Enrico Orsenigo (1992), psicologo iscritto all’Ordine degli Psicologi del Veneto, è Ph.D. Student in Learning Sciences and Digital Technologies all'Università degli studi di Modena e Reggio Emilia. Nei suoi articoli si occupa di psicologia clinica, psicologia dello sviluppo, psichiatria fenomenologica e filosofia della tecnica.

Eugenio Borgna ha esplorato la questione del tempo in psichiatria in diverse delle sue opere; nei suoi testi, l’autore indugia sopra la questione del tempo accostandosi e intrecciando differenti discipline, tra cui psichiatria, filosofia e poesia. Per condurre questa “navigazione”, Borgna ha cercato l’aiuto di Agostino, Kierkegaard, Proust, Weil, ma anche Leopardi, Dickinson, Trakl, Rilke.

Il tempo della clessidra è il tempo dell’orologio, quello che si può misurare; il tempo vissuto, il tempo dell’io, che è diverso in ciascuno. «Il tempo è il nostro supplizio»[1] scriveva Simone Weil. Il tempo può decomporsi, svanire, annodarsi alle esperienze deliranti nei vissuti psicotici, che in psichiatria clinica vengono chiamate schizofrenie. Ma può anche avvicinarsi alle ombre di un passato che ritorna e soverchia, come nelle forme di vita depressive.

Cosa è il tempo? Comincia qui l’avventura di ricerca filosofica (e non solo) di Agostino e che conduce fino ai tempi odierni, mantenendo ancora intatto l’enigma racchiuso nella domanda. Si può gravitare, da definizione a definizione, stabilire orbite provvisorie, ma il tempo vissuto rimane una Recherche ‘sagomabile’ solo a tratti, come in una maglia in cui gli afflati si muovono tra zone luminose e umbratili.

Parola ad Agostino e ai suoi quesiti, inesauribili e ancora scandagliati: «[…] il passato e il futuro, come esistono, dal momento che il primo non è più, il secondo non è ancora? E quanto al presente, se fosse sempre presente, senza tradursi in passato, non sarebbe più tempo, ma eternità» e ancora, trovando una parvenza di percorso da seguire: «[…] è inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro. Forse sarebbe esatto dire che i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro»[2]; Agostino prosegue specificando che il presente del passato si configura nella vita come il tempo della memoria, il presente del presente come tempo della visione e infine il presente del futuro come tempo dell’attesa. Quest’ultimo, tempo dell’attesa, sì, ma come sosteneva Pascal nelle sue immortali Pensées[3], il passato e il presente sono i mezzi mentre il futuro, configurato come avvenire, è il fine.

Spazio e tempo vengono riconosciute (e vissute) come dimensioni interrelate anche in letteratura. Basta rileggere le prime pagine del primo volume de La Recherche – La strada di Swann – per riconoscere l’emergere di un tempo dimenticato attraverso e grazie le immagini di uno spazio che non è più, ma che è stato. Di seguito le parole di Marcel Proust: «Già da molti anni di Combray tutto ciò che non era il teatro e il dramma del coricarmi non esisteva più per me, quando in una giornata d’inverno, rientrando a casa mia madre, vedendomi infreddolito, mi propose di prendere, contrariamente alla mia abitudine, un po di tè»[4]. Proust dapprima rifiuta la proposta della madre, ma poi ha un ripensamento, e accetta il té e le focacce pienotte e corte chiamate Maddalenine. Succede che, dopo il primo sorso misto a briciole di ‘maddalena’, dopo aver sentito con il palato qualcosa di unico e differente, l’edificio del ricordo (così lo chiama l’autore) comincia a sollevarsi: dalla tazza di té ritornano, prima indistinti e poi a poco a poco divisi e più nitidi, i fiori del giardino e quelli di casa Swann, le ninfee della Vivonne e la gente del villaggio, la chiesa di Combray, e via via i dintorni. In  questo senso, l’esperienza vissuta e poi raccontata da Proust è un’esperienza capace di vivificare sia il tempo vissuto allora, in tenera età, sia il tempo dell’orologio che non è più, il tempo misurato e organizzato secondo quanto avveniva all’ora, nel piccolo villaggio. La risalita è doppia dunque: l’olfatto e il gusto portano a coscienza il come si era e il come si viveva. Da qui il precetto proustiano che vede la dimenticanza come una forma del ricordo, non ancora disancorata dal fondo, dal ‘pozzo’, della memoria.

