Enrico Orsenigo (1992), psicologo iscritto all’Ordine degli Psicologi del Veneto, è Ph.D. Student in Learning Sciences and Digital Technologies all'Università degli studi di Modena e Reggio Emilia. Nei suoi articoli si occupa di psicologia clinica, psicologia dello sviluppo, psichiatria fenomenologica e filosofia della tecnica.

Così John Keats in un passaggio di una sua famosa poesia:

[…] in questo tempio
di delizia regna malinconia,
la scorge dietro il velo chi soltanto
schiaccia un chicco di gioia sul palato […][1].

È ampia la gamma di sentimenti destinati ad essere vissuti, a patto che il soggetto esperisca la sottrazione, operazione costitutiva della vita in genere. L’età della tecnica è un’età dell’operazione opposta – addizione – e come detto in un passaggio del paragrafo precedente, gli uomini di oggi si rapportano alle cose e alla vita come consumatori di esperienze, esseri per l’addizione, in crisi nel momento in cui sopraggiunge il sentimento che rovescia, temuto, non conosciuto. I sentimenti cosiddetti negativi sono temuti perché non più conosciuti, non più accolti e ascoltati.

Così Eugenio Borgna a proposito: «La tristezza, la malinconia, come l’ansia, la inquietudine dell’anima, rinascono spontaneamente in noi, si modificano, si trasformano, si accentuano, si attenuano, nella misura in cui i contesti familiari e ambientali, in cui viviamo, le esperienze della vita, a cui andiamo incontro, siano animati da una climax di ascolto, o di indifferenza»[2].

Impossibilitati a sostare fianco a fianco con questi sentimenti, educati all’ideologia del benessere e della novità, si esclude ogni possibilità di abbandono, di morte e di ritorno non immediato. Si esclude la dilazione, l’attesa, l’indugio e, di conseguenza, la speranza, la rimembranza, l’esegesi. Si apre così, per molte altre popolazioni, lo scenario del simulacro e della simulazione, così ben descritto e ipotizzato alla fine degli anni Settanta del secolo scorso da Baudrillard[3].

Può essere utile, al fine della riflessione sulla caducità e la fosforescenza delle cose perdute (e ritrovate, nel senso proustiano), riportare qui un passaggio di Rainer Maria Rilke a proposito della tristezza:

Voi avete avuto molte e grandi tristezze, che se ne sono andate. E dite che anche quel loro andarsene fu per voi difficile e irritante. Ma vi prego, riflettete se quelle grandi tristezze non siano piuttosto passate attraverso di voi. Se molto in voi non si sia trasformato, se in qualche parte, in qualche punto del vostro essere non vi siate mutato, mentre eravate triste. Pericolose e maligne sono quelle tristezze soltanto, che si portano tra la gente, per soverchiarle col rumore; come malattie, che vengano trattate superficialmente e in maniera sconsiderata, fanno solo un passo indietro e dopo una breve pausa erompono tanto più paurosamente; e si raccolgono nell’intimo e sono vita, sono vita non vissuta, avvilita, perduta, di cui si può morire[4].

Le tristezze non vissute, le caducità non accolte, sono vita non vissuta, osserva il poeta praghese.

Vita non vissuta è la produzione incessante del nuovo, la sosta perenne nella produzione e consumo, logica spietata dell’età della tecnica, dove la soggettività scompare per lasciare spazio all’azione per l’azione. Il consumare per il consumare, nella piena incapacità di trattenere, condiziona il nostro pensare a saltare da una posizione mentale all’altra, senza lasciare traccia di ciò che è stato. Lo sforzo di fare i conti con ciò che era e non è più, con l’operazione del ricordare, viene codificato come tempo perso – perché il tempo non è più quello agostiniano[5], ma quello numerico, dove gli ingranaggi non possono concedersi il lusso dell’inceppo, della deviazione dalla propria meccanica. Ma in questo modo, considerando tempo perso il tempo per tornare indietro, dal di dentro, per tornare a ciò che si era e a ciò che costituiva ‘l’intorno’ a noi, considerandolo appunto uno spreco, si rinuncia a convertire le esperienze esteriori in esperienze interiori: «[…] i modi di essere dei volti e degli sguardi in segni, in foreste di segni, della nostra interiorità»[6].

Trasformare l’ambiente in cui si vive in foreste di segni interiori, significa custodire il «profumo» (Proust) del tempo e delle cose che l’hanno costituito, lasciando entrare quell’odore d’invisibili e persistenti cose che si faranno spazio nell’immenso edificio del ricordo.

