Stefano Baruzzo (1960), laureato in Scienze Politiche al «Cesare Alfieri» di Firenze, si interessa di storia del periodo fascista e dell’Italia repubblicana. Sul fascismo apuano ha pubblicato Al gancio del Negroni. «Il Popolo Apuano» di Stanis Ruinas. Fascismo rivoluzionario e Regime nella provincia del marmo (Solfanelli 2016) e Fascismi di provincia. Pontremoli e l’Alta Lunigiana 1919-1925 (Youcanprint 2019). Ha pubblicato saggi, articoli e recensioni su riviste di studi storici («Rassegna Storica Toscana», «Nuova Antologia», «Diacronie») e sulla rivista on line del Centro Studi Geopolitica.info.
Recensione a: F. Perfetti, Per una storia senza pregiudizi. Il realismo storico di Renzo De Felice, Aragno, Torino 2025, pp. XXII-461, € 30,00.
La storiografia italiana del secondo dopoguerra ha registrato due rivoluzioni. La prima, ad opera di Rosario Romeo, sul Risorgimento, confutava con una rilettura documentata da dati empirici l’interpretazione gramsciana del Risorgimento come rivoluzione borghese nazionale fallita per la mancanza di una rivoluzione agraria. La seconda, ad opera di Renzo De Felice, traeva lo studio del fascismo dall’età della memorialistica e della saggistica perlopiù militante e lo portava, liberato da ipoteche ideologiche, nell’età adulta della storiografia con la ricostruzione documentata dei fatti storici. Le due rivoluzioni storiografiche, ad opera di due studiosi che si erano formati alla stessa scuola dell’Istituto italiano per gli studi storici fondato da Benedetto Croce e diretto da Federico Chabod, si consolideranno negli anni successivi, attraverso polemiche e critiche spesso prive di dignità scientifica.
Francesco Perfetti dedica il suo ultimo libro a uno dei due protagonisti di queste rivoluzioni, Renzo De Felice, del quale ripercorre il percorso formativo, di studio e di ricerca, oltre all’impegno civile, attraverso una rassegna esegetica delle sue opere.
De Felice trasse dai maestri da egli stesso riconosciuti criteri e sensibilità che hanno accompagnato il suo intero percorso. Da Chabod recepì l’attenzione alle questioni metodologiche, ma soprattutto «una storiografia che non penalizzasse il ruolo dell’uomo, individuo o moltitudine, a favore di ideologie, strutture, concetti astratti e che, al tempo stesso, fosse in grado di cogliere il senso della particolarità o della individualità del fatto storico» (pp. 11-12). Perfetti rileva come De Felice avesse individuato in Chabod l’insegnamento del «realismo storico» di Gioacchino Volpe, nel quale l’azione politica si inseriva nel contesto delle concrete e svariate realtà operanti nella società in un rapporto dialettico e non gerarchico che escludeva fattori prioritari, monocausali o deterministici.
Da Delio Cantimori, maestro eterodosso della storiografia marxista del dopoguerra, De Felice recepì la conferma dell’avversione a moralismi storiografici, la sensibilità verso il fattore culturale della storia, in senso antropologico, cioè la mentalità, gli stati d’animo, la psicologia collettiva di un periodo, oltre all’invito metodologico di non accontentarsi di studiare un fenomeno storico en bloc, ma di scomporlo nelle sue particolarità.
Da don Giuseppe De Luca, storico della pietà e della spiritualità, De Felice ricavò l’impegno archivistico e filologico nella ricerca, la cura dell’analisi del documento. Ma tornava dal De Luca rafforzata la sensibilità per i fattori spirituali e religiosi, che si ripresentano nella storia in forme secolarizzate rilevate da De Felice nei suoi lavori sul giacobinismo e sul fascismo.
La sensibilità per il ruolo della cultura, in senso antropologico, conferma l’opinione dell’autore che il rapporto con il marxismo di De Felice, all’inizio dei Cinquanta giovane militante del Pci, non fosse profondo, data l’importanza dei fattori “sovrastrutturali” nella sua storiografia. Peraltro, il distacco dal Pci, precipitato dai fatti di Ungheria dell’autunno del 1956, fu accompagnato dalla maturazione di una posizione critica verso la filosofia della storia marxista.
Le influenze dei primi maestri rimasero costanti nella storiografia di De Felice, di tipo etico-politico, che privilegiava la storia politica, in continuità con la visione idealistica crociana, ma “ammodernata” dal realismo storico di Volpe, assimilato attraverso l’insegnamento di Chabod. Ai maestri si aggiungeranno negli anni, durante le ricerche sul fascismo, altri autori come riferimento e stimolo per approfondimenti su temi fecondi, da George Mosse, per i processi di nazionalizzazione delle masse, a Gino Germani, per i concetti di mobilitazione sociale primaria e secondaria, a Augusto Del Noce, per la lettura filosofica della storia, a Romeo, per le riflessioni sull’idea di “nazione” e la sua crisi, per citare alcuni tra i vari ricordati da Perfetti.
