Alfonso Lanzieri (1985) ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Filosofia presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Presso lo stesso ateneo è attualmente docente a contratto di Bioetica. È inoltre borsista di ricerca presso l’Università del Molise. Dal 2016 è docente incaricato presso la Facoltà Teologica di Napoli e l’ISSR “Duns Scoto” di Nola-Acerra. È docente di ruolo di Filosofia e Storia nei Licei. Si interessa principalmente di filosofia morale e filosofia della mente. Ha pubblicato saggi e articoli su riviste nazionali e internazionali. La sua ultima monografia è Il corpo nell'anima. Henri Bergson e la filosofia della mente (Mimesis, 2022).

In questo mese di ottobre 2025, la Fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS) ha presentato la XVII edizione del Rapporto biennale “Libertà religiosa nel mondo”, un documento che analizza la condizione di questo diritto fondamentale nel periodo 2023-2024. Lo studio, frutto di un’ampia indagine su 196 Paesi, rivela un quadro preoccupante: oltre 5,4 miliardi di persone, ossia due terzi della popolazione mondiale, vivono in Stati in cui la libertà religiosa è gravemente limitata o del tutto assente. Il Rapporto segnala violazioni gravi in 62 Paesi, di cui 24 classificati come casi di persecuzione e 38 come discriminazione. L’autoritarismo politico, manco a dirlo, emerge come principale causa di questa repressione: in 19 dei 24 Paesi più colpiti, e in 33 dei 38 dove si registra discriminazione, i governi attuano politiche sistematiche per controllare la vita religiosa, ricorrendo a leggi restrittive, detenzioni arbitrarie e sofisticati sistemi di sorveglianza digitale.

Nazioni come Cina, Iran, Eritrea e Nicaragua fanno della religione uno strumento di potere politico, dando vita a una vera “burocrazia della repressione”. Allo stesso tempo, in 15 Paesi è l’estremismo islamista la principale fonte di persecuzione, soprattutto in Africa e in Asia: il fenomeno è purtroppo in espansione. Il Sahel è oggi il cuore del jihadismo globale, teatro di massacri, esodi forzati e distruzione sistematica di chiese e comunità. In Asia, infine, il nazionalismo etnico-religioso alimenta la violenza contro le minoranze: in India e Myanmar il Rapporto parla di “persecuzione ibrida”, dove la discriminazione legale si intreccia con aggressioni civili tollerate o persino incoraggiate da governi nazionalisti.

Questi dati mostrano quanto la libertà religiosa sia fragile e quanto la sua negazione rappresenti la minaccia più radicale alla dignità umana. Quest’ultima affermazione non riguarda la religione in sé bensì una precisa filosofia dei diritti umani, se così ci si può esprimere. Secondo tale filosofia, tra tutti i diritti fondamentali, la libertà religiosa è la più importante perché è il presupposto di ogni altra libertà. Per quale motivo? Perché essa non riguarda soltanto la sfera del culto o l’appartenenza a una comunità di fede, ma tocca il centro stesso dell’esperienza umana: la coscienza. Essere liberi di credere – o di non credere – significa riconoscere che esiste una dimensione dell’uomo che nessun potere può violare. La libertà religiosa custodisce lo spazio interiore in cui l’individuo si confronta con la verità, con il bene, con Dio o con l’idea di giustizia. In altre parole, la libertà religiosa custodisce quello spazio assolutamente singolare in cui ciascuno deve poter cercare ciò che ritiene la verità per sé. Su tale premessa poggiano la libertà di pensiero, di parola e di azione: libertà che non avrebbero significato se la coscienza fosse soggetta a coercizione. Senza la libertà religiosa, quella di espressione sarebbe vuota, la libertà politica arbitraria e la libertà morale impossibile. Essa tutela non solo i credenti, ma anche i non credenti, perché difende la libertà di cercare la verità secondo coscienza. Ciascuna persona dev’essere libera di cercare il proprio assoluto, ciò che per lei è il “bene”, il “vero” e il “giusto”. Per tale ragione, la libertà religiosa è anche la più “umana”: in essa si esprime l’insopprimibile apertura all’infinito che fa dell’uomo quell’animale spirituale che è, come ha riconosciuto anche Kant, quando ha scritto nella prefazione alla Critica della ragion pura che «la ragione umana ha il particolare destino di venir assediata da questioni, che essa non può respingere, poiché le sono assegnate dalla natura della ragione stessa, ma alle quali essa non può neppure dare risposta, poiché oltrepassano ogni potere della ragione umana». La dimensione religiosa è proprio un singolare destino umano. Affermare ciò  ̶  giova chiarirlo  ̶  perché su tali questioni c’è oggi molta confusione  ̶   non significa prendere posizione sull’esistenza di Dio o sponsorizzare l’appartenenza a una certa religione. L’uomo è religioso anche quando non è un uomo religioso, vale a dire si disinteressa di fedi e credenze religiose: la dimensione religiosa è l’apertura dell’uomo alla dimensione trascendente, quella che ci fa porre domande metafisiche sul senso della vita, ad esempio. Tale dimensione può essere anche spiegata in base ai meccanismi biochimici alla base della vita e dell’evoluzione: qui stiamo affermando solo che c’è, come fatto inemendabile.

