Laureato in Scienze Politiche al «Cesare Alfieri» di Firenze, si interessa di storia del periodo fascista e dell’Italia repubblicana. Sul fascismo apuano ha pubblicato Al gancio del Negroni. «Il Popolo Apuano» di Stanis Ruinas. Fascismo rivoluzionario e Regime nella provincia del marmo (Solfanelli 2016) e Fascismi di provincia. Pontremoli e l’Alta Lunigiana 1919-1925 (Youcanprint 2019). Ha pubblicato saggi e articoli su riviste di studi storici («Rassegna Storica Toscana», «Nuova Antologia», «Diacronie») e sulla rivista on line del Centro Studi Geopolitica.info.

Una stanza elegante, una tavola riccamente imbandita. Danton riceve Robespierre, che non accetta nulla, contrariato da tanta sfarzosa ospitalità. Danton se ne avvede, seccato.

Danton (sorride disponibile, sorseggia un bicchiere dopo l’altro): Che cosa vuoi da me?
Robespierre: Che tu dichiari che sei nostro alleato, Georges…
Danton: Impossibile. Se vai avanti col terrore non posso seguirti e non potrà farlo nessuno. È il popolo che ci ha portato fin qui, distruggerà la rivoluzione.
Robespierre: Io mi assumo la difesa del popolo da quegli uomini che hanno usato la rivoluzione solo per arricchirsi.
Danton (sorride): Maxim… Maxim… La tua idea degli uomini è come nei romanzi, sono eroi da romanzo… dimentichi che siamo fatti di carne e ossa… vorresti elevarci ad altezze dove è impossibile respirare… Risultato? Tu isoli la rivoluzione, la paralizzi… Bisogna riportare le cose a un livello umano.
Robespierre: Arrestare il processo rivoluzionario è la morte della rivoluzione!
Danton: Quello che vuole la gente è mangiare e dormire in pace. Dove non c’è pane non c’è legge, né libertà, né giustizia, né repubblica.
Robespierre: Sogni forse il potere?
Danton (sorride): Ma come sognarlo? Io ce l’ho. Il vero e solo potere, la piazza! Non dimenticarlo!
Robespierre: No, non lo dimentico, ma tu ricordati questo: per fare la felicità del popolo non indietreggerò di fronte a niente.
Danton (si alza, scompiglia l’impeccabile parrucca di Robespierre e gli grida in faccia): La felicità del popolo? Che ne sai tu del popolo? Niente! Guardati! Tu non bevi, hai i capelli incipriati! Solo alla vista di una spada svieni! Non hai mai fottuto una donna! In nome di chi parli tu?
Robespierre (ricompone la parrucca, impassibile, con tono paterno, sottilmente minaccioso): Georges, fai come ti dico, ritorna con noi.
Danton (ubriaco, prende la mano di Robespierre, la pone sul proprio collo): Se tu ti ostini, Maxim, la vedi questa testa? Ebbene dovrai essere tu a farla mozzare.
Robespierre (si alza, lo sguardo fisso nel vuoto): Scusami. Ci siamo sbagliati, tu e io. Buonanotte. (Si avvia alla porta).

La cena tra i due rivoluzionari è la scena clou del dramma della Rivoluzione nel film Danton di Andrzej Wajda (1983).

Le letture politiche attribuirono al film l’accostamento del terrore giacobino al totalitarismo comunista che ancora asserviva il paese del regista nella crepuscolare gestione Jaruzelski. Queste letture erano facilitate dalla nota sensibilità del regista verso la storia del proprio paese e a Wajda può senz’altro applicarsi l’aforisma di Goethe “chi desidera capire il poeta, deve andare nella terra del poeta”. Tuttavia, egli smentì una lettura così riduttiva: «Danton non è Lech Walesa e Robespierre non è Jaruzelski. È una spiacevole semplificazione» (La statue de la guillotine, «Le Monde», 6 gennaio 1983). La sinistra socialista francese al potere, con Mitterrand in alleanza con i comunisti, unita nel culto della Grande Rivoluzione in toto, incluso il giacobinismo, non gradì un Robespierre “anticipatore” del terrore stalinista.