De Felice fu infatti studioso aperto alle acquisizioni storiografiche generate da approcci differenti, anche ai risultati di altre discipline come le scienze sociali, verso le quali il suo storicismo lo rendeva diffidente per la loro tendenza alla modellizzazione che rischiava di sbiadire la connotazione dei fenomeni storici. De Felice rimase sempre prudente sulla possibilità di elaborare una tipologia generale del “fenomeno fascista” che potesse accomunare vari regimi e movimenti, trattenuto dalla consapevolezza dell’individualità dei fatti storici. Per lui il fascismo non poteva essere dilatato oltre il periodo tra le due guerre e oltre l’ambito europeo, poiché nella sua nascita e affermazione era ineludibile il ruolo della crisi politica, sociale e morale determinata in Europa dal trauma della Grande Guerra. Non credeva al fascismo eterno o universale e a suoi ritorni storici.
L’apertura ad altri apporti, unita all’amore per i classici della storiografia, alimentava l’interesse per la storia della storiografia, che condusse De Felice, negli studi sul fascismo, a raccolte antologiche e a rassegne a tutt’oggi tra le più complete (si pensi a Le interpretazioni del fascismo, 1969, successivamente ampliata). Nella consapevolezza che nessuna interpretazione può esaurire da sola la conoscenza di un fenomeno storico, il confronto dialettico tra le varie interpretazioni e tra di esse e lo studioso è un caposaldo del metodo storiografico defeliciano, assieme al rigore documentaristico e filologico.
Perfetti inizia la sua rassegna dai primi lavori di De Felice, quelli sul giacobinismo italiano, nei quali risaltava l’attenzione ai fattori culturali. De Felice sottolineò l’importanza del “fatto mistico” nella mentalità rivoluzionaria, frutto del misticismo, non solo religioso, diffuso nella cultura settecentesca, un fattore storico che troverà espressione nell’ambizione rivoluzionaria giacobina: «L’essenza vera del giacobinismo era rintracciabile in una nuova sensibilità, al tempo stesso rivoluzionaria e catartica» (p. 51). La fede nelle capacità rigeneratrici della rivoluzione fondava le attese escatologiche fino alla costruzione di un “uomo nuovo”.
Perfetti rintraccia già in questi primi lavori caratteri che resteranno nelle opere successive. In primo luogo, il metodo filologico che accompagnava una ricerca documentaria di fonti non sempre scandagliate adeguatamente dalla storiografia, come fogli, periodici e opuscoli. Inoltre, la scomposizione del fenomeno, qui il giacobinismo, in componenti interne alla ricerca di sue dimensioni oltre quella politico-sociale, privilegiata dalla dominante storiografia marxista della Rivoluzione francese. Infine, la pregnanza di argomenti che verranno ripresi anche nelle opere successive. Tra essi, la proposta di un significato di rivoluzione non solo politico e sociale, ma anche morale, cioè antropologico, che ritroveremo nelle pulsioni “rivoluzionarie” della “nuova civiltà” e dell’“uomo nuovo” a sostegno del tentativo totalitario avviato senza successo dal regime fascista nella seconda metà degli anni Trenta.
L’opus magnum di De Felice sono gli studi sul fascismo, culminati nella monumentale biografia di Mussolini. Preceduta dalla Storia degli ebrei sotto il fascismo (1961), che rappresenta il passaggio dallo studio del Settecento rivoluzionario a quello del fascismo, la biografia è un’opera «a ventaglio»: man mano che procede non può limitarsi al personaggio Mussolini ma si allarga alla comprensione di un’intera epoca della storia italiana, tanto il personaggio si confonde con il fenomeno storico del fascismo, senza tuttavia esaurirlo. Ad essa si aggiungeranno agili lavori, come l’Intervista sul fascismo (1975) e Rosso e Nero (1995), interviste-sintesi dense di conclusioni già esposte nei tomi della biografia di Mussolini, arricchite da note polemiche verso le vulgate dominanti e fuorvianti di fascismo, antifascismo e Resistenza.
I lavori storiografici sul fascismo raggiunsero una larga diffusione anche oltre gli specialisti, prova di una domanda di storia presso il grande pubblico che non veniva soddisfatta dalle ormai logore vulgate “istituzionalizzate”. I lavori di De Felice furono accompagnati da polemiche aspre, raramente costruttive e capaci di suscitare riflessioni critiche. Tra le rare meritevoli di attenzione quelle uscite dal confronto De Felice-Bobbio, in parte pubblicato a cura di Gian Enrico Rusconi, ricostruito da Perfetti in dettaglio.
