Enrico Orsenigo (1992), psicologo iscritto all’Ordine degli Psicologi del Veneto, è Ph.D. Student in Learning Sciences and Digital Technologies all'Università degli studi di Modena e Reggio Emilia. Nei suoi articoli si occupa di psicologia clinica, psicologia dello sviluppo, psichiatria fenomenologica e filosofia della tecnica.

George Steiner scrive a proposito di Schelling:

Schelling, insieme ad altri autori, annette all’esistenza umana una tristezza fondamentale, inevitabile. Più in particolare, questa tristezza fornisce il fondo oscuro in cui si radicano la consapevolezza e la conoscenza. Tale fondo oscuro, in realtà, deve essere la base di ogni percezione, di ogni processo mentale. Il pensiero è rigorosamente inseparabile da una melanconia profonda, indistruttibile. […] In ogni pensiero questa radiazione primitiva, questa ‘materia oscura’, è una tristezza, una pesantezza dell’animo (Schwermut), che è anche creativa. L’esistenza umana, la vita dell’intelletto, significa un’esperienza di questa melanconia e la capacità vitale di superarla. Siamo stati creati, per così dire, ‘rattristati’ [1].

A questa melanconia di fondo che copre per intero, come una patina, il nucleo della soggettività, non c’è risposta precisa ed esaustiva. Nessuna definizione in grado di completarne il quadro è possibile, e bisognerebbe aggiungere che questa condizione è un grande vantaggio contro il rischio, sempre all’angolo, di una «psicologia esplicativa» che non tiene conto dell’altro versante, cioè di una «psicologia comprensiva»[2].

Ancora una volta, dal centro dell’individuo, parte una tensione che rende difficoltoso il tragitto di scientificizzare una disciplina sensibile alle evoluzioni storiche, la quale si nutre di sonde ermeneutiche che a loro volta non possono fare a meno di risentire del condizionamento della cultura e della società. Non si tratta di una impossibilità di definizione derivante da una istanza di infinito che risiede nel nucleo profondo dell’essere umano, si tratta di una impossibilità più estesa, che riguarda ogni domanda di senso da parte di esseri finiti. Le definizioni non aiutano, tuttavia  non per questo le domande, che da sempre sono presenti tra le genti e le società, sono destinate all’assenza di risposte. Queste risposte non possono configurarsi come affermazioni definitive, conclusive, ma possono assumere (e in alcuni ambiti lo sono ancora) la forma di una narrazione continua, che si sviluppa nei secoli e trattiene in sé quelle riflessioni che hanno permesso di spiegare e legare una domanda di senso, lasciando aperti spazi interpretativi e provocando, con questo, un certo sollievo nella memoria collettiva. Insomma la narrazione permette di non scientificizzare troppo.

Metafore capaci di portare a parola una risonanza interiore, anche di tipo emozionale, di intercettare il significato che risiede nello sguardo e nell’epifania di una espressione, sia essa vuota o piena. Metafore che sgorgano dall’abitare una memoria che ancora una volta soggiorna in un tempo vissuto, agostiniano, in cui si incontrano luoghi, esperienze ed emozioni del passato, significati appresi in giorni che si ricordano per la presenza di uno sguardo, di una persona, di una sequenza di parole.

