Alessandro Della Casa (1983) è assegnista presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze dell'Educazione dell'Università degli Studi di Torino, nonché docente a contratto di Storia del pensiero politico presso l’Università degli Studi della Tuscia. Ha conseguito l’abilitazione a professore di II fascia in Storia delle dottrine e delle istituzioni politiche (2022-2033). È autore di numerosi articoli e delle seguenti monografie: Contro la tirannia della maggioranza. La democrazia secondo John Stuart Mill(2009); L’equilibrio liberale. Storia, pluralismo e libertà in Isaiah Berlin (2014); Isaiah Berlin. La vita e il pensiero (2018); La dinamo e il fascio. Volt, l’ideologo del futurismo reazionario (Sette Città, 2022). Nel 2022 ha ricevuto il Premio Isaiah Berlin - Monografie e il Premio Dino Garrone.

Recensione a: C. Marsonet, Christopher Lasch, IBL Libri, Torino 2025, pp. 188, € 14,00.

Christopher Lasch (1932-1994) è parte della cerchia di autori noti in Italia perlopiù per qualche formula evocativa, ma raramente ben compresi quando sono impiegati nella stampa di largo consumo: «cultura del narcisismo», «io minimo», «tradimento delle élite» quelli mutuati dai titoli delle opere dell’americano. A colmare la lacuna, non limitata solo al nostro Paese, nella conoscenza complessiva del pensiero di Lasch viene ora l’agile e validissimo saggio Christopher Lasch (IBL Libri, Torino 2025, pp. 188) di Carlo Marsonet, borsista della Fondazione Filippo Burzio di Torino e Adjunct Fellow del Centro Studi Tocqueville-Acton di Milano.

Valorizzando gli scritti pubblicati e le carte inedite conservate all’Università di Rochester, Marsonet ricostruisce l’itinerario biografico e intellettuale del critico sociale e ne scandaglia acutamente le riflessioni, portando in risalto la correlazione tra i principali nuclei tematici indagati – la famiglia, il narcisismo, il progresso, la religione, la democrazia – nell’elaborazione di una peculiare proposta «populista» in opposizione al liberalismo, inteso tanto nella variante liberista quanto in quella liberal.

La critica di Lasch al liberalismo di stampo newdealista, come mostra il volume, rappresentava, almeno in parte, una deviazione rispetto al retaggio famigliare, maturata, durante gli studi storici alla Columbia University negli anni Cinquanta, anche per la lettura di liberal realisti che avevano messo in discussione l’impianto tecnocratico affermatosi negli anni di F.D. Roosevelt: il teologo agostiniano Reinhold Niebuhr, il diplomatico architetto del containment George F. Kennan, gli storici Arthur Schlesinger Jr. e Richard Hofstadter. Proprio l’impostazione psichiatrica con cui quest’ultimo, autore di Anti-intellectualism in American Life e di The Paranoid Style in American Politics, era solito indagare le dinamiche della società statunitense attribuendo all’élite liberale, presuntamente «disinteressata» e priva di preconcetti, una missione «orto-pedagogica» nei confronti di una popolazione di «red-necks», sarebbe però divenuto uno dei bersagli privilegiati dell’analisi di Lasch, che si sarebbe nutrita, tra l’altro, del sospetto di Theodor Adorno e Max Horkheimer verso il razionalismo politico e delle critiche di Charles Wright Mills alle strutture di potere burocratico nelle società capitalistiche. Sebbene questi ultimi riferimenti fossero tra i precursori riconosciuti della New Left, Lasch non avrebbe del resto mancato di mettere alla berlina la carica nichilistica ravvisata in quel movimento al quale aveva brevemente guardato con favore.

Al suo biasimo per i progetti di ingegneria sociale degli esperti, già presente in The New Radicalism in America (1965), contribuiva infatti la preoccupazione per la «frammentazione» e per il «declino del senso di comunità» che essi, a suo parere, provocavano in seno alla società di massa, a partire dall’ambito famigliare. Rimarca Marsonet che l’istituto della famiglia – a cui fu dedicato il volume dall’emblematico titolo Rifugio in un mondo senza cuore (1977) – rappresentò per Lasch «il tema di una vita», poiché in essa individuava l’alveo per lo «sviluppo della personalità individuale ed educazione all’esercizio responsabile della libertà e della scelta morale». Aristotelicamente nucleo iniziale dell’intera società, la famiglia forniva sia il primo contesto educativo nel quale si trasmetteva una visione morale che cementava i legami intergenerazionali sia la sfera in cui i futuri cittadini adulti maturavano gli elementi caratteriali indispensabili all’«autogoverno»: innanzitutto l’autocontrollo, l’indipendenza di giudizio e di azione, la dedizione e la solidarietà concreta.