Credo sia pleonastico riassumere i risultati della ricerca sul fascismo di De Felice, ormai acquisiti e ampiamente discussi dalla storiografia contemporaneista anche internazionale. Ad essi Perfetti dedica la metà del libro, in un’esposizione lineare, ricca di citazioni, non solo di De Felice. Vale la pena di ricordarne alcuni che danno la misura della rivoluzione storiografica di De Felice: già dal primo volume, che conserva a Mussolini lo status di rivoluzionario anche al momento della fondazione del fascismo; la distinzione tra fascismo-movimento e fascismo-regime, rivoluzionario con risonanze giacobine il primo, conservatore-autoritario il secondo; il ruolo dei ceti medi “emergenti” nella nascita e affermazione del fascismo; il consenso che il regime raggiunse una volta consolidato, tra il 1929 e il 1936, e il suo logoramento nella seconda metà dei Trenta; la diversità tra fascismo e nazismo, non oscurata dalla loro alleanza; le leggi razziali del 1938 motivate dalla spinta totalitaria, peraltro incompiuta, data da Mussolini sullo scorcio dei Trenta per rivitalizzare un regime di cui percepiva la stanchezza, piuttosto che dettate da un’imitazione subordinata al Reich hitleriano; la Resistenza come guerra civile tra due minoranze, in mezzo la zona grigia di una maggioranza in attesa solo della fine della guerra; la “morte della patria” con la disfatta dell’8 settembre 1943, che allunga le sue conseguenze in un dopoguerra che non sembra finire; nel metodo, la sistematica consultazione delle fonti coeve, non solo archivistiche, ma anche della letteratura del tempo, politica e non, per comprendere il clima e la logica interna a personaggi e avvenimenti (attenzione già vista nei suoi studi sul giacobinismo).
Questi risultati confutavano le “verità” di paradigmi storiografici che non avevano affrontato la prova della ricerca storica scientifica: il fascismo pura espressione della reazione di classe borghese; il razzismo componente costituiva del fascismo, accomunato al nazismo; il regime retto dal solo esercizio della coercizione, privo di reale consenso popolare; la Resistenza unitaria guerra di popolo.
Perfetti dedica un ultimo corposo capitolo all’impegno civile di De Felice. Dopo la militanza giovanile nel Pci, De Felice approdò saldamente a posizioni di liberalismo classico, ma rimase estraneo all’impegno politico diretto. Ma non rimase estraneo al dibattito politico. I suoi giudizi non partivano da assunti ideologici o finalità politiche, al contrario partivano da riferimenti storici e dalle acquisizioni dei suoi studi.
Centrale nella riflessione degli ultimi anni rimase il destino dell’Italia come nazione, connessa alla preoccupata constatazione della crisi “funzionale” della democrazia. Con amaro scetticismo non vedeva superata la perdita del senso di appartenenza degli italiani a una comunità, dovuta alla “morte della patria” segnata dalla data dell’8 settembre 1943. Era scettico, benché non chiuso, sul paradigma di un “patriottismo costituzionale” che potesse sostituire quello “nazionale”: una costituzione è pur sempre un prodotto storico i cui valori riflettono storia, cultura, tradizioni comuni di una nazione. Una costituzione presuppone una nazione, che non può essere costruita o ricostruita da astrazioni giuridiche con un’operazione neoilluministica. Un tema rimasto attuale, poiché il paradigma del “patriottismo costituzionale”, scaduto a surrogato di quello “resistenziale”, persiste a supporto di ambizioni egemoniche di tipo ciellenistico, che perdono di vista la crisi di legittimazione della democrazia italiana che mi sembra essere il vero problema nazionale.
Il nocciolo del magistero storiografico di De Felice sta nella distinzione tra giudizio morale, ideologico o politico (giudizio di valore) e giudizio storico (giudizio di conoscenza e comprensione), che governa tutta la sua opera storiografica. Il giudizio morale non è solo legittimo, ovviamente, ma è persino doveroso, altrimenti sconfiniamo in un indifferentismo privo di principi (e De Felice non ha mai taciuto i suoi principi di intellettuale liberale). Ma perché il giudizio morale sia consapevole e pertanto saldo, richiede un giudizio storico distaccato, basato sulla scientificità del metodo storico. Un magistero che può essere riassunto in una affermazione dello stesso De Felice in un’intervista del 1989: «La storia si scrive cercando di capire le ragioni del tempo. Se no, si fa moralismo».
Un criterio “normale”, si potrebbe dire, ma non lo era ai suoi tempi e non sembra esserlo neppure ai nostri, nei quali non sembra superata la constatazione di De Felice in un’intervista del 1994: «Gli sconfitti hanno lasciato ai vincitori un frutto avvelenato: una mentalità autoritaria che annulla ogni diversità, che non si fa scrupolo di manipolare e sfruttare le verità della storia».
In un articolo su La Stampa, appena due mesi prima di morire (marzo 1996), De Felice registrava, con amarezza, un’«involuzione del dibattito storiografico» che riproponeva «l’impossibilità di studiare il fascismo al di là di un giudizio ideologico e politico», chiudendo con «il sogno di una storia normale» (pp. 435-436). L’involuzione è proseguita e il sogno non sembra realizzato. Credo tuttavia che a tenerlo vivo sia ancora oggi il magistero storiografico e civile di Renzo De Felice.