Alfonso Lanzieri (1985) è dottore di ricerca in filosofia dal 2017. Attualmente insegna filosofia presso la Facoltà Teologica di Napoli e l’ISSR “Duns Scoto” di Nola-Acerra. Si interessa principalmente di filosofia della conoscenza e filosofia della mente. Ha pubblicato saggi, articoli e monografie, tra cui Pensiero e realtà. Un'introduzione al "realismo critico" di Bernard Lonergan(Mimesis, 2017); Il corpo nell'anima. Henri Bergson e la filosofia della mente (Mimesis, 2022).

Negli ultimi decenni, la Chiesa cattolica ha conosciuto una trasformazione profonda della sua geografia ecclesiale. Il baricentro del cattolicesimo mondiale si è progressivamente spostato dal continente europeo verso l’Africa, l’Asia e l’America Latina. Basti pensare che sempre più cardinali, vescovi e teologi provengono oggi da quelle realtà che un tempo erano considerate “periferie” della cristianità. Questa dinamica globale ha portato molti osservatori a parlare di una “Chiesa post-eurocentrica”, dove l’Europa non è più il centro nevralgico della vita ecclesiale, né il laboratorio privilegiato del pensiero teologico.

Questo decentramento è scritto nella direzione stessa della storia presente, ed è stato opportunamente sottolineato da Papa Francesco, anche a livello di scelte nel collegio cardinalizio. Tutto ciò, però, non equivale – e non può equivalere – a una periferizzazione delle radici culturali europee del cristianesimo. Tale tema non può essere affrontato col riflesso condizionato e, mi sia consentito, immaturo, di quanti confondono un discernimento storico con una discriminazione culturale. In questo orizzonte, la filosofia greca e il diritto romano – rispettivamente simbolizzate dalle città di Atene e Roma – si riferiscono a qualcosa di più che semplici elementi di contesto in cui si è diffuso l’annuncio evangelico. Se oggi la Chiesa diventa sempre più globale, questa eredità non può essere accantonata. Senza Atene, la fede può essere ridotta a pulsione emotiva e scadere nel fondamentalismo. Tale esito può essere incoraggiato da movimenti in cui la disintermediazione è la tendenza principale, la connessione sentimentale col leader la regola, e il mancato rispetto dell’autonomia della sfera politica laica il necessario esito. I due elementi si rinforzano l’un l’altro. Anti-intellettualismo e rifiuto delle mediazioni e del pluralismo istituzionali fanno tutt’uno (ogni funzionario statale che non esegue gli ordini del Presidente, negli Usa di Trump, è bollato come membro del perfido e ovviamente anti cristiano “Deep State”). Cerchiamo di confrontarci più da vicino con l’eredità di Atene, lasciando Roma sullo sfondo.

In tal senso, può essere utile tornare alla prolusione accademica, pronunciato da un allora giovane professore, Joseph Ratzinger, nel 1959, presso l’Università di Bonn. Il teologo comincia citando Pascal. Come si sa, il pensatore francese, dopo un’esperienza mistica vissuta nella notte tra il 23 e il 24 novembre del 1654, scrisse un appunto che avrebbe gelosamente conservato fino alla morte: «Fuoco. Dio d’Abramo, Dio d’Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e degli scienziati». L’impostazione pascaliana ha rilanciato nella modernità, e per certi versi rafforzato – dice Ratzinger  ̶ la dicotomia tra il Dio della fede, vale a dire il Dio dell’esperienza vissuta, affettivamente sperimentato come affidabile appiglio esistenziale, e il Dio dei filosofi, concetto della mente, fondamento impersonale della certezza razionale. Tale dualismo, afferma il giovane teologo, avrebbe poi preso ulteriore slancio grazie a Kant: questi, dichiarando gli oggetti della metafisica inattingibili per la ragione teoretica, avrebbe definitivamente collocato la religione nella irrazionalità del sentimento. Dobbiamo fidarci di questo dualismo?

Per Tommaso D’Aquino, dice Ratzinger, il «Dio della religione e Dio dei filosofi coincidono pienamente, mentre Dio della fede e Dio della filosofia sono in parte distinti; il Dio della fede supera il Dio dei filosofi, gli aggiunge qualcosa. La religio naturalis, e cioè ogni religione al di fuori del cristianesimo, non ha un contenuto più alto e non può avere un contenuto più alto di quello che gli offre la teologia filosofica». La filosofia, quindi, può affermare, indipendentemente dalla fede, l’esistenza di Dio e fare un certo numero di affermazioni corrette su tale “oggetto”, ma è solo nella fede che si conosce pienamente il volto di questo Dio. La fede, perciò, non contraddice il contenuto della teologia filosofica, semmai, per così dire, lo corregge e lo amplia. La tesi del teologo protestante Emil Brunner – che Ratzinger sceglie come contraltare  ̶  difende, di contro, l’esistenza di un baratro tra i Dio dei filosofi e il Dio biblico. Il primo è l’Assoluto indeterminato, il concetto universale. Il Dio della Bibbia, invece, ha un nome e un volto che si possono invocare nella preghiera. La conoscenza del volto di Dio, però, non è una conquista dell’uomo, ma il puro dono di Dio stesso che si rivela e si rende “interpellabile”. In questo modo è salvata la sua trascendenza. Nella filosofia è l’uomo che cerca e trova Dio grazie al suo sforzo intellettuale; nella fede è Dio e solo Dio che si rivela all’uomo. Senza l’iniziativa di Dio, l’uomo vagherebbe per sempre dietro alle proprie false fantasticherie religiose. Quale via dobbiamo prediligere?

