Alfonso Lanzieri (1985) è dottore di ricerca in filosofia dal 2017. Attualmente insegna filosofia presso la Facoltà Teologica di Napoli e l’ISSR “Duns Scoto” di Nola-Acerra. Si interessa principalmente di filosofia della conoscenza e filosofia della mente. Ha pubblicato saggi, articoli e monografie, tra cui Pensiero e realtà. Un'introduzione al "realismo critico" di Bernard Lonergan (Mimesis, 2017); Il corpo nell'anima. Henri Bergson e la filosofia della mente (Mimesis, 2022).

Nel mio precedente intervento su “verità e democrazia”, ho affermato che quando una democrazia è fondata su un’idea di verità ridotta al rango di mera opinione, quando non va oltre la concezione della comunità come campo di giustapposizione tra veritates, corre il rischio di diventare permeabile al potere tecnocratico, per il quale le “fedi” individuali o di gruppo sono un inciampo alla pianificazione ottimale della polis: la competenza dei tecnici, infatti, assicura una soluzione dei conflitti rapida ed economicamente vantaggiosa. In questo modo, però, il prezzo da pagare potrebbe essere piuttosto alto: la cessione alla gabbia d’acciaio tecnocratica di ampia parte delle nostre libertà, consegnate a procedure burocratiche sempre più impersonali e invasive.

La crescita della liberalizzazione dei comportamenti individuali, infatti, può trarre in inganno: solo in apparenza è in contraddizione con la crescita della pianificazione tecnocratica. In realtà, i due fattori sono del tutto collegati, poiché la formalizzazione tecnica, burocratica ed economica è tanto più efficace quanto minore è la resistenza di valori o credenze personali, ridotte al rango di opzioni individuali perfettamente equipollenti.

Può essere interessante, a tal proposito, un richiamo alla riflessione sulla tecnica del filosofo Günther Anders. Nella sua opera principale, L’uomo è antiquato (1956), Anders, in un certo qual modo, ribalta il mito di Prometeo: il rapporto dell’uomo col limite, oggi, non è più viziato dal peccato di hybris, della tracotanza, o per lo meno non è questo il problema principale. Essenziale è invece puntare lo sguardo sui prodotti umani e sulla loro crescente potenza e perfezione. L’uomo, rispetto ai propri prodotti, è sempre più debole in fatto di capacità o skills – si direbbe nell’odierno dizionario tecnologico – e avverte tale ritardo come un deficit progressivo e in definitiva incolmabile. «È ben vero – scrive Anders ne L’uomo è antiquato – che possiamo fare la bomba all’idrogeno, ma non siamo in grado di raffigurarci le conseguenze di quel che noi stessi abbiamo fatto. E allo stesso modo, il nostro sentire arranca dietro al nostro agire: con le bombe possiamo distruggere centinaia di migliaia di uomini, ma non compiangerli o rimpiangerli. E, infine, ultimo della retroguardia, umiliatissimo ritardatario, ancor oggi coperto dei suoi cenci folkloristici, il corpo umano trotterella a grandissima distanza, dietro a tutti, privo di sincronizzazione con tutti quelli che lo precedono». Il dislivello tra l’uomo e i suoi artifici, insomma, si è allargato sempre di più negli ultimi decenni: Prometeo è riuscito a creare prodotti che per efficienza e prestazioni risultano infinitamente superiori rispetto a ciò che può fare egli stesso, ragion per cui ha finito con lo sviluppare una forma di vergogna per questa sua “inferiorità”, un tipo di sentimento che non esisteva in passato, che Anders definisce “vergogna prometeica”.

L’acutezza della riflessione andersiana consiste nel non leggere la relazione uomo-macchina secondo lo schema classico della reificazione dell’uomo, per cui quest’ultimo vedrebbe minacciata la propria dignità ontologica dallo sviluppo vertiginoso delle capacità della macchina, nella quale sarebbe sempre più alienata la propria essenza. Per il nostro autore il disagio dell’uomo contemporaneo consiste proprio nel non poter essere una macchina, poiché la sua origine biologica differisce radicalmente da quella della macchina: l’origine biologica porta con sé il contrassegno del limite, del caduco, dell’imperfezione, mentre l’origine artificiale – al contrario – è foriera di superiori capacità, poiché la macchina non solo è svincolata dai limiti propri della “carne”, ma gode di poteri più elevati rispetto alle forze umane (pensiamo solo, ad esempio, alle capacità computazionali di un elaboratore rispetto a quelle del cervello umano). L’uomo contemporaneo, allora «si vergogna di essere divenuto invece di essere stato fatto, di dovere la sua esistenza, a differenza dei prodotti preferiti e calcolati fino all’ultimo particolare, al processo cieco e non calcolato e antiquatissimo della procreazione e della nascita». In altre parole, secondo Anders, l’umanità sogna inconsciamente di appartenere alla serialità industriale: la singolarità dice imperfezione, la riproducibilità in sviluppo è invece assenza (potenziale) di limiti. L’alienazione è questo sogno, e insieme la causa del nostro malessere, almeno per Anders.