I fiordalisi, i biancospini, i meli che m’avviene ancora di scorgere nei campi se viaggio, perché situati alla stessa profondità al livello del mio passato, trovano subitanea comunicazione col mio cuore. Poiché vi è qualcosa d’individuale nei luoghi.  […] è alla parte di Méséglise ch’io vado debitore del restarmene solo, in estasi, a respirare, nel suono della pioggia che cade, l’odore d’invisibili e persistenti lilla[7].

L’insieme degli elementi che vanno a costituire il ricordo di un luogo, nelle varie trasformazioni che esso subisce col trascorrere delle stagioni, rende il luogo non solo quello che era nella sua struttura, ma contribuisce alla creazione di una rete estesa di contenuti percettivi, affettivi ed intellettuali che spiega quello che é/era la persona che pensa, ossia l’identità assunta dal pensante mentre il luogo pensato non era ancora ricordo, ma realtà quotidiana. In questo senso, le cose perdute (e ritrovate), sviluppano una loro fosforescenza, un emergere di luci soffuse che raccontano tracce della vita di una soggettività. Una possibilità di raccogliere i pezzi di un’esistenza, anche nelle notti dell’anima.

Una casa non è solo una casa: è un’architettura che anno dopo anno s’impregna di simboli, percepiti come qualcosa che ha a che fare con il proprio vissuto. I suoi lati e i suoi angoli raccontano qualcosa della storia personale:

I luoghi che abbiamo conosciuti non appartengono solo al mondo dello spazio, nel quale li situiamo per maggiore facilità. Essi sono solamente uno spicchio sottile fra le impressioni contigue che costituivano la nostra vita d’allora. Il ricordo d’una certa immagine non è che il rimpianto di un certo minuto, e le case, le strade, i viali, sono fuggitivi[8].

La seduzione magica del mondo viene via via ridotta, annientata da una totale definizione delle cose – ad ogni significante il suo significato. La fine del mondo, secondo Baudrillard, si sviluppa propria a partire dal passaggio delle concatenazioni seducenti in concatenazioni razionali. Risolvere ogni enigma, ogni casualità in causalità o probabilità. Il mondo finisce nel momento in cui il corpo, nel senso fenomenologico, assume la psicoanalisi, la semiotica, la sociologia, l’antropologia per sentire e rapportarsi al mondo stesso: la disciplina diventa lo strumento per spiegare ogni cosa. Si tratta di un abuso della disciplina stessa, e anche un esempio di una sua cattiva gestione (sostenibile). Se ogni cosa viene agganciata, forzata in un significato, in uno schema statistico, se ogni situazione diventa spiegabile, a costo di confondere l’errore con la verità, allora il mondo finisce, inizia la simulazione. E in una certa misura, per un numero non irrilevante di popoli, la simulazione è già cominciata.

La caducità del mondo è ciò che esiste (anche senza di noi). Il mondo comunque rimane caduco ma ritorna e si esprime nelle interiorità di ciascuno, sottoforma di fosforescenza ritrovata, simbolizzata. È un gioco che giunge dal fuori, dagli altri e dalla vita che si muove in un movimento, a tratti sconosciuto. Un moto e una quiete che si alternano, che provocano attesa, speranza e sorpresa, che turbano ed allettano; un moto e una quiete che esistono prima e dopo, e senza di noi. Gli eventi, gli oggetti, le stagioni, succedono indipendentemente da ciò che si è mentre si assiste al loro accadere. Ed è questa loro caratteristica – esistenza pura, a prescindere dal nostro esserci – che nutre la seduzione umana e la possibilità della creatività.

