Redattore

Nicolò Bindi (1991) si è laureato in Filologia Moderna all’Università degli studi di Pisa, discutendo una tesi su “Teoria e pratica del futurismo. Palazzeschi, Marinetti, Soffici”. Interessato principalmente agli aspetti stilistici, metrici e linguistici, sta concentrando le sue ricerche letterarie soprattutto sugli autori delle avanguardie storiche e del modernismo italiano ed europeo. Collabora con diverse associazioni culturali. È docente presso l'Istituto "Francesco Datini" di Prato.

Mensagem è l’unico libro che Fernando Pessoa sia riuscito a pubblicare nel corso della sua vita. Vide la luce nel 1934, un anno prima della sua morte. In verità, Pessoa non avrebbe mai voluto cominciare il giro delle sue pubblicazioni da questo esile volume; a convincerlo a “cristallizzare” la sua raccolta una volta per tutte, furono due considerazioni: la prima strettamente pratica, la seconda più idealista. Per cominciare, Pessoa avvertì che la raccolta, dopo un lunghissimo lavoro di costruzione, era ormai arrivata alla forma conclusiva, perciò si decise, pur a malincuore, a dare il libro alle stampe. In secondo luogo, il poeta sentì il dovere di intervenire, a modo suo, sulla difficile situazione sociale del Portogallo, frutto anche di un’instabilità politica che si era conclusa solo l’anno prima, nel 1933, con l’affermazione dell’“Estado novo”.

Mensagem canta lo spirito profondo del Portogallo, lo celebra e prova a porre le basi culturali per un suo rinnovamento; tutto questo in quarantaquattro brevi liriche che, nonostante i difficili significati metaforici ed esoterici che contengono, hanno una leggerezza e un’ariosità che le rendono fruibili anche a un pubblico non specializzato. Il lavoro, insomma, di un Vate che vuole guidare il popolo tramite i suoi versi. È proprio con questo intento che il poeta si decide definitivamente a dare alle stampe il volumetto. Egli scrive ad Adolfo Casais Monteiro:

Sono d’accordo con lei […] di non aver dato una felice prova di me con la pubblicazione di Messaggio. Ma sono anche convinto che sia stata la migliore scelta possibile. Proprio perché questo lato – in certo senso secondario – della mia personalità non era stato sufficientemente messo in luce nelle mie collaborazioni a riviste (eccetto nel caso di Mare Portoghese, che fa parte di questo stesso libro); era dunque giusto che lo manifestassi, e lo facessi ora. Ciò ha coinciso, senza che lo pianificassi o lo premeditassi […], con uno dei momenti critici, nel senso originario del termine, del rimodellamento del subconscio nazionale. Quel che ho fatto per caso si è completato per convinzione, è stato esattamente tracciato, con squadra e compasso, dal Grande Architetto.

Mensagem, dunque, sembra completarsi proprio nel momento giusto, come fosse parte di un disegno provvidenziale: Pessoa vuole ridestare lo spirito portoghese dal suo torpore, nonché contrastare il nichilismo e la decadenza che invadono i cuori dei suoi compatrioti. Per farlo, non propone odi civiche o canzoni patriottiche dal vago gusto romantico; cerca, piuttosto, di agire più in profondità, andando a toccare le corde sopite di un antico retaggio. Per essere più chiari, si procederà all’esegesi di una delle liriche più significative della raccolta. Data, però, la solida architettura testuale che la tiene assieme, è necessaria una premessa sulla struttura e sui temi che caratterizzano l’opera.

Mensagem è divisa in tre parti: la prima, intitolata Brasão, dedicata al blasone del Portogallo; la seconda, Mar portuguez, in cui Pessoa canta l’età dell’oro e le grandi navigazioni portoghesi e la costituzione dell’impero marittimo; la terza e ultima parte, O Encoberto, dedicata a cinque miti (il ritorno di re Sebastiano, il Quinto Impero, il Desiderato con il Sacro Graal, il Messia visto come il “Velato”) su cui si appoggia la speranza e l’attesa della rinascita dell’impero.

Poniamo più attenzione alla prima parte, quella appunto dedicata al blasone. Pessoa associa a ciascuno dei simboli araldici che lo compongono un sovrano o un personaggio illustre della storia portoghese. Si parte dai sette castelli presenti sullo scudo, associati ai fondatori e agli edificatori della patria. Nonostante queste premesse, che parrebbero preludio a una volontà di storicizzare, Pessoa decide di associare il primo dei sette castelli a Ulisse, designandolo a tutti gli effetti come il fondatore del Portogallo. L’autore si ricollega al mito secondo il quale Ulisse, prima di imbarcarsi nell’oceano Atlantico, si fermò sulle coste iberiche, fondando la città di “Ulissipona”, ovvero l’odierna Lisbona. È da questa discendenza, che deriverebbe il forte legame del popolo portoghese con il mare.

