Laureato in Scienze Politiche al «Cesare Alfieri» di Firenze, si interessa di storia del periodo fascista e dell’Italia repubblicana. Sul fascismo apuano ha pubblicato Al gancio del Negroni. «Il Popolo Apuano» di Stanis Ruinas. Fascismo rivoluzionario e Regime nella provincia del marmo (Solfanelli 2016) e Fascismi di provincia. Pontremoli e l’Alta Lunigiana 1919-1925 (Youcanprint 2019). Ha pubblicato saggi e articoli su riviste di studi storici («Rassegna Storica Toscana», «Nuova Antologia», «Diacronie») e sulla rivista on line del Centro Studi Geopolitica.info.

Recensione a
E. Gentile, E fu subito regime. Il fascismo e la marcia su Roma, Laterza, Bari-Roma 2012, € 12,00

Il libro di Emilio Gentile sulla marcia su Roma resta ad oggi un’opera di riferimento sull’evento capitale dell’ascesa al potere del fascismo. Storico esente da contaminazioni ideologiche, Gentile non indulge ad ammiccamenti antistorici all’attualità. Contrario all’uso inflazionato del termine fascismo e a divagazioni sul “fascismo eterno”, affronta il fascismo storico e resta ancorato al rigore documentario della lezione di Renzo De Felice, senza rinunciare a una lettura originale degli eventi.

Gentile mette subito in guardia dalla sottovalutazione della marcia su Roma come una farsa. Anche storici accreditati l’hanno definita un’«opera buffa», una «goffa kermesse», un’«adunata di utili idioti», poiché le squadre fasciste non “conquistarono” in realtà la capitale, ma vi furono accolte per la sfilata del 31 ottobre con il consenso regio dopo la nomina di Mussolini a capo del governo. La storiografia in vena di boutade editoriali incorre nella stessa incomprensione dei molti antifascisti, ricordati da Gentile, che compresero male e tardi la “rivoluzione” fascista, per poi ridicolizzarla a partita persa. In questo rimprovero riecheggia la critica di Gentile a un atteggiamento politico e storiografico di «defascistizzazione retroattiva» del fascismo che finiva per ridurre la sua portata drammatica nella storia nazionale.

La ricostruzione dei giorni cruciali della marcia, delle azioni delle squadre nelle province e del tourbillon di trattative tra Mussolini e notabili liberali, prefetti, capi fascisti, rende il ritmo incalzante degli eventi e la drammaticità della storia, senza farsi influenzare dalla «facile sapienza di postumo», cioè il senno del poi di cui non godevano i protagonisti del tempo. Lo storico deve ricostruire gli eventi come li vissero i protagonisti, tentando di ignorare, come lo ignoravano loro, l’esito delle loro azioni e decisioni. Nel prologo è già contenuta una lezione di metodo, nell’invito a calarsi nel momento storico: poiché i protagonisti non conoscevano la fine della loro storia, «anche il lettore dovrebbe fingere di non conoscerla, se vuol capire il senso della storia» (p. XVI; cito dall’ed. 2014).

La narrazione restituisce l’incertezza del momento, la sua volubilità, un susseguirsi di attimi che potevano piegare gli eventi verso esiti differenti del corso storico. Gentile avverte sulla complessità della storia, che non è determinata da realtà metastoriche, «forze collettive o astratte entità che adoperano gli individui come strumenti inconsapevoli», ma da individui reali che agiscono e scelgono tra circostanze e possibilità molteplici.

La storia è una successione di eventi, ciascun evento è una successione di circostanze e attimi, ciascun attimo è una concentrazione di molteplici possibilità fra circostanze molteplici, nelle quali anche il caso può avere una decisiva importanza. Il ritmo della storia è scandito dalla dialettica fra le circostanze, l’attimo e la decisione umana. […] Essi (i fascisti, ndr) intuirono d’essere di fronte all’attimo fuggente, valutarono le circostanze, le possibilità, i rischi. E alla fine decisero (p. XIII).

