Nicolò Bindi (1991) si è laureato in Filologia Moderna all’Università degli studi di Pisa, discutendo una tesi su “Teoria e pratica del futurismo. Palazzeschi, Marinetti, Soffici”. Interessato principalmente agli aspetti stilistici, metrici e linguistici, sta concentrando le sue ricerche letterarie soprattutto sugli autori delle avanguardie storiche e del modernismo italiano ed europeo. Collabora con diverse associazioni culturali. È docente presso l'Istituto "Francesco Datini" di Prato.
Recensione a
S. Campailla, Un’eterna giovinezza
Marsilio, Venezia 2019, pp. 300, €20,00.
Quella di Carlo Michelstaedter è certamente una delle figure più affascinanti e controverse della storia della nostra letteratura: morto suicida a soli ventitré anni, subito dopo aver fatto spedire la sua tesi di laurea all’università di Firenze. Già al tempo questo atto estremo destò molto scalpore: Giovanni Papini non esitò a dedicare un articolo al giovane, pur non conoscendolo di persona e, tanto meno, senza aver mai letto niente da lui prodotto. Da questo articolo si propagò il mito del cosiddetto «suicidio metafisico» di Michelstaedter.
Oggi ben più sappiamo di Michestaedter, anche grazie all’inestimabile lavoro condotto da Sergio Campailla, lavoro che oggi si è arricchito di un nuovo volume, Un’eterna giovinezza. Vita e mito di Carlo Michelstaedter, edito da Marsilio per la collana Specchi. In questo volume Campailla ripercorre la biografia dello scrittore, con l’intento di rinverdire e aggiornare il suo precedente titolo A ferri corti con la vita, già dedicato alla vita dell’autore goriziano, ma datato 1974.
Il tentativo di Campailla è certamente lodevole: lo studioso, infatti, si propone di ricostruire non solo la vicenda biografica (che, per forza di cose, si presenta molto scarna), ma anche l’ambiente culturale, domestico e psicologico in cui Michelstaedter ha vissuto. Il risultato ottenuto, però, non pare essere totalmente all’altezza dell’iniziativa. Lo studioso, infatti, cerca di armonizzare tutti gli aspetti precedentemente detti tramite un numero decisamente alto di digressioni, a volte anche molto ampie. Questo ha l’effetto spiacevole di appesantire la lettura globale del testo, e richiede al lettore il notevole sforzo di non perdere il filo globale del discorso. L’esempio più notevole lo si può riscontrare nel capitolo intitolato L’ambiente familiare: qui, nel bel mezzo della narrazione della storia dei genitori di Carlo, Campailla “irrompe” prepotentemente, cominciando una lunga e dettagliata descrizione (da p. 34 a p. 36) di una sua recente visita alla casa natale dell’autore, a Gorizia. Finita questa digressione, il racconto ricomincia esattamente da dove era stato interrotto. Da questo esempio escono fuori altri difetti vistosi che posso essere trovati, quando più o quando meno, all’interno dell’intero volume: il primo è che non tutte queste ampie digressioni sembrano essere strettamente necessarie. Nel caso citato, dedicare ben due pagine alla descrizione dello stato attuale della casa di Michelstaedter, visto anche il contesto in cui è calata, sembra quanto meno superfluo. Ma se questo è il caso più eclatante e più ampio, di tali interventi poco attinenti è costellato il testo. Alcune di questi appaiono pure come esercizi di erudizione un po’ fini a se stessi, come il seguente:
Un problema e una piaga d’epoca. Di cui darà una versione mitizzante, con riscatto artistico, Thomas Mann nel Doctor Faustus. Un’opera che è del 1947, ma che immagina, con molte allusioni, in particolare al caso di Nietzsche, che il compositore Adrian Leverkühn nel 1906 contragga la sifilide da una prostituta di nome Esmeralda in un bordello, all’età di ventuno anni. Di qui il patto con il diavolo che garantirà la sua genialità creativa, ma anche una degenerazione senza scampo. Siccome nell’invenzione di Thomas Mann Adrian nasce nel 1885, c’è tra lui e Carlo uno scarto perfetto di due anni, sia nella nascita che nel tempo della malattia (p. 178).
Il pezzo in questione è calato all’interno della narrazione dei mali fisici di Carlo, e vorrebbe essere un paragone tra la condizione del goriziano e quella del protagonista di Mann. Non esistono, però, legami effettivi tra l’opera citata e Michelstaedter, tanto più che la sua pubblicazione è datata 1947, e neanche sembra troppo opportuno scomodare Thomas Mann per affermare che all’inizio del Novecento era uso comune, tra gli uomini, la frequentazione delle case chiuse. Un paragone come questo non ha altro effetto, a parer mio, di disorientare il lettore, stimolandolo a ricercare legami letterari là dove non ci sono.