La risposta ratzingeriana può essere solo riassunta. Il giovane teologo riprende la distinzione operata da Terenzio Vallone nell’opera Antiquitates rerum humanarumet divinarum tra theologia mythica, oggetto dei poeti, theologia civilis, oggetto del popolo, theologia naturalis oggetto dei filosofi o dei fisici. Il luogo proprio della teologia mitica e politica viene determinato dalla pratica cultuale dell’uomo (il teatro e la polis); il luogo della teologia filosofica, invece, viene determinato dalla realtà del divino che si trova di fronte all’uomo: il cosmo. Su tali basi, spiega Ratzinger, si può osservare una differenza netta tra le diverse teologie: da una parte quella mitica e politica, che si occupano rispettivamente del mito e del culto dello Stato, dall’altra quella filosofica, che cerca di rispondere alla domanda su chi siano gli dèi. La theologia naturalis, insomma, ha a che fare con la natura degli dèi, mentre le altre due teologie con le istituzioni e i costumi umani. Una teologia naturale senza una pratica religiosa, ma con una divinità, contrapposta a una teologia civile senza alcun Dio.

Nell’ambito pagano, insomma, alla religione non interessa venerare ciò che la scienza scopre come il vero Dio; essa piuttosto si pone al di fuori del problema della verità per dedicarsi alla legalità religiosa. Orbene, afferma il nostro autore, «con questa separazione tra verità filosofica e realizzazione religiosa, Varrone, o il pensiero stoico da lui rappresentato, ha perspicacemente messo in luce la problematica vera e propria dell’antico politeismo». L’essenza di quest’ultimo, infatti, non starebbe, sostiene Ratzinger, nell’affermazione della molteplicità degli dèi. Il politeismo, infatti, non ignora che l’Assoluto in ultima analisi è soltanto uno. «L’elemento costitutivo del politeismo, che lo determina come politeismo, non è la mancanza dell’idea di unità, ma l’idea che l’Assoluto, in sé e in quanto tale, non è per gli uomini “interpellabile”. Esso, quindi, deve decidersi ad invocare le immagini riflesse dell’Assoluto, che sono finite, cioè gli dèi, che per l’appunto non sono “Dio”».

In questo modo – e siamo giunti a un punto di snodo – politeismo e monoteismo concordano, al contrario di ciò che appare, nella convinzione che l’Assoluto sia unico, divergendo però sulla concezione del modo in cui l’uomo vi si rapporta. Per il monoteismo, infatti, l’Assoluto è “interpellabile” come Dio che è nello stesso tempo l’Assoluto in sé e Dio dell’uomo: «l’impresa ardita del monoteismo è nel fatto che esso “interpella” l’Assoluto – il “Dio dei filosofi” – e lo ritiene il Dio degli uomini: “di Abramo, Isacco e Giacobbe”! E certamente esso può osare una tale cosa solo perché sa di essere stato “interpellato” per primo da questo Dio».

Attraverso questo complesso percorso, Ratzinger mostra allora come l’intenzionalità della teologia filosofica (o metafisica) e quella del monoteismo, pur nella loro distinzione, siano in realtà convergenti: la prima vuole conoscere l’Assoluto, anche se questo resta la Causa anonima e impersonale della realtà; il secondo, invece, lo concepisce come interlocutore di una relazione personale.

Ora, spiega Ratzinger, il cristianesimo primitivo ha optato fin da principio per il Dio dei filosofi contro gli dèi delle religioni pagane (in questo assecondando il movimento di emancipazione del Logos dal mito), dichiarandolo come il Dio che è possibile pregare e che parla all’uomo. Di conseguenza ha attribuito a questo Dio dei filosofi un significato del tutto nuovo. Quando la gente incominciò a chiedere a quale dio corrispondesse il Dio cristiano – se a Zeus, o a Ermes, o a Dioniso, o a qualche altro ancora – la risposta fu: a nessuno di essi. Il cristianesimo adora quell’Altissimo che voi non pregate e di cui parlano anche i vostri filosofi. «Se prima di allora le categorie essenziali della religione restavano il puro e l’impuro, il sacro e il profano, ora si afferma con vigore che esistono falsi dèi di fronte all’unico e vero Dio. Alla equivocità del sincretismo religioso, che surclassava il problema della verità perché inessenziale al suo culto, il cristianesimo opponeva l’idea di una verità analoga e partecipata, espressa attraverso la sua dottrina dei “semi del Verbo”» (Sergio Tanzella-Nitti)

