Laureato in Scienze Politiche al «Cesare Alfieri» di Firenze, si interessa di storia del periodo fascista e dell’Italia repubblicana. Sul fascismo apuano ha pubblicato Al gancio del Negroni. «Il Popolo Apuano» di Stanis Ruinas. Fascismo rivoluzionario e Regime nella provincia del marmo (Solfanelli 2016) e Fascismi di provincia. Pontremoli e l’Alta Lunigiana 1919-1925 (Youcanprint 2019). Ha pubblicato saggi e articoli su riviste di studi storici («Rassegna Storica Toscana», «Nuova Antologia», «Diacronie») e sulla rivista on line del Centro Studi Geopolitica.info.

What If Russia Loses?, si chiedevano il 4 marzo scorso su «Foreign Affairs» Liana Fix e Michael Kimmage riguardo alla guerra in Ucraina. Domanda che può essere riformulata in E se Putin perdesse?, spostando l’attenzione sul destino del regime putiniano. Naturalmente non si parla di sconfitta in battaglia, l’esercito ucraino non può respingere i russi. Ma anche una vittoria parziale, limitata al controllo di parti di territorio ucraino, rischia di impantanare i russi in un’occupazione costosa. L’isolamento internazionale, specie economico, il peggioramento del tenore di vita interno, l’impopolarità di una guerra contro un popolo fratello, per gli autori sarebbero probabilmente la fine politica di Putin. Tuttavia, essi ritengono che una Russia indebolita e umiliata non autorizza ottimismo, poiché difficilmente diventerebbe una democrazia filo-occidentale.

Più perentorio, su «Le Grand Continent», giovane rivista francese di geopolitica sorta in ambito ENA, Jean-Baptiste Jeangène Vilmer, direttore dell’Institut de recherche stratégique de l’Ecole militaire, affermava, tre giorni dopo l’invasione, che Putin aveva già perso la guerra, avendo fallito il blitzkrieg e la satellizzazione dell’Ucraina. Forse dando troppo per scontata l’opposizione popolare russa alla guerra e sopravvalutando quella delle oligarchie economiche, tirava la conclusione dell’«inizio della fine» di Putin (Pourquoi Poutine a déjà perdu la guerre, 27 febbraio).

È più probabile che la Russia raggiunga sul terreno alcuni obiettivi: annessione-occupazione del Donbass e corridoio con la Crimea, neutralità de facto di un’Ucraina posta sotto intimidazione, con congelamento della candidatura a Nato e Ue. Un cessate il fuoco con un assestamento de facto. Quanto alle ricadute sul consenso interno e agli effetti dell’isolamento internazionale, sono ancora da misurare.

Tuttavia, le analisi riportate sono ponderate e non possono essere assimilate tout court al wishful thinking che domina i media occidentali. L’uscita di scena di Putin in seguito a un ipotetico insuccesso militare è senz’altro preventivabile. Inoltre, l’intransigenza di Usa e Gran Bretagna per sanzioni più rigide sembra puntare proprio a un regime change in Russia (nonostante le smentite). Ciò lascia sospettare che i due governi sappiano di fratture nei vertici russi su cui tentare di forzare per un’estromissione di Putin. Indirettamente, ciò sembra accreditare la possibilità concreta di un golpe contro Putin. In ogni caso, al di là di questa eventualità e dell’esito della guerra, una riflessione non angusta sul dopo Putin non è inattuale.

In effetti, nei regimi autoritari gli avvicendamenti di potere avvengono frequentemente con operazioni di forza, la quale non può essere che quella armata, cioè quella dell’esercito, oltre e più di quella dei servizi di sicurezza. L’esercito in ogni paese ha il ruolo istituzionale di difendere i confini della nazione, per cui l’ideologia dell’esercito è congenitamente nazionalista. La successione sarebbe nel solco di questa ideologia, la stessa che ispira Putin. Questo induce a qualche riflessione sul nazionalismo “grande russo”, che sembra aver preso il sopravvento nella politica russa e che potrebbe paradossalmente uscire rafforzato dal revanscismo che segue un insuccesso militare (la c.d. “sindrome di Weimar”).

