Enrico Orsenigo (1992), psicologo iscritto all’Ordine degli Psicologi del Veneto, è Ph.D. Student in Learning Sciences and Digital Technologies all'Università degli studi di Modena e Reggio Emilia. Nei suoi articoli si occupa di psicologia clinica, psicologia dello sviluppo, psichiatria fenomenologica e filosofia della tecnica.

La posizione del poeta del racconto di Freud[1] apre essenzialmente a due scenari: la malinconia e la depressione. Si può essere malinconici di un tempo perduto che a poco a poco investe tutte le aree di vita del soggetto e che permea di sentimento anche le situazioni più lontane da esso, e nonostante questo lo stesso soggetto è indotto a risolvere la malinconia nella riflessione in sé o nella forza creatrice che conduce all’arte. Numerosi sarebbero gli esempi che hanno condotto artisti e poeti alla realizzazione di opere proprio grazie a questo sentimento, la malinconia.

La depressione, invece, detronizza il senso del tempo degli eventi di una vita in cui già la temporalità ha perso la sua posizione di privilegio. La depressione è l’uniformità delle giornate, tendenza del tutto comune nelle società positive, cosiddette società della seconda modernità. Esse sviluppano un procedere di vita basato sulla prestazione e la performance, che inevitabilmente si trasforma, per il singolo soggetto, in un sentimento di adeguatezza o di inadeguatezza. I mali odierni hanno spesso una matrice comune che fa riferimento a un senso di inadeguatezza esteso a più campi. La tristezza e la malinconia rimangono moti naturali dell’anima e il loro trasformarsi in patologia, e nei casi più gravi in desiderio di suicidio, è dovuto alla quantità di ascolto o indifferenza che il soggetto ripone a questi moti dell’anima.

Ogni suicidio è un mistero, afferma Karl Jaspers.

Nel già citato Speranza e disperazione[2], Eugenio Borgna spiega il suicidio di Cesare Pavese come il venire meno della speranza. Pavese, già a diciannove anni, nel 1927, scrive una poesia dove si parla di suicidio. Di seguito, invece, una lettera scritta a un’amica (la giovane Romilda Bollati che egli chiamava con lo pseudonimo di Pierina) l’anno della morte dello scrittore, il 1950:

Ma tu, per quanto inaridita e quasi cinica, non sei alla fine della candela come me. Tu sei giovane, incredibilmente giovane, sei quello ch’io ero a ventott’anni quando, risoluto di uccidermi per non so che delusione, non lo feci – ero curioso dell’indomani, curioso di me stesso – la vita mi era parsa orribile ma trovavo ancora interessante me stesso. Ora è l’inverso: so che la vita è stupenda ma che io ne son tagliato fuori, per merito tutto mio, e che questa è una futile tragedia, come avere il diabete o il cancro dei fumatori[3].

È una costante contrazione nel tempo presente, causata da un passato e da un futuro che convergono e schiacciano. La visuale subisce una sottrazione di angolatura, ma non sono solo gli occhi e lo sguardo sul mondo ad essere sottratti da questa contrazione che pare infinita e progressiva. In questa operazione vengono a mancare anche le sonde ermeneutiche, le spinte interpretative dei sentimenti che consentono di tentare l’uscita dall’empasse. In questo scenario umbratile, apparentemente privo di luci anche solo soffuse, le sonde non vengono ricercate se non con il compito di esorcizzare tale empasse proiettandola all’esterno, tentando in tutti i modi di convergere su se stessi il meno possibile. Le vite diventano vite automatiche, di sopravvivenza non riconosciuta, assenti nella ricerca di un senso e significato, proiettato volontariamente all’esterno e spesso in un processo di feticizzazione generalizzata.

Prima di proseguire il discorso è indispensabile sottolineare che questo non è il caso di Pavese. Per lui vale la misteriosità del gesto, l’indicibile di fronte alle parole di disperazione così precisamente stese nelle lunghe pagine, e poesie, che raccontano una vita trascorsa dentro le catene umbratili del pensiero.