In tale prospettiva – e questo è un punto fondamentale  ̶  la questione della verità diventa centrale per il cristianesimo. Sia la filosofia che la fede cristiana delle origini, afferma Ratzinger, hanno l’intenzione di richiamarsi, al di sopra di tutte le potenze “intramondane”, alla stessa potenza primordiale che muove il mondo, che è comune ad entrambe. Tutto questo ha un importante rilievo politico. Da una parte, non lo si può negare, questa impostazione, se non ben maneggiata, può incoraggiare atteggiamenti assolutistici da parte del credente (la storia lo testimonia abbondantemente), che arrivano a negare l’autonomia della sfera mondana. Su ciò non possiamo fermarci adesso. Dall’altro lato, però, si dà anche un risultato che si può salutare positivamente: la relativizzazione di tutte le comunità politiche in nome dell’unità di quel Dio che tutte le trascende. In ciò sta un baluardo di protezione contro il potere totalitario (nessun Kaiser, Imperatore, sarà mai Kyrios, Dio, Signore), e da ogni dispotismo collettivista, in nome dell’assoluta dignità del singolo, destinatario dell’appello di Dio. Tale sbocco crea le condizioni (che poi, purtroppo, restano nelle mani degli attori storici) affinché il cristianesimo non sia utilizzabile come instrumentum regni.

Tanto la religione quanto il pensiero filosofico-scientifico offrono una propria lettura del mondo, e lo fanno secondo una istanza di universalità. Entrambe, in altre parole, tendono a dare ragione, per quanto possibile, della totalità delle cose. Affinché l’istanza di universalità che una religione avanza nel fornire una propria narrazione del cosmo sia pienamente coerente, essa deve sostenere l’onere di un confronto con il sapere filosofico e scientifico. Non per cercare in questi ultimi una sorta di conferma logico-sperimentale della propria fede – che resta collocata su un piano diverso  ̶   ma per mantenere un’istanza critica necessaria, pena lo scadimento nel fanatismo e in una rovinosa frantumazione dell’esperienza religiosa stessa: è questo ciò che il discorso di Ratzinger ci aiuta a comprendere. Nel primo caso, quello del fanatismo, l’esperienza religiosa può arrivare a giustificare degli atti “contro ragione” (da distinguere accuratamente da quelli “al di là della ragione”), quali ad esempio l’uccisione dei propri simili in nome di Dio. Nel secondo caso, quello della frantumazione, l’esperienza religiosa sbriciola l’interezza della persona in frammenti che non comunicano tra loro. Un cristianesimo che si disinteressa della plausibilità del proprio annuncio in ordine alla ricerca nel mondo naturale, ad esempio, a poco a poco risulterà non credibile anche sul piano morale. Nessun Dio può fornire risposte attendibile nell’ordine del senso della vita, se risulta del tutto irragionevole, o peggio muto, quando si tratta di spiegare la realtà nel suo ordine cosmologico (chi si disinteressa del dialogo cristianesimo e scienza, pensando si tratti di un’aggiunta buona per gli accademici, non sa bene a costa sta rinunciando!). Per questo, lo ripetiamo, la questione della verità è centrale. Solo se Dio è il fondamento dell’Essere, allora può dirmi qualcosa di ragionevolmente ammissibile sul Senso della vita, e lo può dire a ogni uomo, indipendentemente dalla sua cultura, proprio perché quell’uomo è collocato nel cosmo di cui quel Dio è Creatore.

«Dio è Dio di tutto l’universo o non è Dio», ha detto il grande teologo belga Adolphe Gesché: anche se la parte essenziale della sua preoccupazione è per l’uomo, perché Dio sia il Dio dell’uomo occorre ch’egli non sia soltanto il Dio dell’uomo.

Se l’annuncio cristiano perde il contatto con l’istanza di universalità del Logos, l’esito necessario di questa scissione può seguire due vie: da una parte, quella di un cristianesimo trasformato in religione civile e (inavvertito) deismo naturalistico, da cui è stato tolto ogni carisma; dall’altra, quella di un cristianesimo ridotto a sentimento religioso incomunicabile, racconto fondativo della propria cultura-setta. Mi pare che oggi queste due risultanti convivano fianco a fianco, ma la seconda stia prendendo sempre più piede. In questo senso, il cristianesimo non può fare a meno dell’Europa, perché non può fare a meno dell’universalismo della ragione di Atene, sebbene non sia ovviamente riducibile a questo.

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