Samuel Huntington ricordava nel suo Lo scontro delle civiltà che la Russia è un paese «in bilico», concorde sulla propria identità ma non sulla civiltà di appartenenza. La dialettica che attraversa la storia russa tra occidentalisti e slavofili, tra europeismo e originalità euroasiatica (eurasiatismo), è «un tratto inalienabile del carattere nazionale» (ne abbiamo discusso in La crisi ucraina e lo scontro di civiltà). Sono entrambe correnti composite, ma l’eurasiatismo è unito dalla convinzione dell’unicità della civiltà russa, alternativa, se non contrapposta, alle altre, inclusa quella occidentale. Putin ha tenuto inizialmente un certo equilibrio tra le due tendenze, ha coltivato rapporti di cooperazione con l’Occidente, fino alla partecipazione per alcuni anni alle sue sedi di cooperazione istituzionale (G8).

Dal 2008-2010 il baricentro della sua politica si è spostato sulla prospettiva imperiale euroasiatica. Ha certo giocato su questo sviluppo la percezione di una minaccia dall’estensione della Nato. Ma questa è l’innesco di una reazione tipica dell’attitudine storica del nazionalismo russo. Esso ha antiche radici culturali nel pensiero conservatore del tradizionalismo russo, ostile ai principi illuministi, a liberalismo e individualismo, visti come minacce all’unità sociale e morale di un paese complesso come la Russia. Per i nazionalisti l’Ucraina non è minacciosa perché nazista, bensì perché, dopo Maidan, sembra avviata verso uno sfidante modello liberale occidentale. Inoltre, il nazionalismo russo ha motivazioni geopolitiche, in una Russia accerchiata tra Europa e Asia esso sorregge il meccanismo difensivo della “fortezza Russia”. Infine, risponde all’esigenza di coesione di un paese eterogeneo sul piano economico, etnico e religioso. Anche studiosi occidentali, come di recente Peter Eltsov, ritengono che una democratizzazione pluralista e liberale si accompagnerebbe alla disgregazione della Russia.

L’esigenza di coesione di un paese diversificato in popoli e regioni, economie e culture, come la Russia, non trova risposta nella dimensione di stato-nazione, bensì in quella di stato-civiltà. I confini di uno stato-civiltà non sono quelli normativi territoriali, bensì quelli culturali, per cui Russia è anche Ucraina, Moldavia, Bielorussia. In momenti di instabilità, come la crisi finanziaria internazionale del 2008-2010 e le agitazioni interne del 2011-2012, di fronte a minacce reali o percepite, il riflesso russo vira verso il conservatorismo tradizionalista, un arroccamento-rifugio nella propria identità per sfuggire al caos delle turbolenze e contaminazioni occidentali, minacciose della tenuta del paese.

Gli stati-civiltà sono portati alla dimensione imperiale. L’impero, inteso come forma di governo, consente di riconciliare nell’unità le diversità multietniche e multinazionali. Il nazionalismo russo va inteso in questo senso: la Grande Russia è l’impero di una civiltà.

I campioni della tendenza nazionalista “grande russa” non sono solo intellettuali come Aleksandr Dugin o consiglieri di Putin come Dmitrij Suslov e prima di lui Vladislav Surkov, ma anche i militari, nazionalisti per ruolo, e i funzionari dell’Fsb. Questi sono i due attori determinanti del potere russo. Sollevazioni popolari sono improbabili per la frammentazione delle deboli forze di opposizione. Quanto alla teorica fronda delle oligarchie economiche, Putin non ha mai avuto difficoltà a sottoporla a “rotazioni”.

Gli apparati militari e di sicurezza, dai quali è tratto il ceto dirigente più stretto del potere putiniano (i c.d. siloviki), condividono l’ideologia conservatrice del tradizionalismo eurasiatista russo funzionale all’integrità del paese, all’ordine sociale e alla sua dimensione politica internazionale, condizioni del loro potere. Non va neppure trascurato che il sentimento nazionalista è diffuso in Russia e garantisce una fonte di consenso popolare per qualsivoglia élites al potere.

Alla luce della tendenza che oggi ha preso il sopravvento in Russia è difficile che il dopo Putin porti a un regime change. Il cambio di leadership può avvenire per linee interne al regime, ossia per iniziativa di apparati, come l’esercito, che condividono l’ideologia nazionalista “grande russa”. Sarebbe una soluzione di continuità: non un regime change, ma una nuova leadership nazionalista e tendenzialmente revanscista.

Con Putin o senza Putin, l’Occidente probabilmente si ritroverà davanti la stessa Russia, con il suo “carattere nazionale” dimidiato, i suoi vincoli geopolitici, la sua antica cultura conservatrice e tradizionalista, la sua identità “speciale” e il suo orgoglioso destino identitario, strumenti di coesione e tenuta di qualsivoglia potere minacciato dalle ricorrenti insicurezze e frustrazioni che insidiano la storia russa.

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