Le letture storiche riversarono sul film antiche polemiche. Da una parte gli Annales historiques de la Révolution française, custodi dell’ortodossia storiografica “giacobina” del loro fondatore Albert Mathiez, giudicarono con severità il film di Wajda, sentenziando che «ci rimanda 70 anni indietro», cioè, appunto, a prima di Mathiez (così l’aspra recensione di F. Gauthier, À propos du Danton de Wajda, n. 251/1983, pp. 182-185). Dall’altra, in difesa del film intervenne il grande storico della Rivoluzione François Furet (Camarade Danton?, «Le Nouvel Observateur», 14 gennaio 1983).

Ormai lontane le letture politiche, mentre le letture storiche inciampano nell’equivoco di misurare un’opera artistica con un metro storiografico che non è il suo, possiamo riguardare questo capolavoro come autonomo stimolo di riflessione sul fenomeno “rivoluzione”.

Giustamente, «Wajda non sta documentando la storia ma drammatizzando un problema storico» (M. Szporer, Andrzej Wajda’s Reign of Terror: Danton’s Polish Ambiance, «Film Quarterly», 37/2, 1983, pp. 27-33). Il dramma personificato dai due uomini è in realtà il dramma insito nella meccanica rivoluzionaria, protagonista del film è la Rivoluzione.

Il film è tratto da un’opera teatrale, L’affare Danton di Stanisława Przybyszewska (peraltro di orientamento “robespierrista”). L’impianto teatrale favorisce l’arte di Wajda perché gli consente l’esercizio da lui prediletto, che non era la sceneggiatura, lasciata volentieri ad altri, bensì la psicologia dei personaggi, aiutato qui da un cast di attori eccellenti, dai superlativi Depardieu-Danton e Pszoniak-Robespierre, fino a comprimari e minori. Ancora Wajda: «Un buon film storico dovrebbe rivelare la psiche delle persone dell’epoca. Come si sono comportati? Cosa li ha motivati?» (Télérama, gennaio 8-14, 1983).

Il film smentisce le semplificazioni attribuitegli, poiché esso mostra la problematicità di eventi e personaggi: il “fanatico” Robespierre offre per due volte la salvezza all’ex compagno di scuola Desmoulins, dantoniano, orgogliosamente rifiutata da questi, e nel Comitato si oppone a lungo all’arresto di Danton; ciò ha ragioni politiche, ma tradisce la consapevolezza della tragedia della Rivoluzione. Dall’altra, il “moderato” Danton non esita a minacciare di proporsi di nuovo tribuno dell’ira popolare.

Wajda ci restituisce personalità combattute, un Robespierre controllato ma sofferto, un Danton impetuoso ma stanco. I colori cupi e la poca luminosità, il ritmo e il turbinare di eventi che si conclusero in un pugno di giorni, rimproverati al regista (La Rivoluzione non è un delirio, titolò lo storico Michel Vovelle), sono risorse estetiche per raffigurare l’incombere di destini personali e collettivi.

L’ammissione di Wajda dello stimolo dato al film da una riflessione sul bolscevismo ci suggerisce una lettura forse più coerente con la sua natura:

Mi sono sempre chiesto perché i leader della Rivoluzione Bolscevica fossero stati interessati a questi due personaggi. In un certo senso, il film risponde a questa domanda. Prima del 1918, Lenin citava particolarmente Danton: egli voleva rovesciare il regime zarista in modo molto simile a come il vostro tribuno ha contribuito alla caduta della monarchia. Dopo il 1918, Lenin citava e analizzava ampiamente soltanto Robespierre… questo quando voleva preservare lo stato rivoluzionario nella Russia Sovietica, mantenere il potere e non consentire che si sviluppasse un vuoto di autorità («Le Monde», cit.).

Con l’immediatezza della comunicazione artistica il film mostra quanto lo scontro non fosse solo di potere o di temperamento, ma di logiche entrambe inserite dentro la dinamica rivoluzionaria, entrambe presenti dentro a ciascuno dei protagonisti.

