Giusy Capone insegna Lingua e cultura greca e Lingua e cultura latina dal 1998. Giornalista, è redattrice della Rivista culturale bilingue registrata "Orizzonti culturali italo-romeni"; si occupa delle pagine culturali di diversi portali dell'area Nord di Napoli; collabora con l'Istituto di Mediazione linguistica di Napoli; cura un blog letterario.

In seguito al completamento della vendetta contro i pretendenti, Odisseo ha ancora ben tre prove da affrontare: farsi identificare da sua moglie, farsi riconoscere da suo padre Laerte e, infine, riprendere il dominio su Itaca.

Fra tutte le agnizioni, il riconoscimento da parte di Penelope appare il più arduo e regala l’occasione per un racconto vasto e composito. Fino a questo momento, Odisseo non ha dovuto sforzarsi troppo, per dimostrare la propria identità: suo figlio Telemaco, dopo un fugace momento di sbigottimento, dovuto alla fulminea metamorfosi di quello che, un istante prima, spuntava come un questuante attempato e cencioso ed ora si porge al suo sguardo quale uomo incantevole, accetta con trepidazione e con esultanza la notizia; il cane Argo percepisce il padrone al solo tono della voce; Euriclea lo distingue dalla cicatrice; Eumeo e Filezio accolgono senza esitazione la parola del loro signore, rafforzata dalla veduta dello stesso sfregio; i pretendenti sono obbligati a prendere atto del rientro e dell’identità dell’eroe un momento prima che egli, ammazzato Antinoo, inizi la carneficina.

Penelope, però, non si contenta delle asserzioni di Euriclea bensì si mostra spinta da emozioni differenti: prudenza, cautela ma anche circospezione ed inquietudine. Pertanto, non accetta  l’affermazione di Telemaco e, alle parole di ammonimento del figlio, domanda di essere lasciata sola con l’ospite, affinché lo ponga alla prova: non è certa che l’uomo sia Odisseo ma non è neppure convinta che non lo sia.

D’altronde, l’eroe non compie alcuna azione per sforzare la sposa ad una veloce decisione; all’opposto, palesa di cogliere le sue perplessità, attribuendole al fatto che egli si esponga a lei celato da pezze ed immondizia. Allorché Penelope lo scorgerà mondo e vestito di abiti puliti, tutte le sue incertezze cadranno. Dunque, si consegna alle cure di Eurinome: bagno ed abiti decenti.

L’episodio del bagno non è che l’epilogo di un iter di riedificazione dell’identità di Odisseo, cominciato precedentemente. Omero, in realtà, ha già fornito particolari presagenti ben altro. Il lavacro e la sostituzione degli indumenti hanno, inoltre, la finalità di purificare l’eroe dal sangue dello sterminio e ridonargli dignità. Inoltre, Atena ne aumenta la magnificenza e la maestosità, così come era accaduto quando Odisseo aveva accettato da Nausicaa, al suo approdo sull’isola dei Feaci, abiti nuovi (Odissea, VI, 209-237). Mentre la figlia di Alcinoo era stata abbagliata da sorpresa ed apprezzamento, Penelope appare del tutto distaccata e resta zitta al cospetto della metamorfosi di Odisseo.

Così, inversamente a quanto accade nell’episodio di Nausicaa, l’eroe è tenuto a parlare, rivolgendosi subito alla moglie, poiché, Telemaco, che, precedentemente, è stato un mediatore tra i due, li ha lasciati da soli. Ora che la triste e aggrovigliata serie delle vicissitudini di Odisseo sta ormai volgendo a conclusione, l’eroe si appresta a godere del momento più estesamente agognato:  l’incontro con la moglie, che l’ha atteso lealmente, resistendo con ostinazione e sopportazione sia a lusinghe che a minacce.

Con grande abilità narrativa, il poeta allunga la situazione di suspense, rinviando il più possibile l’agnizione. Difatti, oppostamente alla prospettiva di Odisseo, Penelope si mostra nei suoi confronti impassibile, quasi non voglia ammettere la congettura che egli è finalmente rientrato. Di fronte all’impassibilità della donna per amore della quale ha rifiutato l’eternità offertagli dalla ninfa Calipso, Odisseo lascia trapelare rimbrotto ed amarezza, malgrado l’aggettivo δαιμονίη con cui si rivolge alla regina, e che viene usato anche per designare una persona fornita di un’intelligenza vivace, non estrometta un dettaglio di lode.

Poiché nemmeno in tal modo ottiene una reazione, Odisseo si rivolge ad Euriclea, chiedendole di apparecchiargli un giaciglio, perché desidera dormire. Penelope ordina, dunque, alla nutrice di far portare fuori dalla camera nuziale il letto e di lanciarvi sopra pelli e coperte. A tali parole, la stizza di Odisseo si trasforma in rabbia ed egli chiede alla moglie, gonfio di livore, se per caso qualcuno, in sua assenza, abbia reciso il ceppo di olivo, solidamente radicato in terra, su cui egli aveva fabbricato il letto nuziale. Solo in questa maniera, infatti, sarebbe stato possibile spostarlo.

