Redattore

Nicolò Bindi (1991) si è laureato in Filologia Moderna all’Università degli studi di Pisa, discutendo una tesi su “Teoria e pratica del futurismo. Palazzeschi, Marinetti, Soffici”. Interessato principalmente agli aspetti stilistici, metrici e linguistici, sta concentrando le sue ricerche letterarie soprattutto sugli autori delle avanguardie storiche e del modernismo italiano ed europeo. Collabora con diverse associazioni culturali. È docente presso l'Istituto "Francesco Datini" di Prato.

L’amore come isolamento:

Tu m’hai sì piena di dolor la mente,

che l’anima si briga di partire,

e li sospir che manda ‘l cor dolente

mostrano agli occhi che non può soffrire.

Amor, che lo tuo grande valor sente,

dice: «È mi duol che ti convien morire

per questa fiera donna, che nïente

par che piatate di te voglia udire».

I’ vo come colui ch’è fuor di vita,

che pare, a chi lo sguarda, ch’omo sia

fatto di rame o di pietra o di legno,

che si conduca sol per maestria

e porti ne lo core una ferita

che sia, com’egli è morto, aperto segno.

Come per ogni poesia di Cavalcanti, anche di questo sonetto manca una data certa di composizione. Nel caso specifico, è pure difficile fare delle ipotesi, dato che la produzione del poeta è estremamente unitaria, e soprattutto si presenta quasi tutta come già matura, sia nello stile che nel modo in cui i temi sono affrontati. Stando così le cose, risulta assai complesso ipotizzare una cronologia sulla base di un processo di formazione poetica. Si rimanga, dunque, nel mistero della datazione.

Tu m’hai sì piena di dolor la mente è uno dei componimenti più emblematici del poeta fiorentino, poiché riesce a mostrare al lettore, con la chiarezza e l’eleganza che contraddistinguono il suo stile, gli effetti che Amore ha sull’uomo. Per quanto il lessico utilizzato sia chiaro e preciso, il poeta riesce a non risultare algido o meccanico nell’esposizione, tanto che Francesco de Sanctis affermava: «Guido [Cavalcanti] è il primo poeta degno di questo nome, perché è il primo che abbia il senso e l’affetto reale». Cerchiamo di mostrare meglio a cosa ci stiamo riferendo.

Come si nota dalla prima quartina, la sofferenza che amore provoca non ha connotazioni astratte, anzi, ha esiti estremamente fisici: la mente si riempie talmente tanto di dolore, che l’anima si affretta ad abbandonare il corpo; il cuore dolorante manda sospiri, e pure a occhio nudo si vede che non può più sopportare un simile male.

La vista della donna amata ha dunque provocato effetti tutt’altro che positivi nel poeta, che si ritrova tormentato e ormai senz’anima, in uno stato di sofferenza visibile anche a occhio nudo. Lo stesso Amore, causa principale di questo stato penoso, si fa personaggio, e nel vedere il poeta prova dolore, mosso dall’eccessivo potere che la donna pare esercitare su di lui. Dice al poeta che è dispiaciuto che egli sia destinato a morire per quella donna, così feroce da non provare alcun tipo di pietà per lui. Ecco che il sentimento amoroso pare agire sull’organismo né più né meno che un potente veleno, che provoca la morte solo dopo aver inferto al malcapitato atroci sofferenze. Il ritratto offerto fin qui da Cavalcanti già risulta spiazzante, se paragonato alla nostra attuale concezione dell’amore. Non ci troviamo, infatti, di fronte a un sentimento capace di infondere pace e comprensione del prossimo. Tutt’altro: espressione della ferocia della donna amata, tormenta il cuore e la mente di chi ne viene afflitto, rendendogli impossibile ogni tipo di pensiero razionale e arrivando pure a disarticolarne il corpo, non più avvertito nella sua unità, ma come una serie di organi autonomi. Nessun tipo di empatia o solidarietà viene attivato, anzi: la donna non riesce a sentire pietà per lui; e per quanto l’umanizzato Amore provi pietà, non può fare assolutamente niente, se non continuare a distruggere intimamente la sua vittima.

Nel continuo della lirica, il poeta fornisce un’immagine tanto inquietante quanto esplicativa, dell’effetto che amore ha su di lui: ormai è «fuor di vita», e soltanto esteriormente mantiene le sue fattezze di uomo, esattamente come fosse un fantoccio «fatto di rame o di pietra o di legno». Solo per una qualche sua abilità riesce ancora a muoversi per strada, sembrando, così, agli occhi degli altri, ancora normale, per quanto la ferita che porta nel cuore denunzi evidentemente la sua morte e le sue cause.

Ora, la morte di cui si parla è sì fisica, ma interiore. L’anima dell’uomo fugge dal suo corpo, spaventata dalla forza con cui Amore ha aggredito il protagonista. I due organi vitali per eccellenza sono stati colpiti a tal punto da non avere speranza alcuna di riprendersi. Cosa resta, se non un’immagine, un fantoccio? Per quanto l’uomo sia effettivamente morto, ovvero privo di qualsiasi facoltà razionale e mentale, riesce involontariamente ad apparire ancora vivo, agli occhi degli esterni, proprio in virtù di quel “guscio” vuoto antropomorfo che miracolosamente è ancora in grado di muovere, come fosse poco più di un burattino. In questo modo si aggrava pure l’assenza totale di solidarietà: l’impossibilità degli esterni di vedere oltre quel fantoccio inanimato, si somma alla mancanza di pietà della donna e all’impossibilità di Amore di smettere la sua opera di smembramento. Più che agire come collante sociale ed emotivo, l’amore dipinto da Cavalcanti sembra invece spingere l’uomo verso l’isolamento.

Cavalcanti intende l’amore come un qualcosa di puramente fisico – un «accidente» lo chiamerà nella famosa canzone Donna me prega – per questo colpisce l’uomo nelle modalità sopra presentate, entrando in rapporto talmente conflittuale con l’anima, da farla fuggire via alla sua sola presenza. Per il poeta, non è possibile un esito diverso dalla morte, dalla disarticolazione interna dell’uomo, dalla sofferenza, poiché l’amore agisce in modo tale da impedire nel malcapitato ogni tipo di pensiero razionale; dunque, ogni possibilità di comprensione di ciò che gli sta capitando è inevitabilmente compromessa. Ciò rende impossibile reagire o commisurare in qualche modo la forza distruttiva del sentimento. Questo crudele destino è suggerito da una delle parole chiave della poesia cavalcantiana, presente in questa lirica e molto frequente nel resto della produzione: «convien», ovvero “è necessario, si deve”, che denuncia appunto l’impossibilità che le cose abbiano esito diverso da quello presentato.

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