Redattore

Nicolò Bindi (1991) si è laureato in Filologia Moderna all’Università degli studi di Pisa, discutendo una tesi su “Teoria e pratica del futurismo. Palazzeschi, Marinetti, Soffici”. Interessato principalmente agli aspetti stilistici, metrici e linguistici, sta concentrando le sue ricerche letterarie soprattutto sugli autori delle avanguardie storiche e del modernismo italiano ed europeo. Collabora con diverse associazioni culturali. È docente presso l'Istituto "Francesco Datini" di Prato.

L’amore come via per il Cielo:

Nous aurons des lits pleins d’odeurs légères,

Des divans profonds comme des tombeaux,

Et d’étranges fleurs sur des étagères,

Écloses pour nous sous des cieux plus beaux.

Usant à l’envi leurs chaleurs dernières,

Nos deux cœurs seront deux vastes flambeaux,

Qui réfléchiront leurs doubles lumières

Dans nos deux esprits, ces miroirs jumeaux.

Un soir fait de rose et de bleu mystique,

Nous échangerons un éclair unique,

Comme un long sanglot, tout chargé d’adieux ;

Et plus tard un Ange, entr’ouvrant les portes,

Viendra ranimer, fidèle et joyeux,

Les miroirs ternis et les flammes mortes[1].

Il sonetto, intitolato La mort des amants, viene pubblicato per la prima volta il 9 aprile del 1851 in «Le Messager de l’Assemblée». Compare nei Fleurs du mal sin dalla prima edizione, e nella definitiva occupa la posizione CXXI, come apertura dell’ultima sezione della silloge: La mort.

Il legame tra Eros e Thanatos è uno dei temi più trattati, all’interno dei Fleurs du mal. In questo componimento, però, si trova ad avere uno sviluppo e un esito leggermente diverso, rispetto alle precedenti liriche. Si proceda, dunque, all’analisi del testo.

Il componimento si apre con una presentazione vaga di un interno: il “nido” d’amore degli amanti del titolo. La prima quartina si apre in maniera decisa, con il pronome “nous” che indica, qui e in tutto il resto del testo, il legame inscindibile che unisce i protagonisti, e un uso del futuro da una sfumatura quasi imperativa, per quanto non violenta. Questo impeto iniziale, però, viene sfumato quasi subito, dal sinuoso e vago farsi spazio degli «odeurs légères» che si innalzano dai letti, futuri luoghi di voluttà degli amanti. Il trasporto del dato olfattivo dona levità e ariosità alla scena, che va a contrastare con il verso successivo, dove viene evocata, invece, la claustrofobica clausura della tomba, paragonata alla profonda mollezza dei divani. Di nuovo, nei due versi successivi, si viene a formare uno scenario contrastante, nell’immaginazione del lettore: gli strani fiori, forse esotici, che adornano le mensole sono sbocciati sotto i più bei cieli. Si evoca l’aria aperta, la bellezza misteriosa e mistica del cielo, e non può certo esistere contraltare più estremo agli oscuri e fetidi sepolcri. Oltre al contrasto con l’interno di funerei divani, l’immagine evocata da questi due versi colpisce anche per l’accostamento dei fiori, simbolo chiaro di bellezza e caducità, con il cielo, da sempre richiamo all’Eterno e all’immutabile. Per quanto lontani e diversi, viene creato un legame tra questi due elementi – una “corrispondenza”, direbbe il poeta – su cui, però, torneremo successivamente.

Nella seconda quartina, l’attenzione si sposta dall’alcova degli amanti agli amanti stessi, i cui fuochi delle passioni si incontrano. Questa corrispondenza viene evidenziata dal ripetersi del numero due, per designare i cuori, le fiaccole, le anime. Queste ultime diventano specchio della fiamma dell’altro, creando una comunanza di spirito che fa diventare gli amanti dei gemelli, legati fino allo spegnersi delle fiamme da uno stesso sentire. Il gioco delle ultime scintille con cui si apre la quartina mette subito in chiaro, però, la fugacità di quell’unione, il destino di cenere che attende ogni gran fuoco. Così, una serata quieta, rosea, pacifica, fa da scenario inaspettato al singhiozzante ultimo “lampo” dei due amanti, carico di dolorosi addii. Questo ciò che accade nella prima terzina, in cui si concretizzano i funerei indizi e le inquietudini accennate, in modo apparentemente fugace, nelle precedenti strofe. Ecco che il rapporto amore-morte pare delinearsi, come consuetudine, nel rapido bruciarsi di un rapporto troppo intenso e carnale, che una volta concluso lascia solo cenere.

Nell’ultima terzina, però accade qualcosa di inaspettato, un evento che sembra lasciare un insperato spiraglio di riscatto: un Angelo entra nel nostro mondo dalle Porte dell’Eternità, che lascia – volutamente o distrattamente? – socchiuse, e ravviva le ceneri per rianimare la fiamma, pulisce quegli specchi offuscati dal fumo dell’amoroso rogo. Il poeta non si lascia, qui, sopraffare dalla distruzione, e dona a quella passione amorosa consumata una flebile speranza, un ausilio per potersi rianimare e una sorta di viatico per l’eterna beatitudine. Quel piacere fugace ed effimero può diventare, a sorpresa, un mezzo di ascensione: non tutto si salverà dalle fiamme, ma qualcosa potrà rimanere. Quello che riesce a sopravvivere è il legame tra il cielo e la terra. Ecco che gli strani fiori della prima quartina, apertisi sotto i più bei cieli, in un certo senso nutriti da essi, diventano il simbolo più calzante di questi amanti: nel loro magnifico e rapido sfiorire si nasconde il segreto dell’Eternità.

NOTE

[1] Proponiamo qui la traduzione di Gesualdo Bufalino: «Avremo letti intrisi di sentori / tenui, divani oscuri come avelli, / sulle mensole nuovi e strani fiori, / nati per noi sotto cieli più belli. // Consumandosi a gara, i nostri cuori / come due grandi torce due ruscelli / verseranno di vampe e di fulgori / nei nostri spiriti, specchi gemelli. // Una sera di rosa e azzurro mistico, / un lampo solo ci vedrà commisti, / lungo singhiozzo carico d’addio. // Un Angelo, schiudendo indi le porte, / a ravvivar verrà, gaudioso e pio, / gli specchi opachi e le due fiamme morte.»

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