Giusy Capone insegna Lingua e cultura greca e Lingua e cultura latina dal 1998. Giornalista, è redattrice della Rivista culturale bilingue registrata "Orizzonti culturali italo-romeni"; si occupa delle pagine culturali di diversi portali dell'area Nord di Napoli; collabora con l'Istituto di Mediazione linguistica di Napoli; cura un blog letterario.

Cesare Pavese scrive nel 1947 i Dialoghi con Leucò, in cui, secondo Roberto Cantini, «cerca di afferrare il mito là dove nasce e farlo scaturire dalla profonda intimità del suo essere: forse una speranza di riscatto e di espiazione che la vita gli negò».

Sono esattamente brevi dialoghi tra personaggi mitici che discorrono di sé, della vita e della morte. Il mito, così, diventa in Pavese una chiave d’accesso al mistero.

Il dialogo, che implica il tema in esame, è quello tra Orfeo e Bacca, una baccante, ed è anticipato da una annotazione dello stesso autore che ne rischiara il difficoltoso significato:

Il sesso, l’ebbrezza, il sangue richiamarono sempre il mondo sotterraneo e promisero a più d’uno beatitudini ctonie. Ma il tracio Orfeo cantore, viandante nell’Ade e vittima lacerata come lo stesso Dioniso, valse di più.

Orfeo, quindi, per Pavese ha vinto, «valse di più», giacché, come dice alla Baccante, ha esperimentato nella sua anabasi nell’Ade, il raccapriccio del nulla: «aver visto in faccia il nulla» è una morte, un freddo intenso che seguono l’esperienza del sesso, tuttavia sono fondamentali per trovare se stessi.

Orfeo afferma: «Ho cercato me stesso», per farlo «è necessario che ciascuno scenda una volta nel suo inferno». Egli, pertanto, si è voltato volutamente: «Ridicolo che […] mi voltassi per errore o per capriccio», eccepisce. Difatti, Euridice esprime una stagione della vita che non può più far ritorno. Indugiare nell’ambire a riportare alla luce implicava il pericolo di sciupare la realtà: «si perde la luce». D’altro canto, la sorte dell’uomo è agognare vanamente di «vincere la notte» con il sesso. Interlocutrice di Orfeo è, allora, non più Euridice, come nel testo latino, ma la Baccante, emblema di erotismo e di vita, che tenta di arrivare a conoscere le ragioni del folle «voltarsi».

Orfeo spiega con un «lo cercavo, piangendo, non più lei, ma me stesso. […] Non si cerca che questo […]. Ma che cosa sia un uomo è ben difficile dirlo». Cosa ha trovato Orfeo?

Il messaggio è enigmatico: «aver visto in faccia il nulla». La superfluità assoluta della vita, la pochezza, l’assenza che la connotano. Ricondurre in vita Euridice, in tal caso, era sterile, poiché avrebbe riprovato «quel gelo […] quel vuoto».

Non si ferma il destino: «L’Euridice che ho pianto era una stagione della vita»; concede: «si faceva ricordo, sapeva di morte […] la stagione è passata».

Bacca, viceversa, intona messaggi di sesso e di vita: «un’ebbrezza travolge la vita e la morte e ci fa più che umani […] Qui crediamo all’amore e alla morte, e piangiamo e ridiamo con tutti». Da ultimo, lo ammonisce: «il tuo pensiero è solo morte… è una strada più semplice, d’ignoranza e di gioia».

Lei riconosce che non serve calarsi nel fondo, perché «non si vince la notte e si perde la luce». Il fato è contrassegnato «più profondo del sangue, di là di ogni ebbrezza». Necessario è piegarsi senza riflettere, per poi ridestarsi «ogni volta».

Eppure, per Orfeo non c’è «risveglio» e la netta deduzione del dialogo allude alla morte di Orfeo narrata da Virgilio: «Purché le donne di Tracia non sbranino il dio».

Può darsi che Pavese intenda richiamare alla memoria come la voce della poesia sia indisponente, amara, per chi desidera vivere, con desolazione inconscia, la propria esistenza.

Gesualdo Bufalino nella raccolta di novelle L’uomo invaso incastra un breve racconto, Il ritorno di Euridice, con cui offre una lettura bizzarra dell’episodio:

Euridice […] voleva capire: […] perché, perché s’era irriflessivamente voltato? […] E così, risucchiata dal buio lo aveva visto allontanarsi verso la fessura del giorno. Ma non sì da non sorprenderlo, in quell’istante di strazio, nel gesto di correre con dita urgenti alla cetra e di tentarne le corde con entusiasmo professionale […] Allora Euridice si sentì d’un tratto sciogliere quell’ingorgo nel petto e trionfalmente, dolorosamente, capì: Orfeo si era voltato apposta.

Ergo, Orfeo vuole continuare a cantare e non può tassativamente ricondurre con sé Euridice, poiché, diversamente, terminando la sua pena, finirebbe anche la causa stessa del suo canto. Il gesto impulsivo in Virgilio poteva anche manifestarsi come un abbaglio dalla finalità catartica.

Per Bufalino, anzi, la poesia è «un filo di musica» che «s’era infiltrato, via via sempre più teso e robusto, fino a diventare uno spago invisibile che la [Euridice] tirava, le circondava le membra gliele liquefaceva in un miele umido e tiepido, in un rapimento e mancamento assai simile al morire». Una specie di insania che carpisce sia l’ascoltatore che l’artista: «corteo d’usignoli stregati, stregato lui stesso».