Fulgente quanto osserva Cesare Pavese, a proposito del tempo della vita: «Gli anni diventano lunghi nel ricordo se ripensandoci troviamo in essi molti fatti da distendervi la fantasia. Per questo l’infanza appare lunghissima. Probabilmente ogni epoca della vita si moltiplica nelle successive riflessioni delle altre: la più corta è la vecchiaia perché non sara più ripensata»[5]; emerge la ricchezza dell’esistenza, pensata da Pavese come una ricchezza che continuamente si estende, nelle varie fasi della vita; in questo senso lo scrittore può dire che ad ogni epoca, le precedenti, vengono riviste, sezionate, ricaricate di immagini e pensieri anche non veri, non precisi. Un continuo rinnovamento nel ricordo; una compagnia di giorni e di ore che non sono più ma che man mano che si procede tra ombre e luci soffuse dell’esistenza, ritornano sottoforma di presenze capaci addirittura di nuove sfolgorazioni, nonostante il loro luogo natio sia il passato.

Queste riflessioni di Pavese riportano non al Proust dell’inizio Recherche, ma a quello de La fuggitiva, sesto e penultimo volume della eptalogia. In questo volume, l’autore, immerso nel dolore e nell’ascolto dell’oblio, fa i conti con la partenza di Albertine, sua amata. Seguono lettere d’addio, telegrammi in cui si leggono le disperazioni, i ripensamenti e i tentativi di gettare sonde nel passato per recuperare i ricordi sotto una luce nuova ma capace di trattenere il vero. In un passaggio del testo, l’autore si sofferma proprio sull’idea del tempo, e in questo suo modo di condurre il ragionamento si ritrovano alcune sfumature delle idee di Pavese, scritte trent’anni più tardi.

Proust:

Se pur rimane vero che è il tempo a condurre progressivamente alla dimenticanza, questa non manca di alterare profondamente l’idea del tempo. Avvengono errori ottici nel tempo come nello spazio. […] quell’oblio di tante cose […] come una fitta nebbia sull’oceano, che sopprime i punti di riferimento delle cose – scardinava, smuoveva il mio senso delle distanze nel tempo, là ristrette, qui allungate, e faceva sì che io mi credessi talvolta molto più lontano, talaltra molto più vicino, alle cose, di quel che non fossi in realtà[6].

Nelle pagine successive l’autore ritorna sopra alla questione del tempo dell’io, e spaventato si rende conto della nascita di nuovi ‘filamenti’ di coscienza, nuovi nuclei che vanno sviluppandosi proprio a partire dal meccanismo dell’obliazione; nel caso specifico del sesto volume proustiano, il narratore vede nascere un nuovo Io (o una serie di nuovi Io?) capace di sopportare la vita in assenza di Albertine, l’amata; parla di un vero e proprio ricambio, un intervento all’Io troppo ferito e che sottilmente, giorno dopo giorno, viene sostituito da altri tenuti in serbo, sottotraccia, dal destino. In realtà, arriva a concludere l’autore, questo meccanismo agisce continuamente nelle fasi di vita, e non solo quando parti dell’Io si ‘spezzano’ a causa di laceranti dolori. Capita dunque di ritrovarsi «meravigliati di esser divenuti un’altra persona» e «certo, quell’io aveva conservato qualche contatto con quello antico: come un amico, indifferente a un lutto, ne parla tuttavia alle persone presenti con la tristezza conveniente e ritorna di tanto in tanto nella camera dove il vedovo che l’ha incaricato di ricevere in suo nome continua a far udire i propri singhiozzi»[7].