La scienza moderna, a partire dal Seicento, crede nella complicità del mondo, nell’illusione di una docilità che aiuta a misurare, valutare, interpretare e ridurre a segno il movimento della natura. La misurazione, atto della ragione calcolante, fa scomparire l’oggetto portando a superficie un simulacro numerico e grafico. Ad ogni misurazione e valutazione, il rischio maggiore rimane quello raccontato da Jorge Luis Borges, ne La Mappa dell’Impero: l’imperatore trascorreva le giornate a contare; oggetto delle sue misurazioni erano i campi, gli alberi, le case, i fiumi del suo regno. Annotava tutto su libriccini unti. Un giorno, giunto nella sala del trono chiamò attorno a sé i suoi ministri ordinando la costruzione di un inventario, «di tutto ciò che, vivente o inanimato, abitasse nel suo regno»[9]. I ministri decisero di disegnare una mappa geografica con l’aiuto dei monaci di un antichissimo monastero a nord del paese. Sette anni dopo la prima mappa era pronta. «Ma l’imperatore non era soddisfatto. Sulla carta c’erano le città, i paesi, ma non c’erano tutte le case delle città, tutte le capanne dei villaggi, tutti gli alberi dei boschi»[10]. Ordinò una carta molto più grande. Quattordici anni dopo la nuova carta era pronta. Usarono il selciato della piazza più grande della città per dispiegarla; in questa nuova carta erano disegnate tutte le case, le fattorie, le stalle, i porcili e i pollai. Si vedeva perfino dove crescevano i boschi e le selve. Ecco la risposta dell’imperatore: «Dove sono tutte le tegole dei tetti, tutte le foglie degli alberi, tutte le galline dei pollai? Su questa carta non si vedono»[11]. Nonostante il rammarico e la rabbia, i monaci alla fine ebbero un’idea: ricoprire campi, boschi, case, ogni angolo del regno con la carta. Mille squadre di disegnatori avrebbero provveduto a ricalcare ciò che c’era sotto. Per fabbricare la carta necessaria furono tagliati tutti gli alberi; naturalmente anche la terra ne risentì, infatti non dava più frutti. Infine, nel paese arrivò una drammatica carestia.

Così Borges termina il racconto: «Un giorno il popolo del regno si ribellò. Tutta la carta fu strappata e fu raccolta in un mucchio enorme intorno al palazzo imperiale. Poi qualcuno accese un fiammifero e dette fuoco alla carta. Subito si alzarono fiamme altissime. Dell’imperatore e dei suoi libriccini unti e pieni di orecchie non rimase che cenere»[12].

Il movimento e la stabilità della vita, le ripetizioni e le differenze, le attese e le speranze, la fugacità e i momenti che paiono eterni: tutto questo e molto altro non è racchiudibile nella mappa. Riguarda l’indicibile e l’invisibile che impregna la città. È come con le Città invisibili[13] di Calvino.

Le piazze, le stazioni, gli hotel, gli angoli bui più volte attraversati, i giardini e i ristoranti sono scenari che rimangono intatti solo nel vissuto interiore, perché fuori, nel mondo, sono sensibili di distruzione. La memoria, in questo senso, si fa promotrice di fosforescenze anche laddove il contenuto nella realtà non esiste più. Proust, nell’intera sua opera Alla ricerca del tempo perduto, più volte ritorna in luoghi dove c’è altro, più volte ricorda volti e dettagli di volti di persone che non ci sono più. La Recherche è anche l’opera che riflette sulla possibilità del non esistere più, del venire a mancare. È per questo che ci si «curva» dentro, per cercare di cogliere momenti trascorsi, per ricuperare frammenti di sé perduti e dimenticati nella corsa del tempo accelerato, del tempo della clessidra.

Una ricerca in compagnia di Speranza, direbbe Eugenio Borgna, una ricerca delle figure che vivificano il sentimento dello sperare. Curvare dentro di sé, svolgere la pratica esegetica, altro senso non ha che la ricerca del senso stesso, della propria posizione, funzione e traiettoria. La speranza è un motore, la disperazione il suo rovescio, la sua assenza. Disperato è il poeta del racconto di Freud[14] che nella bellezza della natura altro non vede che la morte imminente; non riesce a godere della bellezza del paesaggio perché è turbato, per un attimo la speranza l’ha lasciato. Ciononostante la speranza non è ottimismo, e lo afferma chiaramente Borgna nel suo Speranza e disperazione[15], osservando che l’ottimismo concentra l’uomo sui desideri e aspirazioni, mentre la speranza è apertura dialogica, a tratti misterica. Nell’età della tecnica dove alcune discipline umanistiche, ricercano con ansia una scientificità sempre maggiore (anche laddove, come nel caso della psicologia, essa non è possibile, pena la perdita della dimensione soggettiva), poco è lo spazio lasciato ai temi di matrice fenomenologica, come l’interpretazione, la speranza, ma anche la dialogicità, la tenerezza, la gentilezza, l’attesa. In questa epoca, essi rischiano l’eclissi senza più rinnovo. È utile recuperare le parole di Kierkegaard che definì la speranza come la passione del possibile[16], apertura verso un futuro che non è soggetto a controllo, che il movimento generale e la meccanica della natura (e della cultura) non seguono i desideri e i comandi umani, ma leggi ben maggiori, estese, sfuggenti.