Il testo è il seguente (nella traduzione di Giulia Lanciani):

Il mito è il nulla che è tutto.

Lo stesso sole che apre i cieli

è un mito brillante e muto:

il corpo morto di Dio,

vivente e nudo.

Questi, che qui approdò,

non esistendo esistette.

Senza esistere ci bastò.

Non essendo venuto venne

e ci creò.

Così la leggenda scorre

entrando nella realtà,

e a fecondarla decorre.

In basso, la vita, metà

Di nulla, muore.

Ora, basta una sola lettura per comprendere che il richiamo al fondatore mitico è tutt’altro che ingenuo: non vi è, da parte del poeta, un tentativo di storicizzare l’episodio di Ulisse, così come non vi è una passiva accettazione del fatto dettata da pure suggestioni estetiche. La seconda strofa, infatti, attacca con un interessante paradosso: «Questi, che qui approdò, / non esistendo esistette», e chiude altrettanto significativamente con «Non essendo venuto venne / e ci creò». E chi sarebbe, dunque, questo Ulisse? Un essere che esiste e non esiste, ma che pure «Senza esistere ci bastò»; un qualcosa di vago, talmente indefinito che Pessoa stesso lo nomina solamente nel titolo. Ciò che si può dire con certezza, però, è che l’autore lo consideri un personaggio astratto. Ma allora, perché metterlo come apri-fila di una serie di personaggi storicamente esistiti? Svelandone pure apertamente la finzione, per giunta.

La risposta al quesito è piuttosto semplice: Pessoa, quando parla di Ulisse in qualità di capostipite, vuole assicurarsi che il pubblico lo contempli non come personaggio fisico, ma come figura incorporea, non esistente. Insomma, deve essere un simbolo, non un eroe. Questo è un processo necessario affinché tutti i suoi illustri successori possano effettivamente rispecchiarsi in lui, facendoli tutti partecipi di un unico, grande spirito. Ulisse, dunque, è una presenza “destoricizzante”, il cui scopo è strappare i regnanti portoghesi dalla meschina contingenza e proiettarli dentro l’eroico mondo del mito.

Così facendo, Pessoa cerca di riattivare una concezione della vita propria delle società arcaiche. Egli, di fatto, riconosce due piani distinti: quello del mondo visibile e quello del mondo immaginifico. Ora, è ormai abitudine consolidata contrapporre questi due mondi, considerando il primo reale e il secondo irreale. Per quanto tale concezione sia discutibile pure oggi (si pensi a quanto aspirazioni e desideri, frutto della nostra immaginazione, incidano sulla nostra esistenza), in antichità questi due piani erano considerati parimenti reali, per quanto la dimensione immaginifica non obbedisse alle stringenti leggi del mondo fisico. Da qui l’importanza del mito: mondo eterno, incorruttibile e perfetto. L’uomo poteva entrare in contatto, saltuariamente, con il piano del mito tramite visioni e sogni. Coloro che imparavano ad addomesticare e regolare questi due “strumenti” comunicativi e a farne uso, diventavano sciamani e sacerdoti. L’esperienza onirica assicurava un contatto diretto con gli dèi, e in certi casi anche la possibilità di utilizzarne i poteri. Ogni azione compiuta nel mondo fisico, poi, aveva corrispondenza in quello mitico: tra questi si creava un forte legame, che aveva come effetto quello di caricare di significato e di sacralità l’azione svolta. Per questo, l’umanità, quando era maggiormente in contatto con il mondo mitico, riconosceva senza sforzo i simboli che la circondavano, ed era più propensa a farsi guidare da questi nel compimento del proprio destino.

Dunque, Pessoa apre la lirica con un paradosso solo apparente: «Il mito è il nulla che è tutto». Infatti, il mito cos’è, se non una dimensione immaginifica senza alcuna consistenza fisica, ma che riesce a investire tutto di significato? Il sole stesso, preso solo nella sua dimensione contingente, non è che uno dei tanti astri che popolano l’universo. Questo, però, è un errore di prospettiva dato dal non riuscire più a concepire il mito come reale: ciò non ci permette di riconoscervi il Dio che sconfigge la morte.

È necessario, dunque, che il mito ritorni a fluire dentro la realtà, affinché quest’ultima non inaridisca completamente. La vita fisica, infatti, che è «metà di nulla» è destinata alla morte e a lasciar poche, ridicole tracce. È su questo punto, infine, che Pessoa vuole agire, per rendere possibile un riscatto del Portogallo: far rinascere il suo mondo mitico ed eroico, farle guidare tutta l’Europa nella riconquista della sua dimensione simbolica, farle fondare un nuovo impero non più fisico, bensì spirituale, che possa salvare il mondo dalle derive della carne.

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