In ogni rivoluzionario c’è un Danton e un Robespierre, due logiche che confliggono nel dramma delle rivoluzioni, icasticamente rappresentato dalla scena della cena tra i due rivoluzionari, entrambi immersi dentro in tutto e per tutto alla Rivoluzione, Terrore incluso, entrambi legati al suo destino e tesi al suo salvataggio, entrambi dei montagnards imprigionati nel circuito di legittimazione della democrazia ugualitaria diretta, il popolo «che ci ha portato fin qui», alienato nel soggetto ideale di Robespierre, un popolo che attende da lui la felicità, o nella minoranza attiva, la “piazza” di Danton.

Danton, tra i fautori del primo Terrore, il deputato che propose l’istituzione del Tribunale rivoluzionario, il ministro della Giustizia inerte durante i massacri di settembre del 1792, che ora vuole la fine del Terrore e parla di un popolo reale che vuole benessere e tranquillità e non può sopportare all’infinito la tensione della paura, del bisogno, del sacrificio. Robespierre, il pragmatico tattico parlamentare, il deputato contrario alla pena di morte, diffidente della guerra rivoluzionaria e prudente sullo sviluppo repubblicano, che ora vuole istituzionalizzare il Terrore e parla di un popolo ideale da rendere felice. Danton che vuole consolidare la Rivoluzione nella storia, Robespierre che fa scivolare la Rivoluzione fuori dalla storia verso l’utopia, una rivoluzione permanente per creare un uomo nuovo nella repubblica della Virtù.

Ha scritto Mona Ozouf:

Come la religione, la Rivoluzione francese porta l’incredibile promessa di un nuovo mondo per un uomo rinnovato. Ma a differenza della religione, essa accetta la formidabile prova dell’esperienza storica. Per far coincidere il suo annuncio e la sua realtà, non dispone che di due credenze, tra le quali l’abbiamo vista andare e venire: a volte una scommessa su una libertà miracolosa che, come scrive Camille Desmoulins, dispensa beni “dei quali mette immediatamente in possesso coloro che vi ricorrono”; a volte una scommessa su una dura coercizione che pretende di dispensare beni differiti e rinnovare gli uomini loro malgrado. Ritrovare queste due scommesse nei testi che i rivoluzionari dedicano all’uomo nuovo ha soprattutto il vantaggio di mettere in violento contrasto i due versanti, liberale e non liberale, della Rivoluzione francese (M. Ozouf, L’homme régénéré, Gallimard, Paris, 1989, ebook, cap. Due rigenerazioni, due rivoluzioni?).

Il progetto ideologico di rigenerazione morale, elemento distintivo delle rivoluzioni moderne, impegna sia i Danton che i Robespierre, che vanno e vengono tra i due versanti. I primi finiscono per accettare le dure repliche della storia e cercano il compromesso con esse, affidano alla libertà i percorsi dell’uomo nuovo; i secondi sfidano la storia, rilanciano l’azione rivoluzionaria e affidano alla politica la creazione dell’uomo nuovo. Quando il progetto entra nella storia scatena il conflitto tra libertà e moralismo e genera lo «scisma» di cui ha parlato Jacob Talmon tra la democrazia liberale e il «messianismo politico» che diviene democrazia totalitaria (Le origini della democrazia totalitaria, Il Mulino, Bologna 1967, pp. 10-14).

La Rivoluzione ha in sé il gene dell’autodistruzione. La rigenerazione, momento originario, è totale o non è, non è solo politica e sociale, ma anche antropologica: il compromesso con la storia è l’ammissione che la rigenerazione sarà parziale e graduale, la rivoluzione nega sé stessa con la mediazione e diventa transizione (ha ragione Robespierre, «arrestare il processo rivoluzionario è la morte della rivoluzione»); per contro, la rivoluzione permanente è l’ammissione che essa è interminabile, quindi è irrealizzabile (ha ragione Danton, «la tua idea degli uomini è come nei romanzi»). Dunque, la rivoluzione dissolve sé stessa nell’utopia affidata al Terrore, «senza il quale la virtù è impotente», dice Robespierre. Lo stesso terrore che attanaglia il fratellino di Éléonore Duplay, il quale nel film di Wajda recita tremolante a memoria la Dichiarazione dei Diritti a un Robespierre atterrito dal dubbio mentre la carretta porta al patibolo con Danton la stessa Rivoluzione.

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