La caducità e il suo valore che si coglie dalla fosforescenza emanata dalle cose perdute, ritrovate, racconta qualcosa del rapporto che gli uomini hanno con il tempo. Così Sant’Agostino:

Cos’è il tempo? Chi saprebbe spiegarlo in forma piana e breve? Chi saprebbe formarsene anche solo il concetto nella mente, per poi esprimerlo a parole? Eppure, quale parola piú familiare e nota del tempo ritorna nelle nostre conversazioni? Quando siamo noi a parlarne, certo intendiamo, e intendiamo anche quando ne udiamo altri parlare. Cos’è dunque il tempo? Se nessuno m’interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m’interroga, non lo so. Questo però posso dire con fiducia di sapere: senza nulla che passi, non esisterebbe un tempo passato; senza nulla che venga, non esisterebbe un tempo futuro; senza nulla che esista, non esisterebbe un tempo presente. Due, dunque, di questi tempi, il passato e il futuro, come esistono, dal momento che il primo non è più, il secondo non è ancora? E quanto al presente, se fosse sempre presente, senza tradursi in passato, non sarebbe piú tempo, ma eternità. Se dunque il presente, per essere tempo, deve tradursi in passato, come possiamo dire anche di lui che esiste, se la ragione per cui esiste è che non esisterà? Quindi non possiamo parlare con verità di esistenza del tempo, se non in quanto tende a non esistere. […] Un fatto è ora limpido e chiaro: né futuro né passato esistono. È inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro. Forse sarebbe esatto dire che i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente e presente del futuro. Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell’animo e non vedo altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione, il presente del futuro l’attesa. Mi si permettano queste espressioni, e allora vedo ed ammetto tre tempi, e tre tempi ci sono. Si dica ancora che i tempi sono tre: passato, presente e futuro, secondo l’espressione abusiva entrata nell’uso; si dica pure cosí: vedete, non vi bado, non contrasto né biasimo nessuno, purché si comprenda ciò che si dice: che il futuro ora non è, né il passato. Di rado noi ci esprimiamo esattamente; per lo piú ci esprimiamo inesattamente, ma si riconosce cosa vogliamo dire[17].

Note:

[1]J. Keats, Ode alla malinconia, in Poesie, (ed. it. a cura di S. Sabbadini, Mondadori, Milano 1996, p. 291).

[2]E. Borgna, Il fiume della vita. Una storia interiore, Feltrinelli, Milano 2020, pp. 73-74.

[3] Il riferimento è a due opere di Jean Baudrillard: J. Baudrillard, L’Échange symbolique et la mort, Gallimard, Paris 1976, (trad. it. G. Mancuso, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 1979); J. Baudrillard, Simulacres et Simulation, Éditions Galilée, Paris 1981, (a cura di M.G. Brega, Simulacri e impostura. Bestie Beaubourg, apparenze e altri oggetti, Pgreco, Milano 2008).

[4]R. M. Rilke, Lettere a un giovane poeta, (trad. it. L. Traverso, Adelphi, Milano 1980, p. 70).

[5] Agostino di Tagaste, Confessiones (401), (trad. it. C. Carena, Confessioni, Mondadori, Milano 1997, Lib. XI, 14, 17).

[6] E. Borgna, Il fiume…, cit., p. 132.

[7] M. Proust, Du côté de chez Swann, in À la recherche du temps perdu, vol. I, Bernard Grasset, Paris 1913 (trad. it. N. Ginzburg, La strada di Swann, in Alla ricerca del tempo perduto, vol. I, Einaudi, Torino 1978, p. 197).

[8] Ivi, p. 454.

[9] J. L. Borges, Del rigor en la ciencia, in Los Anales de Buenos Aires, Buenos Aires 1946 (trad. it. T. Scarano,

 L’artefice, Il Saggiatore, Milano 1960, p. 180).

[10] Ibid.

[11] Ivi, p. 181.

[12] Ivi, p. 182.

[13] I. Calvino, Le città invisibili, Einaudi, Torino 1972.

[14] S. Freud, Caducità, in Opere, vol. VIII 1915-1917, Bollati Boringhieri, Torino 1989.

[15] E. Borgna, Speranza e disperazione, Einaudi, Torino 2020.

[16] S. Kierkegaard, Le grandi opere filosofiche e teologiche, (ed. it. a cura di C. Fabro, Bompiani, Milano 2013).

[17] Agostino di Tagaste, Confessioni, cit., Lib. XI, 14, 17.

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