Laureato in Scienze Politiche al «Cesare Alfieri» di Firenze, si interessa di storia del periodo fascista e dell’Italia repubblicana. Sul fascismo apuano ha pubblicato Al gancio del Negroni. «Il Popolo Apuano» di Stanis Ruinas. Fascismo rivoluzionario e Regime nella provincia del marmo (Solfanelli 2016) e Fascismi di provincia. Pontremoli e l’Alta Lunigiana 1919-1925 (Youcanprint 2019). Ha pubblicato saggi e articoli su riviste di studi storici («Rassegna Storica Toscana», «Nuova Antologia», «Diacronie») e sulla rivista on line del Centro Studi Geopolitica.info.

Recensione a
P. Pombeni, L’apertura. L’Italia e il centrosinistra 1953-1963
il Mulino, Bologna 2022, pp. 296, € 22.00.

Paolo Pombeni ripercorre la storia politica italiana nel decennio 1953-1963, dominata dal tema dell’apertura ai socialisti, cioè della loro associazione al governo del paese. Pombeni scrive una storia politica che si approvvigiona dall’ormai ricca saggistica su quegli anni, con particolare predilezione per la memorialistica dei protagonisti, la quale, se non evita lo scivolamento nel dettaglio della cronaca, rende l’intensità delle tensioni in quel periodo di transizione.

Il termine a quo è il 1953, cioè le elezioni del giugno che non fecero scattare il meccanismo maggioritario della legge elettorale voluta da De Gasperi per blindare la formula di governo centrista, che mostrava il proprio logoramento. Il fallimento dell’«escamotage» degasperiano imponeva la ricerca di nuovi equilibri, che iniziò a guardare a sinistra, al Psi, le cui origini positiviste lasciavano sperare un suo recupero verso «un socialismo umanista e non marxista», del quale i laburisti inglesi erano i rappresentanti (p. 28).

Fu lo stesso De Gasperi al congresso del partito del giugno 1954 a porre le coordinate dell’apertura ai socialisti. Contestò la convinzione che la «vera genuina socialità», cioè un’avanzata politica sociale, non potesse venire che da una collaborazione con i socialisti, rivendicando alla Dc la natura di partito riformatore non bisognoso di avalli altrui. Ammise che la necessità di allargare le basi della democrazia italiana indirizzava l’attenzione a sinistra, escludendo ogni intesa con le destre estranee all’area costituzionale: «La partecipazione dei socialisti al governo è questione che dovrà un giorno essere risolta». Ma pose ferma la funzione anticomunista di un’apertura ai socialisti: adesione del Psi alle alleanze del campo democratico occidentale, con l’abbandono ideologico del marxismo-leninismo e politico del patto di unità d’azione con il Pci (pp. 33-34).

L’apertura a sinistra rimase a lungo impraticabile. La Dc era un partito eterogeneo, una scelta netta minacciava la sua unità. Doveva fare i conti con un Vaticano governato da prelati conservatori e con una Chiesa arroccata di fronte alla modernizzazione che sfidava la sua influenza sulla società. Le ingerenze ecclesiastiche, documentate da Pombeni con dovizia di dettagli, si sommavano a quelle del mondo economico, influente sulla destra Dc e sui liberali, e a quelle dell’alta burocrazia (inclusi i servizi). Il nuovo segretario della Dc Fanfani serrava al centro l’unità democristiana, ma preparava le basi dell’affrancamento del partito dai condizionamenti esterni. Neppure il Psi era pronto alla scelta, diviso tra autonomisti e sinistra del partito fedele al patto d’unità d’azione con i comunisti, popolare tra una base legata al romanticismo del sol dell’avvenire.

La storia offrì momenti di svolta: nel 1955 l’elezione alla presidenza della repubblica di Gronchi, favorevole all’apertura ai socialisti e interprete di un ruolo presidenziale interventista; nel 1956 i traumi nel mondo comunista del XX congresso del Pcus e dei fatti di Ungheria, che diedero una spinta al distacco del Psi dal Pci; il pontificato di Giovanni XXIII, concentrato sul Concilio più che sulla congiuntura politica italiana. Ma l’apertura a sinistra non era scontata, le destre monarchiche e missina erano minoritarie ma non marginali e offrivano sponda al fantasma di una “grande destra” con la scissione della destra dc, balenata dagli ambienti cattolici conservatori legati alle gerarchie vaticane. Fanfani tenterà, con il governo di «centrosinistra pulito» del 1959 (Dc, Psdi, appoggio Pri, senza socialisti né liberali) e un programma riformatore che sarà quello del futuro centrosinistra, di «realizzare una svolta a sinistra senza dover entrare nel terreno minato del rapporto coi socialisti» (p. 85).