Orbene, se si riflette con attenzione sulle capacità di sviluppo e riproducibilità indefinita della macchina, sembriamo qui messi di fronte a una sorta di strana forma di “vita eterna”: ciò che può riprodurre se stesso in modo sempre identico illimitatamente, in maniera tale che ogni nuova copia sostituisca perfettamente la precedente (ciò che Anders chiama “reincarnazione industriale”), sembra quasi in effetti una forma d’immortalità: i singoli “pezzi”, in verità, non sono affatto “singoli”, ma ripropongono nella loro individualità il Medesimo. Ogni prodotto tecno-industriale, infatti, è “ben fatto” nella misura in cui ripete il più fedelmente possibile le stesse funzionalità del genere di strumento cui appartiene. Non nell’essere originale, ma nel non differire affatto da tutti gli altri della stessa specie, sta lo statuto di uno strumento ben prodotto. Tale uguaglianza garantisce in linea di principio la perfetta funzionalità dello strumento rispetto al macro-meccanismo cui esso è al servizio. In scia con quanto detto, affermo che tale quadro d’insieme riesce a dirci qualcosa sul funzionamento del dispositivo tecnocratico. Come la macchina lavora in moto ottimale solo se i pezzi sono perfettamente adattati e omologati rispetto a un fine predeterminato, così, per analogia, il dispositivo tecnocratico sembra voler espellere ogni idea di verità (intesa in senso forte), proprio perché il toglimento di tale fattore elimina le differenze singolari e di gruppo, con la promessa-esca della neutralizzazione del conflitto, spianando il campo al dispiegamento del potere dei “competenti” (e sottraendolo poco a poco ai “politici”). Del resto, se assumiamo la prospettiva andersiana, questo sarebbe l’ultimo limite che resta da abbattere al paradigma tecnocratico perfettamente dispiegato. Nell’ultima fase dell’espansione della ragione strumentale, insomma, il limite da superare da esterno diventa interno: dopo aver ridotto ogni cosa a prodotto, non resta che ridurre a prodotto il produttore stesso.

Forse non è un caso che un altro pensatore “apocalittico” (lui stesso si definisce tale), mi riferisco al filosofo coreano Byung-Chul Han, abbia parlato dell’Uguale come figura del dominio. Solo nel segno dell’Uguale, argomenta Byung-Chul Han, è possibile l’incessante circolazione di informazioni e capitali: l’Altro, la singolarità differente, è diventato, nel mondo neoliberale contemporaneo, il “diverso”, intoccabile nel suo mantello di retorica inclusivista e perbenista, e quindi – paradossalmente – è diventato un prodotto, un’altra faccia del mio “io”, un Uguale, appunto (si veda L’espulsione dell’Altro, 2017).

Non si intende stabilire un collegamento filosofico forte tra Han e Anders, quanto richiamare l’attenzione sull’Uguale come incrocio tra due contributi (altri se ne potrebbero aggiungere) che, pur partendo da contesti diversi, ci aiutano a segnalare la tendenza tecnocratica alla totalizzazione: la verità dev’essere solo credenza individualistica (e perciò ininfluente sul piano pubblico), l’ontologia un mero inventario degli enti, l’etica e il diritto un regolamento di condominio che eviti il più possibile noie tra vicini. La Macchina non ammette differenze effettuali, non ammette cioè il negativo, perciò non può dare spazio ad alcun concetto di verità che pretenda per sé il carattere dell’assolutezza. Infatti il vero, così inteso, è un urto, è un limite, è esclusivo perché distingue (mentre oggi si vuole solo includere anche a rischio di confondere): è tutto ciò che frena la Macchina. Se le diverse “visioni del mondo” sono dismesse in nome del Medesimo, la Politica retrocede (o avanza, a seconda dei gusti) a lavoro per tecnici depositari del sapere, i quali conoscono la soluzione più efficace in ogni contesa.

In un tale scenario – nel quale, per una certa percentuale, a mio avviso siamo già – cosa resta del principio democratico? Siamo tornati così, ad affermare la tesi iniziale: senza un’idea adeguata di verità, la democrazia è più debole. Si tratta ora di indagare meglio questa idea.

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