In materia di psichiatria fenomenologica, Eugene Minkowski[8] arriva a sostenere una visione del tempo similare a quella di Agostino e Proust, nello specifico si tratta di una visione che considera il tempo nella sua enigmaticità; Minkowski associa il tempo a un oceano, enorme e grandioso; non ci sono soggetti né oggetti, solo l’universale impersonale; costituito dai fenomeni dell’attività e attesa, del desiderio e speranza, della preghiera e l’atto etico. Il tempo dunque come sinonimo di vita e dalle molteplici forme espressive. Che ben si associa alla dimensione descritta dai poeti, e in questo va riconosciuta la grande intuizione e non solo in materia di tempo, della psichiatria fenomenologica, capace di operare delle distinzioni centrali nella storia della salute mentale; va riconosciuta a questa disciplina e ai suoi padri la distinzione, per esempio, tra psicologia descrittiva e psicologia comprensiva (Karl Jaspers) e come suddetto, il tempo vissuto dal tempo misurabile, tempo dell’orologio. Questa ultima distinzione, per restare ancora un attimo nel ‘terreno’ della salute mentale e della follia, ha consentito (e consente tuttora) di sentire quanta distanza c’è, nella vita di un soggetto, tra il tempo vissuto e il tempo scansionato dalle ore, dai numeri. Maggiore è la distanza, più solido sarà il posizionamento ossessivo su di uno solo dei versanti. Evidentemente, la soluzione benefica sta nel ricercare il più possibile di vivere i due tempi senza soffocarne parti di uno o dell’altro, senza soverchiamenti od eccessi.

Immagini del tempo che si avvicinano a questa concezione si trovano in alcune delle poesie di Lalla Romano; qui di seguito la poesia dedicata ai Canti delle pazze:

Nella grande casa in fondo al prato
si levavano i canti delle pazze
dapprima dolci e lenti, poi sul pianto
monotono un disperato urlo saliva
e scatenava il coro irto e selvaggio

Breve, e al cupo silenzio rinasceva
più straziato il lamento

Rattristava i sereni campi intorno
quel canto ed ignorava la pietà
ma le sventure ed i futuri mali
annunziava del tempo[9].

Come si può intuire, attraverso Proust e Pavese, Minkowski e Romano, il tempo ha molteplici sfaccettature, numerosi modi per essere raccolto entro una grammatica dal lessico vario, mobile, come i suoi aspetti nel quotidiano, giacché esiste un tempo dell’attesa e della speranza, che è diverso dal tempo della paura e dell’angoscia, o del gioco e del divertimento; esiste il tempo dell’arte che è diverso dal tempo della noia, seppur interrelato. Sono esperienze diversificate dove entrano in gioco linguaggi multipli, che non hanno a che fare solo con la ragione calcolante.

Ognuno di questi tempi persiste nelle varie epoche della vita, assumendo nuove linee di tendenza e di forza che riempiono di nuovi contenuti l’esistenza, portando nell’oblio altrettanti. Di più: Essi persistono mutando a seconda delle esperienze che ogni epoca di vita ha condotto in avanti, nell’epoca successiva. Pensieri impossibili da pensare nell’immediata vicinanza temporale con il loro contenuto, diventando accessibili e narrabili; certo, ci sono le eccezioni, come nei casi dei disturbi post-traumatici, nei quali i meccanismi di difesa assicurano la sopravvivenza al soggetto, concedendogli solo il ricordo di ciò che risponde ai personali criteri di sopportabilità.

