Enrico Orsenigo (1992), psicologo iscritto all’Ordine degli Psicologi del Veneto, è Ph.D. Student in Learning Sciences and Digital Technologies all'Università degli studi di Modena e Reggio Emilia. Nei suoi articoli si occupa di psicologia clinica, psicologia dello sviluppo, psichiatria fenomenologica e filosofia della tecnica.

Mestizia, tristezza, rimpianto, nostalgia costituiscono la vita, non meno di gioia, serenità, quiete. Le scienze umane, ma soprattutto la poesia, hanno dedicato una particolare attenzione ai moti della nostalgia, in stretto rapporto con il tempo vissuto e  il tempo delle società. In questa quarta e ultima parte chi scrive intende stralciare dei versi poetici e dei passaggi letterari capaci di dimostrare la possibilità di radicare il tempo, nelle società automatiche, attraverso la comprensione dei sentimenti oggi individuati come “negativi”.

Una nostalgia senza nome è il titolo di una poesia di Hugo von Hoffmannsthal.

Una nostalgia senza nome piangeva in silenzio
nella mia anima, voleva la vita, piangeva
come piange chi in una grande nave
con vele gialle, enormi, verso sera
su acque azzurre cupe alla città
passa vicino, alla città natale. Allora vede
i vicoli, ascolta il mormorio delle fontane, sente
l’odore dei cespi di lillà, vede se stesso
bambino, ritto sulla riva, con occhi da bambino
che sono in ansia e vogliono piangere, vede,
per la finestra aperta, luce, nella sua stanza –
ma la grande nave lo porta più lontano,
scivolando in silenzio su acque azzurro cupe
con gialle vele, enormi, di foggia straniera[1].

Acque azzurro cupe, vicino alla città natale, dove lo sguardo, da lontano, incontra i vicoli e il mormorio delle fontane, vede e sente l’odore dei lillà (la proustiana profusione), i movimenti di se stesso da bambino. Hofmannsthal recupera e riporta sulla carta l’agostiniano presente passato, e attraverso una navigazione inesorabile ritorna verso il presente presente, e si dirige nel presente futuro ma con vele di foggia straniera (perché, non sempre, si conosce il verso-dove). Sono versi che conducono a un testo di Lalla Romano, La penombra che abbiamo attraversato[2], il cui titolo viene da un passaggio de Il tempo ritrovato[3], ultimo volume de La Recherche proustiana. La penombra è l’infanzia che ritorna al pensiero da sconfinate lontananze; un ritorno dalle immagini talvolta poco chiare, mentre altre volte inaspettate, pensate per la prima volta.

Per riprendere il titolo di questo articolo – tempo e società automatica – si sottolinea la possibilità di radicare il tempo anche e soprattutto a partire da frequenti soste sul verbo indugiare; riconsiderare, attraverso l’indugio, la propria posizione e traiettoria, restando in ascolto, controtendenzialmente, delle sfumature che accompagnano le fondamenta emozionali. Allargando la personale messa a fuoco sul mondo – orizzontale, io e mondo, secondo la definizione fenomenologica – si ritrova il tempo nella sua larghezza e infinità, in una infinità finita diversa dall’interminabile. Uscire dalla contrazione sul presente, uscire da questo andamento che è oramai unità minima delle società automatiche, prendendosi cura, una cura attenta, con intelligenza distribuita, del rapporto tra sé e le significazioni umane.

In trincea, sul fronte orientale, Giuseppe Ungaretti rievoca i fiumi della sua vita; I fiumi che rinascono come immagini che scorrono, riportando il poeta al tempo che era, e a come quel tempo veniva da lui vissuto.

Di seguito le ultime strofe della poesia:

Ho ripassato
le epoche
della mia vita

questi sono
i miei fiumi

Questo è il Serchio
al quale hanno attinto
duemil’anni forse
di gente mia campagnola
e mio padre e mia madre

Questo è il Nilo
che mi ha visto
nascere e crescere
e ardere d’inconsapevolezza
nelle estese nature

Questa è la Senna
e in quel suo torbido
mi sono rimescolato
e mi sono conosciuto

Questi sono i fiumi
contati nell’Isonzo

Questa è la mia nostalgia
che in ognuno
mi traspare
ora ch’è notte
che la mia vita mi pare
una corolla
di tenebre[4].

Lo spazio dei fiumi riconduce l’autore alle formazioni avute, culturali e più intime, dell’io. Lo spazio che diventa parola e in questo modo può orientare il futuro, dischiudendo due forme di nostalgia, perché anche di questo sentire le sfumature sono varie; due forme: la nostalgia che salva un passato e la nostalgia del futuro, del tempo che arriverà.

Breve excursus sulla nostalgia.

