Francesco Paolella (1978) ha studiato filosofia a Bologna e a Parma. Si occupa di storia della psichiatria. Fa parte del Comitato tecnico-scientifico del Centro di storia della psichiatria di Reggio Emilia.È membro di Clionet, Associazione di ricerca storica e promozione culturale. È redattore della "Rivista Sperimentale di Freniatria" e scrive per TYSM.

Recensione a: Gioacchino Volpe nell’Italia repubblicana, a cura di G. Belardelli e G. S. Rossi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2025, pp. 176, € 15,00.

La parte finale della vita di Gioacchino Volpe, fra i massimi storici italiani, è interessante anche e anzitutto proprio dal punto di vista esistenziale: con il crollo del fascismo e la liberazione del 1945, Volpe si ritrovò solo e (quasi del tutto) abbandonato a se stesso: conobbe la fine della propria carriera accademica, conobbe l’umiliazione di vedere le proprie opere ignorate e vide, non ultimo, il fallimento della propria visione della nostra storia nazionale, della stessa identità italiana. Volpe subì insomma un vero e proprio trauma, da cui – pur vivendo ancora decenni nell’Italia democratica – non seppe mai riprendersi. Bollato (e non a torto ovviamente) come fascista (un fascista certo “complicato” e che fra l’altro finì per assumere una posizione assolutamente critica sugli esiti del regime, non aderendo alla RSI), Volpe in un certo qual modo sopravvisse a se stesso, al proprio ruolo di intellettuale ed educatore “laureato”, dedicandosi nel dopoguerra sì, pur fra mille difficoltà, al proprio lavoro di saggista, ma non riuscì a vincere il disincanto e ritrovandosi così ad essere una specie di esule in patria.

Questa raccolta di saggi, frutto di un convegno del 2023 e curata da Giovanni Belardelli e da Gianni Scipione Rossi, mostra tutti questi temi, inserendo il dramma di Volpe nella storia culturale e politica dell’Italia del dopoguerra. Vi ritroviamo così delineate tutte le difficoltà di Volpe, i legami mantenuti e quelli persi, le generazioni di eredi più o meno diretti, e così via.

L’emarginazione a cui Volpe fu sottoposto – è bene precisarlo – non fu il risultato di una congiura immotivata. La centralità dello storico abruzzese nella vita culturale e politica italiana durante il fascismo comportò inevitabilmente una sua successiva “epurazione” (anche se, nei fatti, Volpe venne collocato a riposo dall’insegnamento universitario). L’oblio a cui fu relegato, l’essere segnato come un “relitto del passato” e un “cattivo maestro”, fascista indifendibile, anche se atipico, non può però essere descritta come una vera e propria damnatio memoriae:

parlare di ostracismo – come ha scritto Mirco Carrattieri nel suo saggio dedicato alla rinascita degli studi su Volpe – non è in assoluto fuori luogo, ma, personalmente, eviterei di riprendere oggi alla lettera i giudizi di allora dello stesso Volpe, un uomo che, privato del ruolo di rilievo che aveva rivestito durante il ventennio, matura una notevole frustrazione, che lo porta in quel periodo a scagliarsi con violenza anche verso interlocutori simpatetici come Federico Gentile o Federico Chabod (p. 65).

Volpe continuò a pubblicare e ripubblicare i suoi libri, collaborò attivamente con diversi quotidiani (come ad esempio “Il Tempo”) e periodici (come ad esempio “Il Candido” di Guareschi) che si collocavano nel campo della destra (e anche direttamente nell’area del MSI), facendo insomma sentire la propria voce: la voce di un uomo che vedeva nella catastrofe del 1945 una perdita irrecuperabile e che mostrava ai “superstiti” la fine del valore della nazione, lo spegnersi del «vigore natio» del popolo italiano, idee attraverso le quali cui aveva riletto i secoli della nostra storia.

Sono anche particolarmente interessanti i saggi del volume dedicati ai temi di cui Volpe si occupò nei suoi interventi giornalistici nei lunghi anni del dopoguerra, a cominciare dai conti ancora da fare con l’esperienza fascista (per cui sarebbe un errore grossolano liquidarlo come un “neofascista”) e, più in generale, della necessaria pacificazione post-guerra civile, ma senza dimenticare l’idea di una nuova Europa possibile, che risorgesse dalle ceneri del nazifascismo:

“L’Europa non è più al centro della terra”, scrisse Volpe nel 1951. Gli effetti della ‘guerra fredda’ continentale, prodotto della divisione postbellica dell’Europa tra lo sviluppo del capitalismo a Occidente e il dilagare del comunismo a Oriente, avevano posto in primo piano nello scacchiere continentale il ruolo indiscusso dell’America. Gli Stati Uniti, “America per eccellenza”, avevano vinto il conflitto e insieme con l’Unione Sovietica avevano egemonizzato l’Europa distrutta. Volpe riflette in questa occasione con grande amarezza sul finis Europae nel mesto crepuscolo di una vicenda gloriosa, che all’interno dell’infausto dopoguerra stava vivendo la stagione della definitiva decadenza (Marco Trotta, p. 123).

Merita di essere citato anche il saggio di Federico Poggianti sul D’Annunzio (anzitutto politico) visto da Gioacchino Volpe, ovvero sui rapporti di vicinanza ideale fra i due intellettuali abruzzesi: si tratta di una consonanza (il vitalismo, l’antiparlamentarismo, l’allontanamento tardivo dal fascismo) che percorre tutta la biografia di Volpe e che emerge benissimo nel volume che lo stesso dedicò al Vate nel 1959. Da ultimo, vale la pena di consigliare il bel saggio con cui Giovanni Belardelli ha voluto ricostruire le vicende editoriali di una fra le opere maggiori di Volpe, L’Italia moderna (uscita in tre volumi fra il 1943 e il 1952, per 1.500 pagine complessive). La fortuna di questo libro rappresenta al meglio le traversie, le convinzioni e le ostinazioni di Volpe, la sua visione conflittuale della storia e la ricerca inesausta, nel passato, del grande spirito degli italiani.

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