Per non cadere nell’automazione del vivere e del fare, è necessario impossessarsi, di nuovo, del tempo dell’indugio, ricercare il silenzio che lo caratterizza e in questo ritrovare (e riattivare) le sfumature di pensiero e di sentimento che in tale epoca vengono a perdersi, nell’ineluttabile confronto con l’accelerazione generalizzata che comporta il posizionamento veloce, unico, negli eccessi di sé. E allora, per tornare a Borgna ancora una volta, si incontra di nuovo la tenerezza, l’attesa, la speranza, la nostalgia, la malinconia, la tristezza, la solidarietà, la generosità, vie di mezzo che illuminano il vivere asettico, privo di fatica e per questo neutro, fluidificato, scarno d’identità. In questo modo, la speranza (e non solo), «[…] diventa una stella cadente che passa sulle teste»[4], che non finisce mai di cadere, e di illuminare il cammino personale di vita.

Eludere il caduco, il possibile ritorno, la stagionalità della natura e delle specie, è una chiusura verso la naturale relazione con l’altro da sé, l’inizio di una rotazione intrinseca e a vuoto. Non lasciare respiro al malessere, all’inadeguato, al goffo, è evidentemente più rischioso che lasciare entrare la solitudine, il disagio e l’estraneo che abita l’uomo, dai lapsus ai comportamenti inattesi.

«Forse sarei più sola senza la mia solitudine»[5], osservava Emily Dickinson. Un punto di domanda apre una vita e la termina, e la stessa vita si riduce a mera progressione funzionalistica se non considera la parte umbratile come humus, al pari della parte luminosa. L’esclusione dell’ombra come igienizzazione della soggettività conduce all’esatto contrario inatteso: alla rotazione incessante e funzionale entro il proprio io. Non più novità e divergenze, non più accorgimenti serendipici e sguardi dal potere ermeneutico. Si arriva così ad una soggettività che, attraverso costanti operazioni di ‘igiene’, estendendo la misurazione e la valutazione, si riduce ad un tentativo di controllare l’incontrollabile e così facendo ad elidere le sfumature degli eventi. Tale igiene porta esattamente verso l’oggettificazione della soggettività e alla sua conseguente perdita in una replicazione ab eternum di un simulacro umano standardizzato. Nel tentativo di oggettivare i grumi di significato, specifici delle scienze umane, si oggettifica la persona stessa.

E ancora la Dickinson, in una via diversa e possibile da percorrere:

Ha una sua solitudine lo spazio,
solitudine il mare
e solitudine la morte – eppure
tutte queste son folla
in confronto a quel punto più profondo,
segretezza polare
che è un’anima al cospetto di se stessa –
infinità finita[6].

Un’infinità finita che, come è già stato detto, rischia di naufragare nella tecnica e nello scenario della simulazione. Un’infinità esterna che finisce l’interiorità. La solitudine di cui parla la Dickinson, in uno scenario tecnico come quello odierno, prende il nome di isolamento. È netta la differenza tra solitudine e isolamento, e questa soglia di distinzione è chiara anche alla psicologia e alla psichiatria.

La solitudine si definisce nella relazione all’altro, natura o persona. Nella solitudine si continua a restare in risonanza, nonostante – proprio perché – ci si accorge della condizione di ‘sfuggevolezza’ e di enigmaticità di cui sono ricoperte molte delle esperienze di vita. L’isolamento è la trasformazione in monade di una soggettività limitata e confinata. Riaprire alla vita questa monade non significa desiderare che l’isolamento diventi, d’un tratto, passione e gioia per la vita: la prima trasformazione nel cammino di ri-apertura all’esistenza passa dal baratro del confinamento alla solitudine. È un percorso in una certa misura ricco di lentezza e costituito da un movimento gradiente e non da un salto da un’eccedenza all’altra. È ricco e fertile, nella misura in cui rimane rispettoso del tempo; un percorso nel tempo della solitudine come momento diastolico che resiste alla contrazione dell’isolamento. Questa diastole costitutiva permette il rinnovo dell’esegetica e, di conseguenza, una rinnovata visuale sul mondo.

Note:

[1] S. Freud, Caducità, in Opere, vol. VIII 1915-1917, Bollati Boringhieri, Torino 1989.

[2] E. Borgna, Speranza e disperazione, Einaudi, Torino 2020.

[3] C. Pavese, Vita attraverso le lettere,  a cura di L. Mondo, Einaudi, Torino 2004, p. 257.

[4] J.W. Goethe, Die Wahlverwandtschaften, Cotta’sche Verlagsbuchhandlung, Tübingen 1809, (trad. it. M. Mila, Le affinità elettive, Torino, Einaudi, 1966, p. 329).

[5] E. Dickinson, Tutte le poesie, ed. it. a cura di M. Bulgheroni, Mondadori, Milano 2013, p. 443.

[6] Ivi, p. 1581.

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