La famiglia, agli occhi di Lasch, si dissolveva, aggredita dalle mire razionalizzatrici dei liberals, dalle prospettive «liberazioniste» ed emancipatrici della sinistra radicale e dall’avanzata del mercato che, benché indifferente a qualsiasi retaggio storico, era sostenuta dai conservatori americani. Ma la disgregazione di quel fondamentale corpo intermedio era una tappa della più generale tendenza alla polarizzazione della società che, in effetti, aveva inquietato alcuni spiriti liberali di fronte all’avvento della democrazia moderna. In basso pareva diffondersi la massa di «io minimi», individui «narcisisti» privi di una bussola morale, i quali, piuttosto che dare sfogo a pulsioni espansionistiche, avrebbero attestato fragilità caratteriali, incapacità di autodeterminarsi e dipendenza nei confronti di una nuova sovrastante autorità deputata a dirigerla paternalisticamente. Utilizzando le parole di Tocqueville, nel cui solco è giustamente collocato l’americano, la liberazione dei soggetti celava l’edificazione di un «potere immenso e tutelare che si incarica di assicurare loro il godimento dei beni e di vegliare sulla loro sorte», anche nelle forme, Lasch avrebbe deprecato, di un affidamento al welfare state che concorreva a deresponsabilizzare gli individui.

Lasch, allora, appare consapevolmente concorde con la convinzione di Edmund Burke, secondo cui «la società non può esistere se non viene posto da qualche parte un potere di controllo sulla volontà e sull’appetito; e quanto meno ve n’è dentro l’uomo, tanto più deve esservene di fuori». Il cittadino avrebbe dovuto dotare la propria «infrastruttura morale di base» del controllo interiore che concedesse di ricreare relazioni politiche e sociali autenticamente democratiche, nelle quali la maggiore libertà individuale fosse compatibile con la maggiore collaborazione sociale. Ciò significava, per Lasch, riconoscere la necessità dei «vincoli» racchiusi nelle tradizioni morali e religiose – in particolare nel cristianesimo – che la tradizione razionalistica e illuministica con troppa superficialità aveva reputato oltrepassate dall’implacabile marcia del progresso. Oltre a provvedere un riparo «in un mondo tormentato», la religione sarebbe stata lo strumento migliore per tenere a bada l’«autocommiserazione» e per contenere la hybris e gli appetiti umani. Tale aspetto francamente conservatore cela forse un debito nei confronti della perorazione di quel «freno vitale» che l’harvardiano Irving Babbitt, nei primi decenni del Novecento, aveva ritenuto potesse apportare un equilibrio nel pensiero e nella condotta dei membri delle società liberali secolarizzate. E d’altra parte l’esigenza di una legge superiore era stata avanzata anche da Walter Lippmann – che Marsonet ricorda influente in alcune fasi del percorso di Lasch – quale inderogabile conforto alle norme positive che avrebbero inquadrato le più libere relazioni della Good Society immaginata per il secondo dopoguerra.

A questo proposito, giacché siamo condotti nei dintorni del Colloque Walter Lippmann, sono assai interessanti le pagine dedicate alla prospettiva politico-economica di Lasch. Infatti vi si sottolinea che, mantenendo una costante avversione sia nei riguardi delle dinamiche capitalistiche sia della collettivizzazione, il critico sociale sosteneva una «radicale decentralizzazione» fondata sulla cooperazione volontaria tra piccoli proprietari. Ciò, mentre lo connetteva idealmente alle elaborazioni ordoliberali di Wilhelm Röpke, lo portava a rivalutare esplicitamente alcuni capisaldi del controverso distributismo britannico di Hilaire Belloc e Gilbert K. Chesterton e la variegata e fallimentare esperienza del movimento populista, insorto negli Stati Uniti di fine Ottocento per opporsi al consolidamento del governo federale, alla concentrazione dei capitali, allo sviluppo della finanza moderna e al lavoro salariato, con l’«idea fantastica» di «imporre un ordine morale sull’economia di mercato».

Che questa visione fosse argomentata in Il paradiso in terra (1991), giusto all’indomani delle presidenze reaganiane, conferma chiaramente l’ostinata resistenza di Lasch alle correnti del proprio tempo. Eppure in una tarda prolusione rivolta agli studenti dell’Università di Rochester, benché avvertisse che il nuovo secolo sarebbe stato «molto meno piacevole» del precedente, egli più della disperazione o dell’ottimismo evocava la «voce della speranza» che avrebbe permesso alle future generazioni di affrontare le difficoltà apparentemente insormontabili che avrebbero incontrato. Un auspicio, questo, che dovrebbe impedire di confinarne al «nostalgismo» l’eredità intellettuale, nota Marsonet, il cui puntuale lavoro ci consente di apprezzare le tante sfaccettature di un pensiero irriducibile a pochi e male intesi concetti.

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