Francesco Paolella (1978) ha studiato filosofia a Bologna e a Parma. Si occupa di storia della psichiatria. Fa parte del Comitato tecnico-scientifico del Centro di storia della psichiatria di Reggio Emilia. È membro di Clionet, Associazione di ricerca storica e promozione culturale. È redattore della "Rivista Sperimentale di Freniatria" e scrive per TYSM.

Recensione a
L. Garlaschelli, A. Carrer, Scienziati pazzi. Quando la ricerca sconfina nella follia
Carocci, Roma 2017, pp. 183, €13,00.

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A differenza di altri libri, dedicati a raccontare le biografie di mattoidi e pseudoscienziati più o meno celebri, questo volume si occupa di veri e propri uomini di scienza, tutti dotati di un titolo accademico e, spesso, giunti a ricoprire posizioni importanti nelle università occidentali, ma che, per le più diverse ragioni, sono apparsi, soltanto ai colleghi o all’intera opinione pubblica, come toccati dal demone della follia. Come giustamente notano gli autori nell’introduzione, quella dello “scienziato pazzo” è una figura assai radicata nell’immaginario collettivo ed essa popola, ormai da secoli, romanzi e pellicole cinematografiche. In un certo senso, si tratta di un vero e proprio “eroe del nostro tempo”: la genialità, fin dall’Ottocento almeno, viene associata a peculiari stranezze, se non a manifeste ossessioni. In generale, il tipico “scienziato pazzo” è un uomo, è di mezza età, è trasandato e malvestito, incurante delle regole sociali, quasi mai sposato, indifferente persino ai proprio interessi e tutto immerso in un mondo di ipotesi più o meno assurde. Di più, parla quasi sempre con accento tedesco e, non di rado, coltiva sogni superbi di gloria o progetti francamente criminali.

Questa iconografia dello “scienziato pazzo”, questa caricatura del ricercatore e del suo lavoro, ha tuttora importanti conseguenze su ciò che l’opinione pubblica pensa della scienza e dei suoi protagonisti: «Un recente ricerca […] ha mostrato che già i bambini delle elementari – ma anche fino alle scuole superiori – si rappresentano esattamente in questo modo gli scienziati veri. Il rischio è quindi che i giovani abbiano della scienza un’immagine errata, distorta e negativa, che potrebbe allontanarli dall’intraprendere una carriera in quest’ambito» (pagina 13). Oggi, però, è anche vero che è assai meno frequente imbattersi in uno di questi “scienziati pazzi”: forse la figura del nerd ha finito per prendere il loro posto. D’altra parte, è sicuramente vero che oggi tanti esperimenti “estremi” – quelli in stile Frankenstein per intenderci –, che due secoli fa sarebbero stati ammissibili, oggi non lo sarebbero più. La deontologia e l’etica hanno posto limiti sempre più rigorosi al lavoro nei laboratori. Occorre, però, sempre contestualizzare il momento storico e l’orizzonte culturale in cui tante “invenzioni” – e specie in campo medico – sono avvenute. Prendiamo solo in considerazione uno degli esempi forse più famosi (oggi famigerati): l’elettroshock, opera di Ugo Cerletti e Lucio Bini negli anni Trenta del Novecento. Ai più esso appare come una terapia crudele e inumana, ma allora – quando ancora non esistevano vere cure per le malattie mentali – rappresentava una possibile soluzione, persino “umana”.

Come dicevamo all’inizio, i due autori di questo volume si sono occupati di veri uomini di scienza, tralasciando i dilettanti e gli autodidatti, i quali hanno sempre cercato di utilizzare i mass media per farsi conoscere (e celebrare) e che oggi popolano la rete. Nel libro troviamo descritte le vicende di scienziati insigniti del premio Nobel, fisici, chimici o medici, i quali, però, dall’alto delle loro cattedre e del loro successo, hanno anche coltivato un’idea fin troppo originale, tramutandola talvolta in un vera idea fissa, più o meno delirante (solo per per fare un esempio: l’esistenza degli extraterrestri). Al polo opposto di questa rassegna, ecco invece degli scienziati più “normali”, persino marginali, sicuramente meno noti e semplicemente bizzarri, le cui idee, però, sono state talvolta realmente anticipatrici, se non davvero rivoluzionarie.

In quali campi del sapere è più facile incontrare degli “scienziati pazzi”? Anzitutto, un loro campo privilegiato è sempre stato quello della morte e del trattamento dei cadaveri: ecco generazioni di pietrificatori e rianimatori, le cui idee sono state anche fonte inesauribile di ispirazione per la letteratura fantascientifica. Ad ogni modo, la medicina odierna si è indubbiamente giovata di tanti progetti deliranti, come quelli dedicati alla possibilità di trapiantare teste o di tante ricerche sulla sopravvivenza del pensiero in teste appena ghigliottinate. In secondo luogo, dobbiamo ricordare la sessualità e la procreazione, giungendo alle aberrazioni eugenetiche fatte per arrivare alla creazione di nuove razze o all’allevamento di animali (ad esempio, gli scimpanzé) come umani. Un altro settore in cui questa “follia scientifica” si è applicata tanto è quello della scienza della mente, della psicologia sperimentale, in primo luogo attraverso l’uso sperimentale di sostanze psicotrope più o meno illegali. E pensiamo, in questo senso, alle tante “prove” con Lsd o Mdma portate avanti in prima persona da ricercatori statunitensi a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso.

Potremmo continuare a lungo, ad esempio citando i “geni patriottici” che si sono impegnati a progettare nuove armi per la difesa del proprio paese o, ancora, ai tanti emuli di Tesla (vera icona pop dello “scienziato pazzo”), che si sono dedicati a inventare usi rivoluzionari dell’elettricità. Per concludere, possiamo senz’altro riconoscere che lo “scienziato pazzo” è stato davvero un protagonista essenziale nella storia occidentale dagli inizi dell’Ottocento e fino alla seconda metà del Novecento almeno, fondendo in sé, in un modo a volte inquietante o a volte solo bizzarro, i valori del positivismo e quelli del romanticismo, e consegnandosi, spesso come vittima ingenua e stralunata, nelle mani di mercanti e industriali senza scrupoli.

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