Una memoria del tempo vissuto che trattiene i ricordi e le dimenticanze (nel senso proustiano) e quindi possibili di risalita attraverso un faticoso ripiegamento su di sé facendo emergere immagini intermittenti, all’inizio scarse, ma via via sempre più nitide. Ogni dimenticanza giace nel fondo, in un fondo più in là del ricordo. La differenza risiede nella velocità di renderla accessibile, mai nella sua negazione. La dimenticanza ha bisogno di più tempo, di più attenzione per risalire e disincagliarsi dal fondo della memoria vissuta. In essa si ritrovano gli eventi caduci che risplendono per come erano nel momento in cui sono stati incontrati e incorporati. Infatti, nella memoria non c’è movimento cronologico del tempo, e nemmeno strettamente soggettivo: ci si sposta in una dialettica senza fine tra la propria interiorità e quella degli altri che sono stati presenti in quel frangente. Evidentemente la memoria si nutre di ciò che è stato, anche se non è stato in quel modo. In essa si ritrovano le credenze, risultate vere o false, che hanno contribuito a determinare l’identità. Per questo si ritrovano anche le persone, non solo per come erano ma per come sono state con noi, in un amalgama di identità, mai uniche e definitive, bensì molteplici e sfumate, tra tentativi di coerenza e incoerenza. A vari livelli, più o meno accessibili, i contenuti caduchi e monchi, umbratili ma ricomponibili, sono indispensabili nel tessere il filo che conduce all’identità presente del pensante.

Memoria e oblio si intrecciano e si scambiano a gradi differenti di profondità, sensibili alla storia e alla natura, si estendono, si intersecano, si rafforzano. Una relazione non sempre prevedibile. La soggettività può inserirsi, attivamente, attraverso la ricordanza leopardiana. Antonio Prete scrive a tal proposito: «Per Leopardi la ricordanza non è tanto il movimento che dal presente va verso il passato, dalla percezione attuale verso il luogo dell’oblio, dalla cosa verso l’immagine perduta, quanto, al contrario, il movimento che sale da un’altra, lontana, fanciullesca, ‘antica’ immagine, portando di quella una parvenza»[3]. Con altre parole dello stesso si comprende meglio non solo la poetica leopardiana ma anche la figura del poeta nel racconto di Freud:

Nel canto Le ricordanze è il ritorno ai luoghi dell’infanzia, il ritorno all’antico uso della contemplazione stellare (‘le vaghe stelle dell’Orsa’) che richiama il tempo dell’infanzia e disegna, con la lingua della poesia, un nuovo tempo e un nuovo spazio dove il movimento della ricordanza dà forma a quell’antica immaginazione che era in dialogo con i suoni e i volti del tempo perduto. È proprio il presente ‘dolce rimembrar’ che conduce a quel ‘caro immaginar mio primo’. E tuttavia la rappresentazione di quell’altro perduto tempo, il suo ‘van desio’ non abolisce la consapevolezza che in esso c’era già il senso del fuggitivo.[4]

Da un lato, la forza dell’oblio che cancella e dall’altro la forza della memoria che trasforma e recupera. La stessa ‘meccanica’, con tempi e spazi differenti, si presenta in natura, in cultura e in soggettività. Una meccanica necessaria, che si tiene in un fragile equilibrio e che a tratti eccede in un versante piuttosto che nell’altro. Di fronte alla natura si osservano i medesimi dettagli ma con significati diversi che risentono dei moti e della quiete dell’anima, degli oblii e dei ricordi passati intrecciati con l’esperienza vissuta.

Di più: la soggettività contribuisce a diversificare l’esperienza che essa (la soggettività) fa della natura e della cultura: infatti, di fronte alla bellezza della natura il poeta, l’amico silenzioso e lo stesso psicoanalista, nel testo di Freud, hanno tre esperienze diverse, tre narrazioni, silenzi e parole.

Note:

[1] G. Steiner, Dix raisons (possibles) à la tristesse de pensée, Albin Michel, Paris 2005 (trad. it. S. Velotti, Dieci (possibili) ragioni per la tristezza del pensiero, Garzanti, Milano 2007, pp. 10-11).

[2] K. Jaspers, Allgemeine Psychopathologie, Springer, Berlin 1913 (trad. it. R. Priori, Psicopatologia generale, Il pensiero scientifico, Roma 1964).

[3] A. Prete, Il pensiero poetante. Saggio su Leopardi, Feltrinelli, Milano 1980, p. 36.

[4] Ivi, p. 37.

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