Questa è la replica che Penelope, la περίφρων, la “saggia”, la “prudente”, l’”astuta”, degna sposa del πολύμητις Odisseo, attendeva da tempo; questo è il σῆμα , il “segno” a cui ha alluso, parlando a suo figlio (Odissea, XXIII, 110); un dettaglio conosciuto esclusivamente a lei ed al coniuge, l’unico che potrà darle la sicurezza del riconoscimento.

Adesso, soltanto la regina può obiettare alle parole di Odisseo, rivolgendosi a lui con lo stesso aggettivo usato per lei, ovvero δαιμόνιος, che comporta sia l’idea dell’afflizione che quella della perspicacia, per attestare che il suo cuore non è né borioso né rigido e discolparsi, così, dalla critica che le è stata mossa sia dal figlio che da Odisseo.

La frase successiva, «so bene com’eri quando partisti da Itaca», ha un significato enigmatico soltanto in apparenza; in realtà, in essa è già implicita l’ammissione del riconoscimento, perché ella si volge all’eroe non come all’ospite o al forestiero ma come al marito partito vent’anni prima, magnifico per gradevolezza e per forza.

In seguito, finalmente, ecco giungere, in risposta all’ordine impartito ad Euriclea, l’ultimo avallo, il segno più espressivo di ogni altro, la notoria storia del letto nuziale e l’incontro si chiude in lacrime liberatorie, in cui si estingue ogni attrito. Il passo, contraddistinto da un contenuto vivamente lirico, porge due spunti particolarmente sintomatici: l’accenno all’invidia degli dei e la rapida divagazione sulla condotta di Elena.

Quando Penelope afferma che la felicità sua e di Odisseo era sembrata agli dèi così grande da oltrepassare la misura accordata ai mortali e che, per tale ragione, essi avevano deciso di allontanarli, il poeta dell’Odissea precorre, mediante il suo personaggio, uno dei concetti “chiave” dell’ideale arcaico: tutto ciò che è in eccedenza turba l’equilibrio universale e deve essere ridotto a giusta misura. Tale convincimento, alla base del pensiero del legislatore ateniese Solone, trovò, in seguito, vasta applicazione nella storiografia di Erodoto e nelle tragedie di Eschilo.

Quanto alla considerazione di Penelope a proposito del contegno di Elena, essa suscitò incredulità già nei commentatori antichi, tanto che Aristarco reputò spurii questi versi, esprimendo un parere condiviso da parecchi studiosi moderni. Il momento in cui Penelope accenna alla vicenda di Elena, che, quanto a condotta, si forgia come la sua compiuta antitesi, è notevolmente caratteristico: la sposa di Odisseo, infatti, deve far intendere al marito le ragioni del suo manifesto gelo. La prima può essere esplicitata senza titubanze: Penelope afferma di aver già sofferto a sufficienza per la distanza del marito e per tutte le amarezze che ha subìto; è, dunque, per timore di penare un disincanto ancora più penoso, che ella tituba di fronte a questo singolare protagonista che dichiara di essere suo marito e che le è apparso come un mendicante, per essere poi soggetto alla più eccezionale delle metamorfosi.

La seconda ragione, ricollegabile alla prima, ma espressa meno chiaramente, è che ella si ritiene donna troppo saggia e guardinga per capitolare, senza ragionare, di fronte ad un impulso, anche se violento e dovuto, come la gioia per il ritorno del marito, senza ponderare bene prima le ipotetiche conseguenze del suo comportamento.

Se parlasse subito in questo modo, il suo discorso potrebbe apparire uno spudorato elogio di sé stessa, disdicevole per una donna come lei. Ecco allora l’accenno ad Elena: se anche la figlia di Zeus avesse riflettuto sui funesti esiti che sarebbero derivati dalla sua fuga, non avrebbe, di sicuro, ceduto alle lusinghe di Paride. Sul momento, però, Elena seguì alla cieca l’impulso, travolta, probabilmente, da una volontà divina più forte della sua, e non previde che, dopo infinite avversità da ambo le parti, gli Achei l’avrebbero ricondotta in patria. Solamente troppo tardi si accorse del male che aveva causato.

Odisseo è «il più saggio degli uomini in tutte le cose»; deve dunque intendere che la discrezione di Penelope, che potrebbe sembrare, ad un giudizio imprudente, rigidità e cocciutaggine, altro non è che un’ennesima conferma di quell’assennatezza per la quale è divenuta celebre e che contrassegna, da sempre, ogni suo pensiero ed ogni sua azione.

Loading