Francesco Paolella (1978) ha studiato filosofia a Bologna e a Parma. Si occupa di storia della psichiatria. Fa parte del Comitato tecnico-scientifico del Centro di storia della psichiatria di Reggio Emilia.È membro di Clionet, Associazione di ricerca storica e promozione culturale. È redattore della "Rivista Sperimentale di Freniatria" e scrive per TYSM.

Recensione a: A. Rapini, L’antifascismo. Una tradizione generativa (1945-2025), Donzelli, Roma 2025, pp. 201, € 18,00.

Il tentativo (per certi versi eroico, dati i tempi) di Andrea Rapini, storico a Bologna, in questo libro è di collegare alle discussioni sull’antifascismo (morto? Oppure solo in crisi?), non la paura (“Sono tornati i fascisti al governo!”) e neppure la nostalgia banale di associazioni e gruppi ormai solo decorativi, ma la speranza. In altri termini:

Nell’uso della storia e della memoria dell’antifascismo non c’è stato alcunché di residuale. Questo nuovo e contemporaneamente antico attore sociale non recuperò l’antifascismo funereo dei morti da ricordare, né quello apocalittico, preoccupato del ritorno del fascismo, e neppure quello retorico respingente o ancora il minoritarismo dei piccoli gruppetti, bensì il filone più vitale, associato all’immaginario dell’insorgenza partigiana. Riviveva così quel filone originario e generativo che parlava di trasformazione dei rapporti di potere, di giustizia sociale e di liberazione poi tradotto nella Carta costituzionale (pp. 170-171).

L’eredità dell’antifascismo italiano contiene tuttora un patrimonio valoriale vivo, che è già confluito ottanta anni fa nella lotta partigiana (complicata, variegata, per certi versi contraddittoria) e, soprattutto, nella Carta costituzionale. In sintesi: il celebre articolo 3 della Costituzione è la concretizzazione dei progetti di democrazia sociale, progressiva, che sono stati alla base e hanno sostenuto i lunghi anni (disperati) di opposizione al fascismo di tanti italiani, ma che in realtà furono sempre molto pochi e molto spesso isolati gli uni dagli altri, eppure depositari e testimoni di quello che di buono ha prodotto la storia novecentesca dell’Italia.

Rapini parte dall’attualità, da questi nostri anni in cui – forse davvero si tratta di uno dei paradossi della storia – la destra al governo si trova – dando sempre più o meno l’impressione di essere imbarazzata e reticente – a difendere e a portare avanti i valori dell’antifascismo. Al di là del fatto che – per riprendere Alessandro Giuli – siamo realmente di fronte in presenza di una nuova egemonia culturale della destra, ciò che è certo è che tanti segnali mostrano allo stesso tempo che Fratelli d’Italia e le altre forze di governo non possono essere ricondotte al “fascismo” e che diversi aspetti dell’immaginario dell’Italia fascista (ma anche pre-fascista) resistono e talvolta riemergono platealmente nelle parole e nelle scelte della destra. Il ritorno alla nazione come comunità naturale, la rivendicazione dell’innocenza (il nostro solito vittimismo) degli italiani nei secoli passati ecc. ecc., sono soltanto esempi di una idea nuova, molto efficace, di democrazia che la destra cerca di portare avanti, alternativa a quella nata dopo la seconda guerra mondiale.

E dall’altra parte, cosa resta? Non pensiamo agli eredi (ormai di terzo grado) dei vecchi partiti repubblicani: cosa c’è di antifascista nel resto della politica italiana? Anche l’idea della crisi dell’antifascismo (ricordiamo il bel libro di Sergio Luzzatto di vent’anni fa) ormai è datata e, per certi versi, superata. I valori antifascisti riemergono in una retorica, a volta francamente stucchevole, in certe date canoniche, ma per il resto? Eppure ci sarebbero tanti ambiti della vita politica in cui l’antifascismo potrebbe essere davvero un “tradizione generativa”, tutt’altro che mera conservazione.

La parola «generativa» fa riferimento a una costellazione di significati: è la capacità di una specifica tradizione – nel nostro caso l’antifascismo – di rinnovarsi, preservando, al contempo, un nucleo originale invariante, di accendere dei processi positivi per la democrazia, di stimolare un pensiero critico, libero e vitale sulla politica e sul mondo sociale, di coinvolgere altre persone in una dimensione sociale, collettiva e partecipativa, è l’apertura all’alterità e ai margini in contrapposizione a tutto ciò che chiude, blocca, scarta, costringe, sorveglia, riproduce l’esistente identico a se stesso (p. 21).

Ecco le battaglie per la cittadinanza, per nuove cittadinanze, per la parità di genere, per una inedita riflessione sul razzismo (passato e presente) degli italiani, ecco le battaglie per l’equità fiscale (che ne è ormai del principio della progressività delle imposte?) e per la dignità del lavoro, per non dire del pacifismo. La memoria dell’antifascismo, in modi sempre nuovi, può essere un vero “brodo di cultura” per far nascere nuove esperienze, nuove idee, anche e particolarmente eccentriche, minoritarie, locali, legate a lotte specifiche. È un po’ quello che è successo alla fortuna dell’antifascismo nel secondo dopoguerra e soprattutto negli anni della “stagione dei movimenti”. Pur non dimenticando (e non dimenticandosi di condannare) i deliri criminali di chi voleva fare dell’“antifascismo militante”, c’è nella storia italiana tutta una teoria di voci, di idee, di lotte per cercare di riportare all’origine (alle origini democratiche e costituzionali) la vita sociale e politica del Paese. Pensiamo solo a quanto l’antifascismo e la memoria della prigione, abbiano pesato nel percorso di Franco Basaglia per la chiusura dei manicomi.

Rapini colleziona in questa pagine diverse esperienze, diverse iniziative, campagne, che rappresentano non tanto un cammino coerente e progressivo, ma la possibilità dell’alternativa sempre presente, il valore che le culture critiche, minoritarie, conservano anche oggi. Volendo scegliere un percorso, forse quello dell’antirazzismo, l’andare contro il cliché degli “italiani brava gente” (mai forte come oggi), l’acquisire una nuova consapevolezza del passato coloniale violento dell’Italia, è il campo d’azione più ricco e promettente. Le nuove generazioni potrebbero ritrovare nella ineguaglianza imperante, nella sensazione di una impotenza davvero diffusa, le stesse difficoltà di chi combatteva il regime negli anni Trenta. Non si tratta – ovviamente – di organizzare fantomatiche (e ridicole) “insurrezioni” o “rivoluzioni sociali”: basterebbe iniziare a immaginare critiche e alternative, anche personali, a ciò che oggi “funziona” e ci governa. Insomma sarebbe già tanto se sempre più persone iniziassero a chiedersi, citando un bellissimo romanzo: “A che punto è la notte?”.

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