Redattore

Nicolò Bindi (1991) si è laureato in Filologia Moderna all’Università degli studi di Pisa, discutendo una tesi su “Teoria e pratica del futurismo. Palazzeschi, Marinetti, Soffici”. Interessato principalmente agli aspetti stilistici, metrici e linguistici, sta concentrando le sue ricerche letterarie soprattutto sugli autori delle avanguardie storiche e del modernismo italiano ed europeo. Collabora con diverse associazioni culturali. È docente presso l'Istituto "Francesco Datini" di Prato.

L’amore inesprimibile:

Non fia da altrui creduta e non fia intesa

la celeste beltà de che io ragiono,

poiché io, che tutto in lei posto mi sono,

sì poca parte ancor m’hagio compresa.

 

Ma la mia mente che è di voglia accesa

mi fa sentir nel cor sì dolce sono

che il cominciato stil non abbandono,

benché sia disequale a tanta empresa.

 

Così comincio, ma nel cominciare

al cor se agira un timoroso gielo

che l’amoroso ardir da me diparte.

 

Chi fia che tal beltà venga a ritrare?

on qual inzegno scenderà dal cielo

che la descriva degnamente in carte?

Il sonetto di Matteo Maria Boiardo è il secondo componimento del primo libro degli Amorum libri tres, una delle opere più importanti del poeta estense e più significative del Quattrocento italiano. Si tratta di un canzoniere ideato e composto tra il 1469 e il 1476, ispirato all’amore che il poeta provava per Antonia Caprara, misteriosa dama conosciuta da Boiardo all’interno della corte estense. Le liriche al suo interno non hanno una datazione precisa, si può però teorizzare che il sonetto qui presentato sia tra i componimenti più tardi, poiché le suggestioni della poesia moderna (tra tutti, Cavalcanti e Dante) hanno la meglio sugli artifici metrici e le citazioni latine, presenti invece nei componimenti della prima fase, più vicina alla formazione pienamente umanistica da lui ricevuta in gioventù.

La temperie medievale del testo si avverte sin dai primi versi, poiché il componimento si apre con una dichiarazione desueta, per un colto studioso umanista: il poeta, infatti, afferma che pochi, tra i lettori, riusciranno a intendere o a credere alla bellezza celeste che lui tenterà di presentare, poiché lui stesso, che ci si è concentrato interamente, non è riuscito a comprenderla e coglierla nella sua interezza. Il richiamo abbastanza evidente è al Dante paradisiaco, che più volte ribadisce la difficoltà e l’impossibilità di poter riportare in maniera completa e convincente quanto da lui osservato e sentito nel suo viaggio nel regno dei Cieli. A ribadire questo legame, il senso angelico che l’aggettivo “celeste” conferisce alla bellezza della donna amata.

Il poeta, dunque, mette subito in chiaro un suo evidente limite, che potrebbe far pensare a una dichiarazione di resa: nonostante tutti i suoi sforzi, non è riuscito a comprendere pienamente quella «beltà celeste», e quindi non ha gli strumenti per farla comprendere ai suoi lettori. A che pro, dunque, continuare nella stesura dell’opera? Perché offrire comunque la propria penna a questa impresa impossibile? La seconda quartina spiega che non vi è dietro una vera e propria decisione, o una volontà impositiva, nel fatto di continuare comunque a scrivere: la visione di tale bellezza, per quanto si trovi oltre il confine dell’esprimibile, ha inondato il cuore del poeta di un «dolce sono» che stimola la mente e la invoglia a continuare quest’opera, malgrado la sua complessità.

Così, il poeta tira avanti nel suo proposito, ma, nel cominciare, l’ardore che lo sta animando si raggela per un timore enorme, che fa fuggire amore dai suoi versi: il timore, appunto, che le espressioni da lui scelte non siano adeguate, che il risultato finale non renda veramente giustizia all’argomento scelto, che le parole risultino inadeguate al cimento. Forse, è proprio il linguaggio umano ad essere fallace; forse, ogni sforzo di restituire a terzi quella «celeste beltà» goduta risulterà vano. Proprio per questo, il sonetto si conclude con delle domande amare: nascerà mai qualcuno capace di ritrarre una bellezza simile? E se le parole terrene sono impossibilitate a portare a termine il compito, potremo mai vedere qualche ingegno divino superare la soglia dell’inesprimibile, e donarci quella visione con una semplice poesia?

Risulta parzialmente erroneo, a questo punto, affermare che il tema di questo sonetto sia la bellezza della donna amata. Piuttosto, il testo è incentrato sulla difficoltà di esprimersi. In particolar modo, Boiardo sembra ricreare perfettamente quella sensazione di inadeguatezza avvertita di fronte all’amata, quando, nel momento di dover comunicare i propri sentimenti o ciò che ci ispira, ogni parola e ogni frase sembrano banali e inconsistenti. Quella volontà di dire la cosa giusta, risolutiva, assoluta, che comunichi perfettamente all’interlocutore ciò che proviamo, è fiaccata dalla presa di coscienza che un’espressione così perfetta non esiste, o almeno non fa parte delle nostre abilità linguistiche, l’enunciarla. Il silenzio, allora, sarebbe la strada da percorrere? In questo caso specifico no, poiché il silenzio non farebbe che evidenziare il totale fallimento dell’atto comunicativo. Se il poeta neanche tentasse di superare il suo imbarazzo espressivo, lo straordinario spettacolo a cui ha assistito finirebbe per giacere inesplorato dentro di sé, senza speranza alcuna di lasciare traccia in questo mondo. È il motivo che spinge ad affrontare una sfida così ardua: perché possa rimanere, in questa vita e nelle future, almeno una pallida traccia di quella bellezza celeste che si manifesta in chi si ama.

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