Mussolini fino all’agosto del 1922 aveva privilegiato la manovra politica e la via parlamentare, non riteneva praticabile la via dell’insurrezione. La svolta fu lo sciopero “legalitario” dei primi di agosto del ‘22, stroncato dalla mobilitazione delle squadre fasciste decisa da Michele Bianchi, segretario del Pnf, con un ultimatum al governo, subìto da Mussolini, inizialmente contrario. Dalla prova di forza uscì annichilito il movimento socialista e umiliato il governo liberale. Da allora si iniziò a parlare di marcia su Roma. Il partito-milizia svelava il suo obiettivo lanciando la sfida allo Stato liberale.

Il momento era favorevole al fascismo. Era il partito più numeroso e forte nel paese, con propri sindacati e una propria milizia; godeva di consenso o quantomeno indulgenza tra i ceti borghesi; i ceti medi fornivano quadri e militanti; le masse proletarie erano stanche e prive delle proprie organizzazioni distrutte dalla violenza squadrista; i partiti antifascisti erano divisi, il socialista lacerato tra esitanti riformisti e impotenti massimalisti, il popolare diviso in correnti e privato dell’appoggio del Vaticano, il comunista chiuso in un settarismo che vaticinava un’imminente fine del fascismo; i liberali, divisi in correnti notabilari, esprimevano un governo debole. Soprattutto il ceto dirigente, dal re al governo, ai notabili liberali, ai quadri dell’esercito e ai prefetti, escludeva l’uso della forza contro i fascisti e spingeva per un accordo con essi per timore di una guerra civile che avrebbe rimesso in circolo anche le forze socialcomuniste.

Ma era anche «il momento più difficile» per i fascisti. L’urgenza di conquistare il potere non era posta dall’onda del successo bensì dal timore di un rapido declino. Nei sindacati fascisti affluivano lavoratori, specie contadini, ai quali doveva essere dato lavoro; nuovi iscritti sopraggiungevano al partito con proprie aspettative; la baldanza degli squadristi richiedeva il ripristino della disciplina per controllare le iniziative autonome dei vari “rassati” provinciali. La crescita e il successo aumentavano il carico di domanda politica la cui risposta poneva l’urgenza del potere non più solo locale: occorreva andare al governo del paese per non fare la fine del partito socialista, che dopo la tumultuosa crescita in consenso e militanza nel biennio rosso perse l’attimo della conquista rivoluzionaria del potere promessa alle masse. Inoltre, la grande paura della rivoluzione bolscevica stava scemando, dei fascisti si sentiva meno il bisogno. Il fascismo era nelle migliori condizioni per la conquista del potere, ma rischiava di perdere l’attimo.

Gentile non personalizza sul duce la ricostruzione degli eventi. Ricorda le oscillazioni di Mussolini e le divisioni interne alla dirigenza fascista, compresi i quadrumviri della marcia. Uno di essi, De Vecchi, nei giorni della “marcia” era a Roma e trattava per un governo Salandra, assieme a Grandi, entrambi contrari prima alla marcia, ora allo scontro aperto; al contrario Bianchi, quadrumviro e segretario del partito, rappresentante dell’intransigenza squadrista, fu il primo a parlare di governo «fascista» e spingeva Mussolini a rifiutare ogni combinazione con il vecchio ceto liberale e a chiedere la guida del governo.

Gentile rivaluta il ruolo di Michele Bianchi nel precipitare la decisione di Mussolini sino a cogliere l’attimo fuggente della conquista del potere in proprio. Ma ricorda che anche Mussolini sapeva che la sua forza erano i fascismi di provincia con i loro ras e milizie. Sapeva che essi erano l’unica vera carta che poteva giocare nell’incontro-scontro con i poteri costituiti, non poteva rinunciare ad essi e qualunque soluzione doveva salvaguardare la loro fedeltà. Ma questa non era incondizionata: la mentalità “totalitaria” ante litteram dei capi dello squadrismo non ammetteva compromessi con altre forze, neppure con il vituperato Stato liberale:

