Enrico Orsenigo (1992), psicologo iscritto all’Ordine degli Psicologi del Veneto, è Ph.D. Student in Learning Sciences and Digital Technologies all'Università degli studi di Modena e Reggio Emilia. Nei suoi articoli si occupa di psicologia clinica, psicologia dello sviluppo, psichiatria fenomenologica e filosofia della tecnica.
Esistono i dati e i dati di fatto. Nell’attuale mondo insano delle pubblicazioni scientifiche, entrambi hanno un ruolo, e i secondi non sono meno rilevanti, poiché riguardano gli stati d’animo, le sofferenze e i disturbi mentali causati dalla pressione e dall’inutilità di un certo ritmo imposto. La totale incompatibilità di questi ritmi con una vita sana suggerisce che il cambiamento non avviene anche perché manca il desiderio di realizzarlo.
È necessario frenare quando l’accelerazione ha uno scopo puramente utilitaristico. In caso contrario, continueremo a vivere ciò che già sperimentiamo: un flusso incessante di ricerche scientifiche i cui risultati girano a vuoto su se stessi, senza sedimentarsi né trasformarsi in conoscenza incorporata. Stiamo continuando a scriverne per mantenere alta l’attenzione: non possiamo permettere che cada nell’oblio ciò che andava risolto già molti anni fa, ai primi segnali di questo sistema malato, dannoso per tutti – ripetiamolo – per l’accademia, per i ricercatori, per le comunità.
A prima vista, potrebbe sembrare che almeno i primi due ne traggano beneficio, ma non è così. Continuando su questa strada, la qualità si deteriora – anzi, si è già deteriorata. Anche gli articoli scientifici sono diventati prodotti noiosi e privi di passione, vincolati a una regola malsana che li impone asettici e serializzati.
“La scienza deve avere una sua organizzazione”, si dirà. E nessuno lo mette in dubbio. Qui, però, si critica un sistema che premia la ripetizione anziché la creatività rigorosa e sostenibile, che privilegia l’impalcatura piuttosto che la sostanza. Troppo spesso, anche in ricerche sperimentali, abbiamo visto dati pilotati a fini utilitaristici. Questo è inaccettabile, perché significa che non solo le ricerche, ma persino i risultati vengono subordinati a ciò che si vuole ottenere, a ciò che si deve far emergere.
È la logica del “sì” heideggeriano, in Essere e tempo: si mangia ciò che si deve mangiare, si beve ciò che si deve bere, si fa ciò che si deve fare – e persino nei modi in cui si deve mangiare, bere, fare.
La frenetica rincorsa alle call for papers dimostra, spesso in modo evidente, il desiderio di molti io che girano a vuoto su se stessi. Per questo, dovrebbero essere premiati soprattutto coloro che colgono realmente l’opportunità offerta da una rivista per esprimere qualcosa di significativo, rivolgendosi sia alla comunità scientifica sia alla società nel suo complesso. Ma quanti riescono a mantenere viva l’attenzione su entrambe queste polarità? Quante sono le riviste e quanti i ricercatori che scrivono con l’intento di offrire un contributo alla propria comunità, donando non solo risultati sperimentali, ma anche un senso, un documento ricco di significati?
Questo rappresenta un punto critico del sistema delle pubblicazioni scientifiche e della loro valutazione: un forte squilibrio che porta a considerare pressoché irrilevanti i contributi teorici. E questo è un problema. Anche la ricerca teorica ha una sua dignità, ma non se ne uscirà finché si continuerà a considerare la teoria sinonimo di astrazione, anziché un processo sorretto dalla nostra biologia che guida gli schemi di azione e riflessività.
Ma torniamo al ritmo e al malessere, anzi, alla nausea del ricercatore. È proprio questo che accade: si pubblica senza sosta, anche dopo aver raggiunto le soglie di abilitazione, anche quando non si ha nulla di significativo da dire (perché è naturale attraversare periodi così), anche quando il corpo chiede una pausa. Intrappolati in questa rotazione, vediamo trasformarsi l’esperienza ricca di senso della scrittura e della lettura in un meccanismo automatico, una catena di montaggio. Si è persa la misura, insieme alla creatività e forse anche al desiderio autentico di conoscere e sviluppare un proprio stile. Sono rari gli articoli scientifici che uniscono originalità, rigore, etica della ricerca e passione. Quando se ne trova uno, bisognerebbe esultare: sono come luci soffuse in un mare di lampioni, che spesso non sono altro che simulacri. Chissà cosa direbbe, a questo proposito, il Jean Baudrillard di Simulacres et simulation.
Si conclude questo secondo messaggio, che già dal titolo manifesta chiaramente i suoi intenti e la sua posizione; con le parole di Nicola Perullo tratte dal saggio introduttivo a Corrispondenze di Tim Ingold (2021, XXXIV):
Vi è una insostenibilità della cultura (come accumulo e come capitale) che produce inquinamento percettivo e conseguenti scorie tossiche. Così come esistono realizzazioni industriali e artigianali in ogni ambito della vita umana – nell’abbigliamento, nell’arredamento, nel cibo – allo stesso modo e più in generale ci sono un pensare industriale e un pensare (o meglio, un sentire/pensare) artigianale. […] Proprio perché non delega a nessuno, il pensare artigiano ha margini di indeterminatezza e imprevedibilità: qui, lo standard di perfezione non corrisponde a quello predeterminato del pensiero industriale, e può rivelarsi incompleto, laterale, disturbante. Così vale per gli standard della cosiddetta produzione scientifica dei paper accademici i quali assai spesso, per essere accettati e pubblicati, devono corrispondere in modo seriale a criteri prestabiliti. Scoperta scientifica e nuovi modi di vedere le cose, però, emergono da sentieri laterali e imprevisti, mai battuti prima o che si battono nuovamente con nuova attenzione, con cura intensificata e percezione rinnovata.