La caduta di Fanfani dal governo e dalla segreteria Dc, l’avvento dei dorotei e della segreteria di Moro già riportavano la barra al centro. La svolta decisiva la darà il governo Tambroni, voluto da Gronchi per forzare la situazione verso l’apertura a sinistra e che invece aprirà a destra per l’avventurismo improvvido di Tambroni. Il suo fallimento dissipò il fantasma della “grande destra”. Non restava che l’apertura a sinistra per stabilizzare la democrazia. Il rischio di guerra civile venne compreso anche dai conservatori, mentre il Psi accelerò la sua disponibilità per scongiurare lo scivolamento a destra. Un ritrovato asse Moro-Fanfani affiderà a quest’ultimo il governo del «centrosinistra programmatico» che, concordato con il Psi che appoggiava dall’esterno, realizzò le riforme più significative dell’intera esperienza di centrosinistra.

Giungiamo così al termine ad quem: il trauma delle elezioni del 1963. La Dc scese sotto il 40%, a favore dei liberali che raddoppiarono i voti, i socialisti tennero, ma i comunisti guadagnarono consensi. Non c’era alternativa al centrosinistra, ma l’esigenza della Dc di recuperare a destra e mantenere l’unità spostava l’equilibrio. Le forze conservatrici avevano ormai metabolizzato l’«apertura», ma puntavano ora al suo depotenziamento riformatore, che un Nenni angosciato dal ricordo del 1922 accettava per evitare una crisi del sistema. Il governo di «centrosinistra organico», con l’ingresso di esponenti socialisti, verrà affidato a Moro, che tirava la diagonale delle forze verso una versione moderata dell’«apertura».

Pombeni ritiene che l’apertura ai socialisti sia stata «la soluzione che una classe politica cercò di dare al problema di come governare una grande trasformazione economica, sociale (e di conseguenza culturale) che interessava l’Italia» (p. 8). Questa linea interpretativa guida la narrazione: «Fanfani, Moro e l’intellettualità politica cattolica si rendevano conto di due cose: innanzitutto che era necessario accettare il fatto compiuto della modernizzazione, cercando di compenetrarla di valori e di guidarla… In secondo luogo che bisognava evitare che le destre potessero approfittare delle idiosincrasie della vecchia cultura cattolica per impedire il governo della modernizzazione, cioè dello sviluppo in forma ordinata. E questo significava poter costruire una maggioranza di governo che marginalizzasse le destre del “quarto partito”, cioè inevitabilmente “aprire” al Partito socialista» (p. 113).

Tuttavia, la stessa periodizzazione indica che l’«apertura» era questione posta da tempo quando la consapevolezza della trasformazione sociale sopraggiunse a sfidare i partiti a cavallo del 1960, quando il “boom economico” mostrò tutta la sua portata. Lo stesso Pombeni ricorda che «la svolta culturale» verso l’«apertura», cioè la riflessione sul mutamento sociale, fu nel 1961 il convegno Dc di San Pellegrino. La spinta principale restava l’originaria preoccupazione già degasperiana: allargamento della democrazia con il mantenimento della centralità egemonica della Dc, non intesa banalmente come esigenza di conservazione del potere ma convintamente come garanzia della stabilità democratica del paese.

L’asse Moro-Fanfani realizzò la svolta irreversibile del centrosinistra. Tuttavia, i due leader rappresentavano due centrosinistra diversi. Il centrosinistra di Fanfani era una nuova politica riformatrice che valorizzava la “socialità” democristiana ricordata da De Gasperi e che la Dc poteva anche condurre in proprio: «La crescita dei consensi allo stato democratico si ottiene o con lo sfondamento a sinistra nel campo elettorale o con il distacco del Psi dal Pci» (p. 119). Lo “sfondamento a sinistra”, cioè la concorrenza riformatrice ai partiti della sinistra, proposta da Fanfani con il suo breve governo del 1959, è giudicato «velleitario» da Pombeni. Tuttavia, è rappresentativo del centrosinistra fanfaniano, che mirava a sottrarre le masse all’influenza comunista con le riforme.

