imperialismo sovietico e dalla russificazione linguistica.

Ecco che a conoscere le vite di quei “santi moderni”, impressionano ancora di più le reazioni quasi sempre caute e riflessive degli intellettuali occidentali, per non dire di quelli direttamente coinvolti nei partiti comunisti. Ne ricaviamo un quadro desolante di opportunismo e meschinità, se non di vera e propria cecità ideologica. Il vero problema è che in Occidente è sempre stata indigeribile l’idea che il socialismo realizzato fosse una esperienza semplicemente fallimentare e non emendabile (e così si spiega, fra l’altro, la popolarità del fallimento di Gorbačëv). Oggi non restano, dunque, che i fantasmi delle vittime di una violenza massiva e assillante, perpetrata scientificamente per decenni e sostenuta anche dalle censure occidentali.

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