Il secondo problema riscontrabile attacca omogeneamente tutto il volume, ed è l’assoluta ambiguità della scrittura di Campailla, a metà tra il gusto romanzesco e l’approccio scientifico. Si torni, in questo caso, proprio alla descrizione della casa di Michelstaedter:
Varcato il vecchio portone in legno, l’androne buio con le grandi lastre lucide in ardesia, almeno quello, è rimasto come una volta. Il colpo d’occhio sarà stato, più o meno, lo stesso. Nella corte, le buche della posta che nessuno usa più, le biciclette, dai davanzali e sui pianerottoli i panni stesi e oggetti domestici e sui muri le macchine arrugginite dell’aria condizionata. Le scale sono in pietra d’Istria, con le balaustre e i corrimano in ferro battuto; ma, arrivati al piano che ci interessa, diventano di cemento, con le ringhiere in legno. È restauro in economia, dopo la devastazione bellica (p. 35).
Nel testo sono presenti tanto interventi “romanzeschi” come quello citato, che poco hanno a che fare con la critica letteraria, quanto analisi di critica psicanalitica, con tanto di analisi testuali (si veda, ad esempio, il capitolo intitolato Il padre-sfinge, pp. 184-198). Anche in questo caso l’ambiguità disorienta il lettore: cosa si sta leggendo, una biografia romanzata o un testo di valore scientifico? È un libro da leggersi con l’approccio leggero del fruitore occasionale o con il piglio dello studioso? In entrambi i casi la lettura non può che lasciare un po’ di amaro in bocca.
I problemi individuati finora, però, sono frutto di quello che è il più rilevante difetto di cui soffre Un’eterna giovinezza: l’ingombrante presenza dell’autore. Per esercitare una critica efficace (che riguardi la biografia, i testi o, meglio ancora, entrambi), il critico deve farsi “vassallo” dell’autore studiato, guardandosi bene dal non spodestarlo dal trono. Se il critico si fa protagonista, tramite esercizi di erudizione e slanci romanzeschi, rischia di ritrovarsi, anche involontariamente, a imboccare la strada del narcisismo. Campailla cade proprio in questo errore, che viene reso manifesto anche per alcuni passi che rasentano l’autocelebrazione:
È, a quel che sappiamo, il primo di una lunga serie di tentativi che il giovane effettuerà per procurarsi un qualche inserimento; tentativi di cui A ferri corti con la vita ha fornito per la prima volta la documentazione (p. 78).
Si colloca a questo punto un altro suo tentativo compiuto per trovarsi un’attività, un tentativo di cui prima di A ferri corti con la vita non era mai trapelata notizia […] (p. 151).
Si ricordi che A ferri corti con la vita è infatti il precedente lavoro di Campailla su Michestaedter. Questo atteggiamento è riscontrabile anche nella parte più prettamente critica della biografia, che, come ho anticipato, ha un approccio psicanalitico. L’analisi del rapporto con i genitori e le ripercussioni di esso su alcuni scritti appare effettivamente ineccepibile, e Campailla dà qui prova di ottima intuizione e capacità d’analisi. Ma cosa può aggiungere al pensiero di Michelstaedter il diagnosticargli un complesso edipico? Ci sono autori, come Umberto Saba, per cui la tecnica della critica psicanalitica è consigliata ed efficace, per comprenderne pienamente l’opera. È così anche per Michelstaedter? L’analisi non sembra portare a risultati critici pienamente risolutivi, non pare chiarire pienamente nemmeno le istanze suicide del ragazzo. La lite con l’amata madre prima del gesto estremo pare essere la proverbiale ultima goccia, piuttosto che la motivazione principale.
In questo caso, lo sfoggio di abilità analitica dello studioso pone anche il rischio che un lettore alle prime armi con Michelstaedter possa equivocare il senso della sua produzione. Personalmente, non mi pare di vedere delle forti tendenze edipiche all’interno della Persuasione o del Dialogo, almeno non tali da condizionarne il pensiero espresso. Semmai è il pensiero espresso in queste opere ad aver influenzato la vita del giovane, in un dissidio, come ammette lo stesso Campailla, tra l’ideale e la realtà vissuta. Se così stanno le cose, possono esserci i margini per mettere sul piatto una piccola provocazione, sviluppabile in altra sede: è davvero un luogo comune da accantonare totalmente quello del «suicidio metafisico»?
Al netto dei difetti riportati, però, il libro di Campailla resta complessivamente un prezioso documento. Molto interessanti sono, ad esempio, le analisi sui disegni di Michelstaedter e sull’evoluzione del suo stile figurativo: la critica puntuale e meticolosa dello studioso permette di relazionare tale produzione visiva a quella scrittoria, nonché di captare le mutazioni interne all’animo dell’artista. Il merito principale di Un’eterna giovinezza, infine, è quello di arricchire e rinverdire l’interesse critico per un personaggio che la società letteraria italiana non può e non deve dimenticare. Di questo non si può che essere soddisfatti.