Del resto, l’importanza della libertà religiosa emerge anche ad un semplice sguardo storico: essa è la madre delle libertà civili. Le lotte per la tolleranza nei secoli XVII e XVIII, di cui il nostro continente è stato teatro, hanno infatti posto le basi per i moderni diritti civili e politici. Prima di essere libertà di stampa, di parola o di associazione, la libertà moderna è stata libertà di coscienza e di fede. Come scriveva John Locke nella Lettera sulla tolleranza (1689), ad esempio, la libertà religiosa coincide innanzitutto con la libertà della coscienza. Il filosofo inglese distingue con precisione la sfera del potere politico da quella della fede, mostrando che la religione autentica non può essere oggetto di coercizione. Lo Stato, scrive Locke, è una «società umana costituita unicamente al fine della conservazione e della promozione dei beni civili»: la vita, la libertà, la salute e la proprietà. Il compito del magistrato civile è garantire la sicurezza e la giustizia tra gli uomini, non la «salvezza delle anime». Quest’ultima, infatti, non può essere affidata all’autorità temporale, poiché nessun potere terreno possiede il diritto di costringere un uomo a credere. La fede, per sua natura, nasce dalla convinzione interiore, non dall’obbedienza esteriore. Si può imporre un gesto, una parola, un rito, ma non si può costringere il cuore a credere ciò che non riconosce come vero. Ogni tentativo di coercizione religiosa produce solo ipocrisia e menzogna, e finisce per aggiungere al peccato l’offesa alla verità. Con Locke e oltre Locke, dunque, possiamo affermare che la coscienza è inviolabile, perché appartiene unicamente alla persona (ed eventualmente a Dio), non allo Stato, fosse anche uno Stato confessionale. La forza pubblica può limitare i comportamenti, ma non può né deve entrare nell’intimità della fede. Da questa distinzione discende un principio di straordinaria portata: la libertà religiosa come fondamento della libertà civile. Se lo Stato non ha potere sulla coscienza, allora ogni individuo è libero di cercare la verità secondo la propria ragione. La tolleranza, in questa prospettiva, non è semplice concessione, ma riconoscimento della dignità dell’uomo come essere morale. È il punto di partenza della società moderna, in cui la convivenza pacifica non nasce dall’uniformità, ma dal rispetto della diversità spirituale. Così, attraverso la riflessione lockiana, qui fugacemente richiamata, possiamo vedere come la libertà della coscienza diventi il principio generativo di tutte le altre libertà: perché solo un uomo che non è schiavo nel suo intimo può essere veramente libero anche nella vita pubblica.

Alla luce di quanto emerge dal Rapporto 2025 della Fondazione Aiuto alla Chiesa che Soffre, la libertà religiosa appare non soltanto come un diritto gravemente minacciato in vaste regioni del pianeta, ma come una verità dimenticata anche nelle società che pure se ne dicono custodi. L’Occidente, che ha edificato la propria civiltà sul riconoscimento della coscienza come spazio inviolabile, mostra oggi una crescente reticenza morale: esso esita a denunciare con chiarezza i regimi che reprimono la fede, come se la difesa della libertà religiosa appartenesse ormai a un passato ingombrante, o fosse un privilegio confessionale anziché un fondamento della dignità umana. Questa esitazione non è solo politica, ma, oserei dire, spirituale.

Le democrazie occidentali, pur proclamandosi laiche e pluraliste, sembrano aver smarrito il senso profondo di quella libertà che le ha generate. Mentre si mobilitano, e talvolta con enfasi, per molte cause di giustizia, appaiono imbarazzate quando la violenza contro la fede proviene da culture o poteri “altri”, quasi temessero di infrangere un fragile equilibrio di tolleranza o di cadere in un anacronismo morale. In questo silenzio, però, si cela un rischio più sottile: quello di relativizzare la libertà stessa, di ridurla a un prodotto culturale occidentale, anziché riconoscerla come esigenza universale dell’umano. Così accade che, mentre milioni di persone nel mondo vengono perseguitate per la loro fede, le società più libere smettono di comprendere che la libertà religiosa è la misura della libertà in quanto tale. Quando essa è negata, ogni altra libertà si svuota; quando è trascurata, la democrazia stessa si indebolisce.

Difendere la libertà religiosa non significa imporre una visione del mondo, ma riaffermare il primato della coscienza contro ogni forma di dominio, politico o ideologico. Il cerchio si chiude dunque dove si era aperto: dinanzi ai numeri del Rapporto, che non sono soltanto statistiche di dolore, ma specchio del nostro stesso disincanto. Forse il compito più urgente per l’Occidente non è soltanto denunciare la persecuzione altrui, ma ricordare a sé stesso il senso sacro della libertà che proclama – e riconoscere, con umiltà e fermezza, che là dove l’uomo non è libero di credere, nessuno è davvero libero di vivere.

Loading