Francesco Paolella (1978) ha studiato filosofia a Bologna e a Parma. Si occupa di storia della psichiatria. Fa parte del Comitato tecnico-scientifico del Centro di storia della psichiatria di Reggio Emilia. È membro di Clionet, Associazione di ricerca storica e promozione culturale. È redattore della "Rivista Sperimentale di Freniatria" e scrive per TYSM.

Recensione a
E. Puglia, Il lato oscuro delle cose. Archeologia del fantastico e dei suoi oggetti
Mucchi, Modena 2020, pp. 320, €22,00.

L’Ottocento (letterario e non solo) è stato segnato dal fantastico, un genere che ha avuto indubbiamente in Francia una sua terra d’elezione, ma che si è ramificato ovunque, lasciando tracce importanti anche nel secolo successivo. Questo volume di Ezio Puglia ne ricostruisce con abilità la storia e, in particolare, concentrandosi sul suo aspetto forse più caratteristico: il ruolo giocato nella narrativa fantastica dalle cose, dagli oggetti nella loro concretezza e, allo stesso tempo, nella loro soprannaturalità. Il fantastico è, per eccellenza, il luogo in cui livelli ontologici differenti (o, meglio, contrapposti), si incontrano, interagiscano e finiscono per fondersi, in una confusione che lascia l’osservatore/lettore nello stupore e nell’inquietudine, se non nel terrore.

Il materialismo ottocentesco e il positivismo trionfante per decenni, non hanno semplicemente contribuito a rendere eclatante la crisi del sacro, così come tradizionalmente pensato e vissuto; hanno anche dovuto “convivere” con forme diverse, irregolari di spiritualità, con credenze antiche trasformate in fenomeni inspiegabili e sempre riemergenti: in questo senso, l’Ottocento è stato anche il tempo in cui nuovi abissi sono venuti alla ribalta, ad esempio attraverso le mode del magnetismo, del sonnambulismo e di altre forze psichiche misteriose. Il fantastico ha portato l’imponderabile fin dentro gli oggetti più minuti e quotidiani: autori come Hawthorne e Hoffmann hanno “giocato” con la verosimiglianza di ambientazioni e avvenimenti, appunto per far vedere ai lettori l’invisibile, per far provare loro una sensazione di smarrimento irrimediabile: «Nel fantastico si fa largo uso di artifici argomentativi tipici della storiografia, della trattatistica o della scrittura giornalistica; si afferma esplicitamente la realtà di eventi dalla precisa contestualizzazione storico-geografica; si costruiscono testimonianze che possano apparire credibili; si simula il ritrovamento di documenti» (pagina 76).

Se, da una parte, nella letteratura fantastica la paura atavica del buio e degli spiriti è stato via via espulsa dai pensieri degli uomini, d’altra parte quella stessa paura è rimasta, trasformata in una specie di infezione invincibile: ogni cosa non ha soltanto un dorso visibile e illuminato; essa può nascondere sempre un rovescio terribile. Nella luce (e anche nella luce data dalle lampade elettriche) può nascondersi una traccia di buio. Nel rovescio segreto delle cose, per il quale ogni oggetto – specie se vecchio o antico – può irradiare un’aura inquietante, si trova molto del fascino che il genere fantastico ha saputo conquistare. Nella vita reale, che sempre deve barcamenarsi fra mondi diversi e divisi in modo manicheo (luce-buio, sogno-veglia, vivi-morti), lo spirito che penetra la materia, può sconvolgere gli uomini fino all’ossessione e alla follia: ecco che il fantasma – pensiamo soltanto a Poe – ha saputo raccogliere la fida che la psichiatria ottocentesca ha lanciato alle concezioni tradizionali della mente:

«La patologia di Egæus [il protagonista di Berenice di Poe], che produce automatismi al limite dell’autoipnosi, sarebbe stata dunque un caso di studio perfetto non solo per Jean-Étienne Esquirol, che negli anni Dieci aveva coniato il neologismo ‘monomania’, ma anche per i più tardi Alfred Binet e Théodule Ribot, i quali attribuiranno all’attenzione un ruolo decisivo 49. Egæus lascia intendere che per descrivere a dovere il suo disturbo dovrebbe attingere a un vocabolario scientifico d’avanguardia. Ed effettivamente, alla base dell’idea della malattia di Egæus, sembrano esserci le più recenti scoperte in ambito psicologico» (pagina 121).

Nel secolo dell’incredulità, tanti scienziati, e non solo della psiche, hanno creduto (o tentato di credere) nell’esistenza di spettri o di forze inspiegabili. Lo scetticismo peraltro dominante ha finito per portare a una vera e propria “febbre spiritica”, che ha coinvolto i nomi più importanti della scienza europea, compreso – come è noto – Cesare Lombroso.

Col fantastico si entra nel perturbante e nell’angoscioso e si fa manifesto lo smarrimento di una visione certa e fondata del cosmo e dell’uomo. Le paure – a cominciare da quelle più terribili, quelle infantili – non sono mai vinte e, anzi, sono nascoste in ciò che di più concreto e manipolabile esista: il nostro rapporto, tutto “moderno”, con le cose (infinitamente riproducibili e commerciabili), che sembrerebbe condannato alla superficialità, diventa nei libri del fantastico una fonte inesauribile di altre dimensioni, sconosciute e minacciose. In questo modo, la merce non si esaurisce nel suo prezzo: «Dentro la merce c’è qualcosa che è allo stesso tempo vivo e morto, passato e presente, tattile e spettrale, psichico e fisico; ed è del tutto comprensibile, perciò, che nel suo segreto, oltre al “carattere mistico” e alla possibilità d’una jouissance feticistica e necrofila, sia annidato anche il rischio della pazzia» (pagina 156).

Nei racconti fantastici nessuno può sciogliere i dubbi che anche i più increduli finiscono per avere; come brividi fatti di vuoto, presagi indefinibili, di sensazione spiacevoli e vibrazioni maligne, i fantasmi vengono sempre più interiorizzati ed è sempre più difficile uscire dall’incubo. Il mondo, sempre meglio conosciuto scientificamente e dominato tecnicamente, è tuttavia percorso da forze occulte; nessuna ipotizzata allucinazione riesce davvero a spiegare il perché dell’angoscia che avvolge i protagonisti di racconti che si trovano costretti a confrontarsi con spiriti allo stesso tempo trasparenti e concreti.

Anche l’Italia (pensiamo solo agli scapigliati o a Luigi Capuana) ha conosciuto il fiorire del fantastico nell’Ottocento e ha visto poi, col Novecento, il suo esaurirsi come genere, trasformandosi, però, in frammenti sparsi e disseminati negli altri generi. La vitalità postuma del fantastico è ben chiara in autori come Pirandello e Savinio, Landolfi e Buzzati, con l’esaltazione di una atmosfera che, appunto, risale ai temi e alla retorica del fantastico, pur senza appoggiarsi più agli spettri e alle manifestazioni clamorose. Il tema del doppio e, soprattutto, l’esperienza di un vuoto senza fine, sono due tracce del fantastico che hanno variamente segnato la nostra letteratura novecentesca.

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