Mussolini e Bianchi, sia pure con differente risolutezza, scelsero la via insurrezionale non solo perché la giudicarono la più adatta ad afferrare l’attimo fuggente, ma perché su quella via il partito che essi guidavano si era incamminato fin dalla nascita ed era quasi obbligato a percorrerla. […] Ciò che il partito aveva conquistato con la sua forza illegale non sarebbe stato mai ceduto: di conseguenza, l’irrevocabilità del potere locale rendeva la via insurrezionale l’unica percorribile per la conquista del potere centrale… Storicamente, dunque, fu il partito milizia a volere la “marcia su Roma”: il duce e il segretario furono gli interpreti e gli esecutori della sua volontà (pp. 133-134).

La mobilitazione delle squadre di fine ottobre verso la capitale fu solo l’atto finale, dagli effetti più simbolici che militari, di una “marcia su Roma” che va intesa come un complesso di azioni insurrezionali e di tante marce, come quelle su Bologna e Ferrara, su Novara e Cremona, su Trento, Rovigo e Ravenna, che avevano portato nei mesi precedenti al controllo fascista di vaste aree del paese, ripetute in tante province alla fine di ottobre. Non fu retorica né un bluff, bensì un’originale combinazione di trattative e insurrezione, dove le prime erano complementari e non alternative alla seconda:

L’insurrezione era necessaria per un duplice scopo: fare pressione sul governo per costringerlo a dimettersi e fare apparire l’ascesa del fascismo al potere non come un normale cambio di governo ma come un trapasso di regime: l’insurrezione era il “grande atto”, reale e simbolico nello stesso tempo, col quale il partito milizia doveva arrivare al potere, sconfiggendo l’impotente Stato liberale, per costruire il nuovo Stato fascista (p. 141).

Ora o mai più: Mussolini colse l’attimo fuggente (sua espressione), mentre il re e il governo liberale rinunciavano al loro, quello di liquidare un partito-milizia del quale non compresero la natura sovversiva. Attenti diplomatici stranieri rilevarono che il successo del fascismo fu dovuto più che alla sua forza alla debolezza delle istituzioni liberali, alla perdita di rappresentatività dei partiti tradizionali e alla delegittimazione della democrazia italiana che non rappresentava più il paese, nemmeno tra i ceti che finora l’avevano sostenuta (pp. 227-229).

E fu subito regime è la tesi di Emilio Gentile, per l’intransigenza proclamata e praticata dai fascismi di provincia prima e dopo l’insurrezione, raccolta nei richiami di Mussolini all’«irrevocabilità» della rivoluzione fascista, uniti al disprezzo dell’istituto parlamentare e alla minaccia verso chiunque mettesse in discussione il fatto compiuto: «La conquista del monopolio politico fu l’obiettivo perseguito dal fascismo subito dopo l’ascesa al potere, anche se i modi e i tempi per conseguirlo erano concepiti diversamente dal duce e dalle varie correnti del partito fascista» (p. 272).

Gentile ha sostenuto con i suoi studi che il regime fascista fu un regime totalitario, sia pure inteso come “esperimento continuo”. La questione è dibattuta in storiografia e in scienza politica. Di certo, dal trauma della Grande Guerra irruppe nello spirito pubblico una nuova Weltanschauung che coinvolse i nuovi movimenti rivoluzionari “totalitari” nazionalisti e comunisti del dopoguerra. Essa realizzava una frattura etico-politica con l’ordine liberale-borghese naufragato nel fango e nel sangue delle trincee. Nell’ottobre del 1922 giungeva al potere in Italia una mentalità “totalitaria” ante litteram che, estranea e ostile al liberalismo, animava i capi e i gregari di un partito-milizia. Essa avviava e condizionava un esperimento di governo i cui controversi esiti non erano comunque scontati, poiché la storia, come insegna l’Autore, è il risultato della dialettica tra gli uomini, le circostanze e le possibilità lasciate alla loro scelta.

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