Il centrosinistra di Moro era un nuovo equilibrio politico, che mirava ad assorbire, anch’esso nella linea degasperiana, il Psi nel campo democratico, ma pronto a sacrifici sulle riforme per la salvaguardia degli equilibri interni ed esterni al partito compatibili con la centralità egemonica della Dc. Per Moro la Dc aveva il dovere di governare «in modo da corrispondere integralmente alla sua funzione mediatrice e alla complessità della sua impostazione e di assicurare nel modo migliore l’equilibrio politico e parlamentare del paese» (pp. 114-115). La «pedagogia» di Moro, cioè la lenta preparazione della svolta, a ben vedere non era altro che l’esercizio della centralità della Dc. Entrambi miravano all’allargamento della democrazia: Moro associando al governo democratico i partiti che guidavano le masse (per allora, il socialista); Fanfani inserendo nello stato democratico direttamente le masse con le riforme.

Le conclusioni di Pombeni sono problematiche (pp. 247-251). Non condivide la definizione di «centrismo aggiornato» data alla lunga esperienza del centrosinistra (condivisa dallo stesso Moro negli scritti dalla prigione delle Br), perché, «sia pure nel quadro di una politica di lottizzazione consociativa fra le varie componenti del sistema, la storia andò avanti». Ma aggiunge che il raffreddamento riformatore avviato dal primo governo Moro susciterà il «rigetto del sistema», mentre sul secondo governo Moro del 1964 «ci si può chiedere se fosse davvero la prosecuzione di quella politica di centrosinistra che fra il 1961 e il 1963 egli aveva proposto al suo partito per lo sviluppo dell’Italia. Forse adesso quel rinvio al valore dell’“equilibrio”, che pure era stata una costante dei suoi discorsi, assumeva una valenza diversa».

Forse confermava la sua valenza, più che assumerne una diversa. La «pedagogia» morotea proponeva il centrosinistra come via obbligata per l’equilibrio del sistema, prima che risposta di governo alle sfide del mutamento sociale. La valenza era l’unità e centralità egemonica della Dc da cui dipendeva per Moro la tenuta della democrazia italiana. La mancanza di una reale alternativa democratica imponeva alla Dc di essere «alternativa a sé stessa». L’anomalia della democrazia italiana, bloccata dalla conventio ad excludendum verso i comunisti, interiorizzava nella Dc la dialettica democratica imponendogli la «mediazione», che diventerà il “consociativismo” durato sino agli anni Ottanta, esteso anche al Pci.

Restava il nodo della «viscosità del nostro quadro non solo politico, ma anche sociale». Per Pombeni, la Dc era stata alternativa a sé stessa nel costruire l’«apertura», il cui prezzo però fu la rinuncia a «un governo in grado di decidere e di mettere in atto con continuità strumenti e mezzi per dare un indirizzo al paese». Quindi, proprio la rinuncia al governo della modernizzazione per uno sviluppo ordinato che secondo l’autore era stato il movente del centrosinistra. Conclude Pombeni: «L’apertura a sinistra non era riuscita ad andare al di là della razionalizzazione di un sistema politico che per non far scoppiare le tensioni indotte da un significativo mutamento storico doveva dotarsi di un nuovo quadro di riferimento compatibile con esso. Non era poco». Ma era anche l’impostazione della soluzione consociativa, che provocherà la graduale perdita di rappresentatività dei partiti indebolendo il sistema. Una contraddizione che ampliò il distacco tra essi e la società civile e finirà per delegittimare il sistema politico, la cui fragilità apparve nel subitaneo crollo post ’89.

L’Autore chiude ricordando gli intellettuali de «Il Mulino», che proprio nel 1963 osservavano che il centrosinistra non era il risultato di mobilitazioni della società, rivoluzionarie o democratiche, bensì «un mutamento di equilibrio parlamentare, consigliato ai politici più avveduti dal logorarsi degli equilibri precedenti, ed è stato reso possibile dall’onda montante del miracolo economico la quale sta portando la nostra economia alla fase del neo-capitalismo, introducendo i consumi di massa, gli alti salari, l’ideologia del benessere». In fondo, è questa la chiave di lettura dello stesso Autore del libro.

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