Il poeta, cosciente della sua forza, si «pavoneggia». Il finale, beffardo ed acre, palesa che la funzione di poeta estromette ogni affetto mondano e si ritira solo su di sé, si estingue solo in sé in una divina e abbacinante autoreferenza. La figura virgiliana, in grado di vincere la morte, scende nell’Ade, ma si abbandona al furor: fata crudelia […] in fata resistant […] moritura puella. Il destino non gli permette, perciò, di disporre dell’immortalità, se non come canto: canere, canebat.

La tessitura del racconto di Bufalino, invece, scivola in analessi sulla scia dei ricordi di Euridice, che si succedono, si accavallano, si ingarbugliano nella sua mente, sinché lei non perviene alla micidiale scoperta: «l’aveva fatto apposta».

Euridice, emerge, in tal modo come privata del carisma sfumato che il testo virgiliano le conferisce: natantia lumina, frigida, misera; è ricondotta a donna qualunque, calata nella foschia dell’ordinario: «con le chiome secche, male truccata, con la pelle indurita dai rovi e dalle tramontane». Orfeo, al suo cospetto, riempie uno spazio narrativo limitato a sole sette righe «gli basta modulare a mezza voce l’ultimo dei suoi successi […] s’eclissava in compagnia d’un popolo di fanciulli». Il suo canto è qualcosa «da esibire al pubblico, ai battimani, ai riflettori della ribalta».

Il suo gesto «di correre con dita urgenti alla cetra e di tentarne le corde con entusiasmo professionale» sarà quello che irraggerà la mente di Euridice, con indubitabilità triste ed inoppugnabile e le chiarirà, in conclusione, il senso del suo strazio cupo «sotto la costola». La progressione del suo andamento mentale che è «presagio», «sospetto», «vergogna», «ingorgo nel petto», sfocia nel «trionfalmente, dolorosamente capì».

Il narcisismo di Orfeo, per questo, mortifica spietatamente gli affetti all’arte, il solo bene che sa cibarsi di se stesso, e che commemora quanto a fine Ottocento andava affermando Oscar Wilde: «La moralità artistica consiste nell’uso perfetto di uno strumento imperfetto». Ed Euridice, «strumento imperfetto», viene adoperata appunto allo scopo di plasmare qualcosa di «perfetto»: il canto. Bufalino riprende esattamente le parole di Virgilio. Così Euridice è circumdata nocte (risucchiata dal buio). Simili sono anche le sconsolate domande retoriche del monologo di Orfeo:

Quid faceret? Quo se rapta bis coniuge ferret? Quo fletu manis, quae numina voce moveret, «Tu sei morta, mia vita ed io respiro?», «Tu sei da me partita per mai più tornare», «ed io rimango?».

Analoga è nei due testi anche l’ossessiva reiterazione del nome Euridice che rimbombare come un singulto, «come un ulteriore obolo di soccorso».

Le cosmicomiche di Italo Calvino sono una serie di racconti pubblicati nel 1965 che prendono il nome dal termine “comiche” del cinema. Il comico deriva dalla discrepanza tra la convenzionalità e la essenzialità delle cose a cui siamo abituati nel mondo coevo e l’assurda inverosimiglianza di un mondo fantasticato e distante. Ne consegue un poderoso contraccolpo “straniante” che fa affiorare la indiscussa parzialità di ogni norma, di ogni certezza.

Il racconto che ricalca l’episodio di Orfeo ed Euridice è intitolato Senza colori.

I due protagonisti sono Qfwfq, la voce narrante maschile e una creatura lunare, Ayl, «un’abitante felice del silenzio», che vive immersa in un mondo «senza colori», pre-terrestre.

Il gioco di seduzione tra i due assume i connotati della schermaglia tra due adolescenti che si piacciono, si cercano, si rincorrono. Infine Ayl, appena il mondo si colora, scompare e Qfwfq la cerca sconsolato, finché la ritrova nel buio incolore di prima. Lei vuole seguirlo alla luce: «Va avanti e non voltarti», gli dice, ma egli ricorda disperato:

Mi voltai a guardarla. Udii il grido di lei che si ritraeva verso il buio […] e una parete di roccia s’innalzò di colpo, verticale, separandoci […] Ayl era rimasta dietro la parete di roccia chiusa nelle viscere della Terra.

Senza lei, il mondo tinto dell’uomo perde ogni seduzione e diviene spento:

tutto m’apparve così insulso, così banale, così in contrasto con la persona di Ayl, con il mondo di Ayl, con l’idea di bellezza di Ayl, che compresi come il suo posto non avrebbe mai più potuto essere di qua. E mi resi conto con dolore e spavento che io ero rimasto di qua, che non sarei mai più potuto sfuggire a quegli scintillii dorati e argentei […] e che il mondo perfetto di Ayl era perduto per sempre.

La corrispondenza col testo virgiliano è sottile, quasi assente, congiunta al divieto di girarsi. Alla luce del confronto si coglie, conseguentemente, quantunque la diversità, un tratto comune, molto deciso ed eloquente: è il “quotidiano” a distorcere il mito ed a pilotare in forma di discorso conforme a quello oggettivo ed imitativo.

Loading