Redattore

Nicolò Bindi (1991) si è laureato in Filologia Moderna all’Università degli studi di Pisa, discutendo una tesi su “Teoria e pratica del futurismo. Palazzeschi, Marinetti, Soffici”. Interessato principalmente agli aspetti stilistici, metrici e linguistici, sta concentrando le sue ricerche letterarie soprattutto sugli autori delle avanguardie storiche e del modernismo italiano ed europeo. Collabora con diverse associazioni culturali. È docente presso l'Istituto "Francesco Datini" di Prato.

L’amore come colpa:

Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono

di quei sospiri ond’io nudriva ‘l core

in sul mio primo giovenile errore

quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono:

del vario stile in ch’io piango e ragiono,

fra le vane speranze e ‘l van dolore,

ove sia chi per prova intenda amore,

spero trovar pietà, nonché perdono.

Ma ben veggio or sì come al popol tutto

favola fui gran tempo, onde sovente

di me medesmo meco mi vergogno;

e del mio vaneggiar vergogna è ‘l frutto,

e ‘l pentersi, e ‘l conoscer chiaramente

che quanto piace al mondo è breve sogno.

È il sonetto incipitario del Canzoniere, composto da Francesco Petrarca, presumibilmente in un periodo tra il 1347 e il 1350. Secondo la critica, l’ideazione di questa lirica è estremamente rilevante nella produzione petrarchesca poiché segna la decisione del poeta di organizzare in un’opera unitaria e coerente quei rerum vulgarium fragmenta da lui scritti fino a quel momento.

Ci troviamo di fronte a una introduzione atipica, in cui il poeta non si limita a rivelare l’argomento dell’opera, ma addirittura ne anticipa le conclusioni, proponendo al lettore già un bilancio complessivo dell’esperienza vissuta e contenuta nel Canzoniere. Cosa gli permette di poter compiere questo tipo di operazione? Solamente la distanza cronologica, che ha fatto superare al protagonista l’amore per Laura e gli rende possibile osservare la vicenda con occhio sereno e oggettivo; dunque, anche giudicante nei confronti delle sue stesse azioni.

Questi elementi si trovano tutti già nella prima quartina: l’autore si rivolge direttamente ai lettori, quelli avvezzi ad ascoltare i suoi componimenti, quelli in cui parlava loro della sofferenza scaturita da quel suo «giovenile errore», ossia il suo amore giovanile, avvenuto in un periodo – il poeta lo vuole ribadire – in cui era ancora ingenuo, non ancora completamente cosciente e assennato.

In virtù di questo chiarimento, nella seconda quartina viene chiesto, sempre ai lettori, di avere comprensione, pietà, e di perdonare quel giovane innamorato per le vane speranze e il vano dolore da lui provati. Nel chiedere questo, si appella pure all’esperienza di chi legge, che forse come lui è caduto in questo male. Ora, l’atteggiamento mostrato sin qui non può che apparire singolare: nella prima quartina, il poeta si fa in quattro per convincere il lettore che l’innamoramento è cosa passata, frutto di un errore giovanile ben compreso e corretto; nella seconda quartina, si rivolge ai lettori come se fosse una sorta di tribunale popolare, facendo appello a tutta la loro comprensione, spolverando pure la più disperata delle difese, ovvero l’empatia. Risulta chiaro, dunque, che l’amore provato nei confronti di Laura è avvertito come una colpa grave e inammissibile, un peccato che solo dopo lunga meditazione e con grande difficoltà si riesce a confessare. Ma quale sarebbe la natura della colpa avvertita? Cosa tormenta l’animo del protagonista? Per arrivare a una risposta completa, è bene continuare nell’analisi.

Nella prima terzina, il poeta afferma di essersi reso conto, dopo lungo tempo, di essere stato lungamente irriso per il suo innamoramento, e di questo si vergogna molto di sé; nella seconda terzina afferma che tale vergogna è dovuta, appunto, al suo vaneggiare, e da ciò scaturisce il suo pentimento, e il vedere chiaramente, adesso, che tutto ciò che provoca piacere nel mondo non è che un breve sogno. In tutto questo discorso ricoprono un ruolo importantissimo i concetti di «vaneggiar» e di «breve sogno». Questi due elementi sono direttamente scaturiti dalla «vergogna» provata dal poeta, vero discrimine che separa la nuova coscienza matura dell’autore dalla vecchia incoscienza giovanile. Essa scaturisce dall’arrivo a una comprensione profonda di un concetto fondamentale, ovvero che il vero piacere, la vera beatitudine, per l’uomo, non scaturisce dall’inseguimento delle gioie e dei trionfi mondani, ma dalla contemplazione dell’Assoluto, ovvero di Dio. La grazia del Signore è eterna, immutabile, e l’abbandonarvisi porta all’unica vera beatitudine, al reale compimento esistenziale. I piaceri mondani, come appunto l’amore, sono invece vani, fugaci: provocano angoscia e pena a colui che cerca disperatamente di farli suoi, e una volta ottenuti, sempre che si riesca a ottenerli, provocano una gioia solo apparente ed effimera, destinata a scomparire celermente. Ecco, dunque, che le speranze e i dolori provocati dall’amore non possono che essere vani, poiché provocati da cosa che dovrebbe essere stimata di poco conto; ecco che il ragionare d’amore diventa un «vaneggiar»; ecco che «quanto piace al mondo è breve sogno». In questo consiste la colpa percepita dal poeta: aver deviato dalla giusta via per inseguire quel vano piacere, per essersi concentrato su quel «breve sogno» che lo ha distratto dalla verità del Divino, per portarlo a perdersi nella falsità mondana.

Ma l’autore, che tanto si spende per dimostrare ai lettori la sua rinnovata e assennata virtù, ha veramente vinto le sirene carnali? È riuscito realmente a trascendere le sue debolezze, così da presentarcele con una obiettività spietata, ma distaccata? Altre opere petrarchesche, come il Secretum, denunziano che no, l’autore non ha veramente acquisito la saggezza del Santo, e che, per quanto sappia quale sia la retta via da seguire, non riesce a contrastare la sua debolezza. Ma concentriamoci sul sonetto proposto: il senso di colpa che traspare è troppo vivido, troppo ingigantito, per essere davvero sintomo di una serena accettazione del «giovenile errore». Soffermarsi troppo sulla distanza cronologica che lo divide dal fatto; ricercare comprensione da una ipotetica platea, immaginata in veste di giudice popolare; ribadire più volte la vanità del suo agire: tutto questo provoca un effetto contrario, a quello esteriormente sbandierato. Lo si nota proprio nei versi finali: invece di ispirare un senso di liberazione, fanno provare uno sconforto quasi inconsolabile, come se la negazione di «quel che piace al mondo» nascondesse una negazione totale del piacere, una condanna all’eterna insoddisfazione. Dove si trova, in questi versi, quella Retta Via che sola provoca gioia e conforto duraturi?

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