Alcune frasi di Eugenio Borgna che a distanza di anni ricorda quanto accadeva nella sua prima infanzia: «nel cuore di una notte, lontana e ancora vicina nella memoria, soldati e ufficiali tedeschi sono venuti in casa alla ricerca di mio padre: entrando dapprima nella stanza in cui dormivo: stavo prendendo lezioni di tedesco, e potevo così salutarli in tedesco: sorpresi, interrompevano allora la perquisizione; ma la cosa induceva mia madre, temendo ulteriori perquisizioni, a lasciare la casa e la città»[10]. Il luogo della vita, del quotidiano, cambia, e cambiando altera il tempo e la sua gestione. È così che Borgna ricorda il tempo a Grassona, nel nuovo paese che ha accolto lui ancora piccolo insieme alla sua famiglia (tranne il padre che lottava con la resistenza). In questa nuova casa l’autore ricorda l’inaridirsi delle ore, che sembravano non passare mai; di contro, il tempo per restare osservatori di se stessi era molto, e così quello per riflettere sul senso delle grandi domande. Il tempo interiore dell’autore subiva della variazioni, ed egli rimaneva presente in questo nuovo scorrere, dalle nuove ‘colorazioni’. Il tempo interiore iniziava a dischiudersi verso il futuro, riempiendo il passato del ricordo delle attese e delle solitudini, «del silenzio rotto solo dal canto degli uccelli»[11]. Ancora una volta lo spazio che segna il tempo, l’evento esteriore che segna il ricordo che, a distanza del tempo, viene consegnato al lettore e quindi riportato fuori, nel suo luogo di origine; una ricerca continua nel tentativo di armonizzare il tempo degli orologi con il tempo dell’io. Com’è difficile, oggi, questo tentativo di equilibrare i due movimenti. Non appare così impegnativo solo per chi vive un’esperienza radicalmente diversa, come le persone che vivono la depressione o l’ossessione; appare una sfida al limite per ogni umano perché ad essere mutato, anzitutto, è il tempo delle società, un tempo della indifferenza e della noncuranza.

Le sensazioni, così intensamente portate su carta da un’autrice come Antonia Pozzi, non possono non venire percepite come sensazioni odierne e per questo comuni:

Ho paura, e non so di che: non di quello che mi viene incontro, no, perché in quello spero e confido. Del tempo ho paura, del tempo che fugge così in fretta. Fugge? No, non fugge, e nemmeno vola: scivola, dilegua, scompare, come la rena che dal pugno chiuso filtra giù attraverso le dita, e non lascia sul palmo che un senso spiacevole di vuoto. Ma, come della rena restano, nelle rughe della pelle, dei granellini sparsi, così anche del tempo che passa resta a noi la traccia[12].

Note:

[1] S. Weil, La connaissance surnaturelle, Gallimard, Paris 1950 (a cura di G. Gaeta, Quaderni. Volume quarto, Adelphi, Milano 1993).

[2] Agostino di Tagaste, Confessiones (401), (trad. it. C. Carena, Confessioni, Mondadori, Milano 1997, lib. XI, 14, 17)

[3] B. Pascal (1670, posthume), Pensées, Garniere-Frères, Paris 1897 (trad. it. P. Serini, Pensieri, Einaudi, Torino 2004).

[4] M. Proust, Du côté de chez Swann, in À la recherche du temps perdu, vol. I, Bernard Grasset, Paris 1913 (trad. it. N. Ginzburg, La strada di Swann, in Alla ricerca del tempo perduto, vol. I, Einaudi, Torino 1978, p. 49).

[5] C. Pavese, Il mestiere di vivere, Einaudi, Torino 1967, p. 133.

[6] M. Proust, La fugitive, in À la recherche du temps perdu, vol. VI, Gallimard, Paris 1925 (posthume), (trad. it. F. Fortini, La fuggitiva, in Alla ricerca del tempo perduto, vol. VI, Einaudi, Torino 1978, p. 188).

[7] Ivi, pp. 189-190.

[8] E. Minkowski, Le temps vécu. Études phénoménologique et psycopatologiques, Editions d’Artrey, Paris 1933 (trad. it. G. Terzian, intr. a cura di E. Paci, Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia, Einaudi, Torino 1968).

[9] L. Romano, Giovane è il tempo, Einaudi, Torino 1974, p. 171.

[10] E. Borgna, Il tempo e la vita, Einaudi, Torino 2015, p. 44.

[11] Ivi, p. 48.

[12] A. Pozzi, Poesia che mi guardi, a cura di G. Bernabò e O. Dino, Sossella, Roma 2010.

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