Questo sentimento, legato inizialmente alla patria perduta, veniva considerato una malattia che si manifestava nei giovani soldati svizzeri lontani dalla patria. Nel 1688, Johannes Hofer, discute e illustra la sua tesi e grazie a questa la nostalgia entrava a fare parte di una condizione medica, psichiatrica poi. Rimarrà nel campo d’interesse della psichiatria fino ai primi del Novecento. Evidentemente, oggi, il sentimento fa riferimento ad altro, e cioè alla ricerca del senso delle cose accadute, a un momento di sospensione in esse.

L’insegnamento che deriva dagli studi di Hofer è che lo spazio lasciato risuona dentro sottoforma di smarrimento o di inquietudine. Non riconoscersi in uno spazio nuovo, che può essere anche confortevole, avvicina la condizione umana all’estraneità, all’esilio: «ghiacciai dell’anima», come li definisce Eugenio Borgna[5].

Quello che vive fuori di noi rivive dentro, in un’altra organizzazione, in una enigmatica circolarità, affrontata a più riprese dalla poesia. Si può dunque parlare, come nelle righe precedenti la poesia di Giuseppe Ungaretti, di infinità finità, contenuta in un corpo che ospita una memoria virtuale dello spazio visto, sentito, udito. Ancora: l’infinità finta del tempo si intreccia a quella dello spazio. Francesco Flora, interprete della poesia leopardiana, scrive:

A ordinare questo mondo di interminati spazi e profondissima quiete, o meglio a ordinare un nuovo ritmo, interviene il tempo che stormisce tra le piante. Il vento dà l’idea dello scorrere delle cose: qui il vento genera l’idea del tempo, nello spazio e nella quiete. La visione era lo spazio: il suono è il tempo. E suggerisce l’idea dell’infinito non più spaziale, ma temporale, l’eterno: che si articola appena nelle due grandi e vaghe immagini delle morte stagioni e della presente e viva, con l’unico suono reale che possa avere, quello della presente stagione: il vento cioè evoca le morte stagioni ma canta la presente, anzi è il suono della presente[6].

Si tratta dell’infinito soggettivo e non oggettivo, da cercare e ascoltare in ogni cosa finita.

Il tempo entra (e può entrare) perché nell’umano avviene una “lacerazione” primaria, di cui parla la psicoanalisi, a partire dall’entrata nel principio di realtà[7]. In questo senso, Simone Weil riflette nei suoi testi sull’impatto che il tempo ha nella condizione umana: «il tempo fa violenza: è la sola violenza. Un altro ti cingerà e ti condurrà dove tu non vuoi andare; il tempo conduce dove non si vuole andare»[8], trasporta anche verso ciò che non si desidera o non si vuole sopportare. Ma un ‘salvacondotto’ va costituendosi proprio nella possibilità di scegliere le esperienze; infatti, sempre Weil, riconosce che ci sono differenze infinite tra tre ore trascorse in automobile e tre ore davanti a un affresco di Giotto; riconosce che il tessuto della vita stessa è il rapporto tra il tempo e il vivente.

La quota di soggettività, che investe queste esperienze dalla fondazione emozionale comune, rende precarie e provvisorie, rapsodiche, le risposte o i tentativi di fornire “fulgidità” all’argomento. Tuttavia, tentare di fornire una grammatica all’esperienza del tempo nostalgico, consente di uscire dal tempo dell’indifferenza che appiattisce le argomentazioni nell’illusione di non poter più gettare sonda alcuna. Una speranza? Forse, ma nel senso dato da Gabriel Marcel: «la memoria del futuro»[9].

Note:

[1] H. von Hofmannsthal, Le parole non sono di questo mondo, a cura di M. Rispoli, Quodlibet, Macerata 2004, p. 80.

[2] L. Romano, La penombra che abbiamo attraversato, Einaudi, Torino 1968.

[3] M. Proust, Le temps retrouvé, in À la recherche du temps perdu, vol. VII, Gallimard, Paris 1927 (posthume), (trad. it. G. Caproni, Il tempo ritrovato, in Alla ricerca del tempo perduto, vol. VII, Einaudi, Torino 1978, p. 231).

[4] G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a cura di L. Piccioni, Mondadori, Milano 2009, p. 505. La poesia I fiumi nasce collocata in ventiduesima posizione nella raccolta Il porto sepolto del 1923.

[5] E. Borgna, Il tempo e la vita, Einaudi, Torino 2015, p. 76.

[6] F. Flora, Storia della letteratura italiana, IV, Mondadori, Milano 1965, p. 377.

[7] S. Freud, Jenseits des Lustprinzips, Internationaler Psychoanalytischer Verlag, Lepizig-Wien-Zurich 1920 (a cura di C.L. Musatti, Al di là del principio di piacere, in Opere vol. 9, 1917-1923, Bollati Boringhieri, Torino pp. 189-249).

[8] S. Weil, Cahiers, Plon, Paris 1970 (posthume), (a cura di G. Gaeta, Quaderni, Quaderni. Volume terzo, Adelphi, Milano 1982, p. 237).

[9] G. Marcel, Homo viator, Aubier, Paris 1945 (trad. it. L. Castiglione e M. Rettori, Homo viator, Borla, Milano 1980).

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