Enrico Orsenigo (1992), psicologo iscritto all’Ordine degli Psicologi del Veneto, è Ph.D. Student in Learning Sciences and Digital Technologies all'Università degli studi di Modena e Reggio Emilia. Nei suoi articoli si occupa di psicologia clinica, psicologia dello sviluppo, psichiatria fenomenologica e filosofia della tecnica.
Limitandoci alle scienze umane, vi sono validi motivi per ritenere che la durata di un articolo scientifico si riduca a poche ore dalla pubblicazione del volume della rivista in cui è incluso. Un lasso di tempo così breve impedisce all’articolo di trasformarsi in un vero prodotto di conoscenza. Affinché un’informazione diventi conoscenza è necessario un processo di sedimentazione che richiede attenzione al contributo, discussione tra i lettori, citazioni in altri articoli, diffusione dei risultati e confronto sia in ambito accademico che in contesti più ampi, come la società civile e spazi interdisciplinari, dove il contributo può interagire con linguaggi diversi.
Nella newsletter More Digital del dottorato nazionale in Learning Sciences and Digital Technologies, insieme alle colleghe Cecilia Pellizzari e Maria Valentini, rispettivamente dell’Università di Modena e Reggio Emilia e dell’Università di Padova, nelle scorse settimane abbiamo sollevato il problema dell’eccesso delle pubblicazioni scientifiche attraverso un contributo dal titolo Scrivere, scrivere e non leggere ripubblicato con il titolo “Pubblicare per svanire” nel numero 70 della rivista “Prisma”.
Desidero richiamare nuovamente l’attenzione su questo tema, poiché la questione è così profondamente radicata nel sistema delle pubblicazioni e nella mentalità dei ricercatori che è fondamentale insistere sull’argomento per favorirne la diffusione, auspicando di proseguire insieme la discussione. Come evidenziato dal titolo, publish or perish rappresenta la logica attuale: o si pubblica, o si è esclusi. Tuttavia, il “no” che ho aggiunto a questa nota formula esprime una posizione chiara: rifiutiamo di aderire a questa logica, poiché non è sana né a livello professionale né psicologico.
Non raramente, nei dipartimenti, si incontrano colleghe e colleghi che vivono un clima di angoscia, ansia, depressione e persino ideazioni suicidarie, che troppo spesso hanno come innesco il costante sentimento di inadeguatezza rispetto a questo modello accademico. Non si tratta di un’esagerazione: è ormai noto da tempo che molte forme di sofferenza, disagio e disturbi mentali sono strettamente legate al senso di adeguatezza, sia rispetto a un contesto specifico, sia in una dimensione più ampia ed esistenziale. Quel perish non è strettamente legato ad una impossibilità di fare parte dell’accademia, a perire non sono solo delle possibilità professionali, ma intere parti, anche intime, della persona.
Esiste un ulteriore motivo per cui questo sistema di pubblicazioni non è affatto sano: il suo impatto storico-culturale. La mancata sedimentazione della conoscenza, come è stato già detto, la riduce a mera informazione, con il rischio costante di riscoprire ciò che è già stato elaborato e teorizzato in passato. Un esempio emblematico potrebbe essere la pubblicazione, nel gennaio 2025, di un articolo che propone un’idea identica alla “zona di sviluppo prossimo”, semplicemente perché nessun membro del gruppo di ricerca ha dedicato tempo alla lettura di Lev S. Vygotskij, Luciano Mecacci e Lino Rossi.
A un livello più ampio e con conseguenze ancora più gravi, la mancata attenzione al passato può portare alla ripetizione degli stessi errori. Due esempi storici sono il caso di Hitler, che, se avesse letto i diari di Napoleone avrebbe forse evitato di mandare le sue truppe incontro alla disfatta nella campagna di Russia, allo stesso modo, Bush, prima di decidere l’invasione dell’Afghanistan, avrebbe potuto trarre insegnamenti dalla lettura de Il grande gioco di Peter Hopkirk. In questo senso, la scarsa attenzione a documenti storici condanna a reiterare errori cruciali e, nei casi più gravi, impedisce di preservare il patrimonio di conoscenza più significativo di un’epoca. Per “significativo” si può intendere quella conoscenza capace di migliorare la qualità della vita, promuovendo convivenza, solidarietà e crescita collettiva, tra esseri umani e non umani.
Oggi, il modo più efficace per censurare un articolo è pubblicarlo. Il tipo di censura attuale non è per sottrazione ma per accumulo; la nostra generazione di ricercatori è la prima a confrontarsi con una produzione di articoli talmente vasta, in cui la maggior parte non viene letta, mentre solo una piccola percentuale riceve attenzione o attenzione limitata (viene letto solo un paragrafo).
Leggiamo troppo spesso articoli privi di reale valore conoscitivo e di ricadute concrete sulla qualità della vita della comunità. Testi incomprensibili, caratterizzati da un linguaggio eccessivamente specialistico, che celano un vuoto di significato. Questo scenario alimenta una forma di burnout, aggravata dal dover trascorrere ore ogni giorno immersi in letture prive di passione e utilità.
E il tempo per la narrativa? Riusciamo a trovarlo? Spesso dobbiamo ritagliarcelo faticosamente, ma siamo ormai disabituati a quel tipo di lettura che richiede un’attenzione simile alla contemplazione, lontana dalla frenesia con cui si scorrono gli articoli scientifici, affidandosi unicamente alla memoria di lavoro senza una reale comprensione. I romanzi, a differenza delle pubblicazioni accademiche, esigono una presenza diversa, un coinvolgimento che consente di crescere insieme ai personaggi e alle storie.
Desidero concludere questo contributo riproponendo lo stesso messaggio con cui si chiudeva l’articolo pubblicato nella newsletter More Digital del nostro dottorato: è giunto il momento di avviare una resistenza a tutti i livelli accademici. Per questo motivo, auspico che questi scritti, e altri che seguiranno, possano trovare continuità attraverso il confronto, sia concorde che discordante, con colleghe e colleghi.
Con le parole di Gilles Deleuze, tratte dal suo Geofilosofia:
Siamo pervasi di parole inutili, di una quantità folle di parole e di immagini. La stupidità non è mai muta né cieca. Il problema non è più quello di fare in modo che la gente si esprima, ma di procurare loro degli interstizi di solitudine e di silenzio a partire dai quali avranno finalmente qualcosa da dire. Le forze della repressione non impediscono alla gente di esprimersi, al contrario la costringono ad esprimersi. Dolcezza di non aver nulla da dire, diritto di non aver nulla da dire: è questa la condizione perché si formi qualcosa di raro o di rarefatto che meriti, per poco che sia, d’esser detto.