Giusy Capone insegna Lingua e cultura greca e Lingua e cultura latina dal 1998. Giornalista, è redattrice della Rivista culturale bilingue registrata "Orizzonti culturali italo-romeni"; si occupa delle pagine culturali di diversi portali dell'area Nord di Napoli; collabora con l'Istituto di Mediazione linguistica di Napoli; cura un blog letterario.

L’uomo greco è un animale sociale perché piegato ad una gerarchia morale che pone sotto silenzio la sfera emotiva in ragione dell’ossequio a forme aggregative fortemente normate. La commensalità stessa è istituzionalizzata secondo regole e protocolli lontani dal piacere della tavola. L’uomo greco è un animale sociale? È partorito con dolore dalla polis?

Aristotele nella Politica sostiene che sia naturalmente politico. Tale nota ed abusata definizione percepisce l’uomo piegato ad una gerarchia morale privilegiante il pensiero sulle emozioni, subordinante le urgenze spirituali, i bisogni familiari, le scosse emotive ad un maggiore ordine politico. Che si provi ad inseguire un’altra idea: la relazione uomo-società è dinamica.

Non esiste l’uomo greco bensì un uomo che durante le ideali età eroica, agonale, politica e cosmopolita si è espresso in forme di socialità come, tra le altre, la commensalità. Che si provi a gettare lo sguardo oltre gli schermi della lingua e delle istituzioni. Sediamoci a tavola! In Grecia i prodotti intensamente pregni di significato sono il vino e la carne, prodotti il cui consumo è deputato ad occasioni speciali e, soventemente, rituali. Marx, probabilmente, avrebbe riflettuto su una forma di redistribuzione del surplus attuata con la manifestazione della ricchezza, del lusso, del potere, esibite al cospetto degli uomini e finanche degli dei! La carne è mangiata durante le cerimonie religiose in stretto rapporto con il sacrificio in cui l’offerta viene bruciata: l’animale è ucciso, bollito, affinché le carni risultino tenere, quindi mangiato.Gli dei vengono omaggiati del profumo delle interiora.

È una festa, una circostanza di gioia, di sgravio dalle fatiche del quotidiano. È l’atteso straordinario. La comunità può addirittura spalancare le porte agli stranieri! Si beve persino: l’alcool è catartico di irrequietezze sociali e rafforza i legami dei gruppi ristretti. L’alcool come carnevale del tutto lecito, tutto permesso, tutto consentito. L’alcool come potere: mezzo di rigido controllo sociale. Il barbaro ama bere eccessivamente e disordinatamente; il greco diluisce il vino con acqua in un delineato ambiente sociale. Le donne bevono segretamente, smembrano la vittima sacrificale, la dilaniano, la ingoiano ancora cruda.

È lampante l’importanza della commensalità ed i Deipnosofisti di Ateneo lo denunciano. Nei poemi omerici il mondo stesso è strutturato intorno a riti di commensalità: le caratteristiche dell’abitazione di un basilèus eroico sono il mègaron, sala dei banchetti, ed il magazzino, funzionale alla conservazione dell’eccedenza della produzione. Lo status stesso è definito dal cibo, tanto che nell’Iliade si canta «I nostri nobili… / sono grandi uomini, mangiano grasse pecore/e bevono il migliore dei vini…». Achille si rifiuta di partecipare ai riti della commensalità. I Proci li trasgrediscono, violando le norme di reciprocità e competizione. La realtà sociale arcaica è, dunque, connessa alla funzione sociale della guerra e alla euphrosyne, al piacere.

Gli anni vedranno, poi, la trasformazione del mègaron in andròn e del deipnon in sympòsion: il cibo è separato dalle bevande, si elaborano rituali specializzati destinati a piccoli gruppi, la poesia con accompagnamento musicale diventa centrale. La casa luccica d’armature bronzee ma vino, donne e canto rivelano un differente intendimento d’euphosyne: comodità, raffinatezza, intrattenimento, liberazione della sessualità. Nel cosiddetto periodo classico il contesto sociale muta e con esso la texture socialità-polis, spesso rintracciata nel “focolare comune” conservato nel prytaneion, luogo precipuo della commensalità pubblica, pasto onorifico di un’élite, onore a cui un membro comune del demos non può aspirare. Per i pasti pubblici lo Stato ateniese aveva un altro centro, questo sì concretamente democratico: 50 pritani al lavoro, contemporaneamente; una cucina ed una sala da pranzo nella Tholos.

Dovrebbe essere ragione di attenta meditazione che, oggi, non si disponga d’informazioni dettagliate a proposito di una tal pratica non onorifica di commensalità. Istituzioni locali ufficiali, demi e fratrie acquisiscono progressivamente i propri riti di commensalità. La liturgia dell’hestìasis, i banchetti nuziali e quelli legati alle Apaturie dichiarano un processo di politicizzazione dei costumi sociali basati sul cibo ed un mancante concetto d’individuo che, tuttavia, non è privo di libertà: una libertà d’espressione del sé nella socialità, nella possibilità di scegliere fra una molteplicità di legami sociali. Una “libertà interstiziale”.

Il mondo ellenistico, infine, congiunge l’organizzazione sociale, peculiare della vita di corte delle monarchie ellenistiche, e quella coloniale diffusa dall’Afghanistan all’India, dall’Egitto al Nord Africa. Si mangia insieme, sdraiati, in abbondanza; si beve smodatamente: libertà di parola, liti, zuffe, omicidi, sfacciata ostentazione del tryphè, ovvero del lusso, sfoggio prodigioso di bestie sacrificali, evergetismo a beneficio della comunità. La polis si scopre appartenente ad una più vasta comunità culturale. Ebbene l’uomo greco non riuscirà a liberarsi mai dai lacci della socialità, dai vincoli del Noi.

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