Alessandro Della Casa (1983) è dottore di ricerca in Scienze storiche e dei Beni Culturali e assegnista presso l’Università della Tuscia. Ha conseguito l’abilitazione a professore di II fascia in Storia delle dottrine e delle istituzioni politiche (2022-2032). È autore di numerosi articoli e delle monografie Contro la tirannia della maggioranza. La democrazia secondo John Stuart Mill (il Prato, 2009), L’equilibrio liberale. Storia, pluralismo e libertà in Isaiah Berlin (Guida, 2014), Isaiah Berlin. La vita e il pensiero (Rubbettino, 2018) e La dinamo e il fascio. Volt, l’ideologo del futurismo reazionario (Sette Città, 2022). Nel 2022 ha ricevuto il Premio Isaiah Berlin - Monografie e il Premio Dino Garrone.

Recensione a
K. Hiruta, Hannah Arendt and Isaiah Berlin: Freedom, Politics and Humanity
Princeton University Press, Princeton-Oxford 2021, pp. 288, € 35.00.

In una lettera del 1991, a proposito di Hannah Arendt, scomparsa da oltre tre lustri, l’ottantunenne Isaiah Berlin confessava: «È davvero la mia bête noire […]. Guardo a lei proprio come a ciò che detesto maggiormente». Per parte sua, la filosofa si era sempre limitata a ricambiarlo con indifferenza o con sospetto. Nel volume Hannah Arendt and Isaiah Berlin: Freedom, Politics and Humanity (Princeton University Press, Princeton-Oxford 2021), Kei Hiruta, assistant professor allo Aarhus Institute of Advanced Studies e già autore di una monografia sull’allieva di Martin Heidegger, indaga tale conflitto ripercorrendone dapprima i principali passaggi e offrendo, poi, un puntuale confronto tra le posizioni politiche e intellettuali dei due pensatori, al fine di individuare le motivazioni profonde che avevano generato o quantomeno alimentato l’insofferenza reciproca.

La conoscenza tra i due filosofi ebrei era avvenuta nel 1941 a opera del sionista tedesco Kurt Blumenfeld a New York. Nella città, Berlin lavorava da un anno come attaché per conto del governo di Londra impegnato nella guerra contro l’Asse. Arendt era da poco giunta in America da Parigi, che prima dell’occupazione nazista le aveva offerto un primo rifugio nel 1933 dalla natia Germania, dove aveva subito un breve arresto per l’attività di propaganda illegale nella quale l’aveva coinvolta lo stesso Blumenfeld. Probabilmente anche perché era impegnata nella creazione di un esercito ebraico, e dunque era incidentalmente prossima alle rivendicazioni dei sionisti revisionisti di Vladimir Jabotinsky, Arendt non aveva fatto una buona impressione su Berlin, che viceversa cercava, segretamente e a fatica, di conciliare i compiti dell’incarico diplomatico e la collaborazione alle finalità del sionismo moderato e gradualista di Chaim Weizmann. «Il fanatico nazionalismo ebraico» di Arendt, egli avrebbe ricordato in seguito, «era troppo per me».

Né il rapporto migliorò quando si rividero a Harvard nel 1949, auspice lo storico Arthur Schlesinger Jr., il quale definì l’incontro «un disastro sin dal principio»: Arendt aveva trovato «frivolo» Berlin, che l’aveva giudicata eccessivamente «teutonica, hegeliana». A colpire particolarmente quest’ultimo, però, fu che l’altra, a causa di quella che egli iniziò a ritenere una forma di Jüdische Selbsthass, avesse radicalmente mutato opinione sulla causa nazionale ebraica e, giunta ormai alla contestazione della forma di Stato-nazione, avesse biasimato la neonata Israele.

Nel 1958 l’editore Faber & Faber domandò a Berlin un parere sull’opportunità di acquistare i diritti per il mercato anglosassone dell’arendtiano The Human Condition. La risposta del neonominato Chichele Professor of Social and Political Theory a Oxford fu perentoria: il libro si basava su una serie di «distinzioni arbitrarie» e mal ragionate, forse per l’«inadeguata padronanza dell’inglese» da parte dell’autrice. E l’edizione inglese non si fece. Molto tempo dopo, ritornando a parlare del volume, Berlin riferì di averne letto solo una parte e di averla trovato «storicamente insensata». I lavori della collega, avrebbe più volte ripetuto, per lui erano una sequela di «libere associazioni metafisiche».

L’apice dell’ostilità berliniana, però, si raggiunse a proposito di Eichmann in Jerusalem (1963), nel quale Arendt rielaborava in forma di monografia i propri reportage per il «New Yorker» sul processo ad Adolf Eichmann, l’ex tenente colonnello delle SS catturato in Argentina dal Mossad. In alcune lettere a suoi conoscenti, tra cui Teddy Kollek, stretto collaboratore del premier David Ben Gurion, Berlin aveva confidato i propri dubbi sull’opportunità che Israele processasse Eichmann e, diversamente da Arendt, si era detto contrario alla prevedibile (e in effetti eseguita) condanna a morte dell’imputato, perché temeva che ciò avrebbe isolato Israele sul piano internazionale e avrebbe spinto a credere che il popolo ebraico fosse definitivamente risarcito per la Shoah. E fu ancora attraverso carteggi privati che egli prese parte alle polemiche che si scatenarono alla pubblicazione del libro di Arendt, la quale ritenne di essere vittima di una violenta «campagna organizzata» ai propri danni dall’establishment ebraico. Berlin, che a quell’ambiente non era certo estraneo, condivise le critiche che erano state generalmente mosse al libro: Eichmann era stato un fervente nazista e un convinto antisemita, non un “banale” esecutore di ordini superiori, ed era assolutamente riprovevole tacciare di complicità nello sterminio i capi delle comunità ebraiche, tanto più che essi erano stati costretti a scegliere se destinare alla morte l’intera loro comunità oppure salvarne una parte in cambio della consegna di alcuni nominativi ai nazisti.

Di fronte a tale «dilemma» estremo, pretendere di dispensare giudizi astratti in base alle «normali categorie morali» gli pareva segno di «indicibile arroganza». Probabilmente si adoperò inoltre affinché sulla rivista «Encounter» uscisse in inglese lo scambio epistolare tra Arendt e Gershom Scholem – che aveva accusato la sua corrispondente di scarso «amore» per il proprio popolo – e suggerì un’anonima stroncatura del volume pubblicata sul «Time Literary Supplement». Di fronte alle implicazioni del caso Eichmann, certo appare di minore rilievo che, l’ultima volta che i due pensatori si incontrarono, relatori nel 1967 a un convegno sulla rivoluzione d’ottobre organizzato a Harvard da Richard Pipes, Berlin avesse fatto allusioni sulla impreparazione dimostrata dalla collega circa la storia politica della Russia.

Il dissidio tra Arendt e Berlin celava effettivamente un conflitto che valicava gli ambiti ristretti dell’antipatia personale. Hiruta dimostra l’incidenza che avevano avuto le differenti origini (una famiglia di ebrei russofoni sionisti e di discendenza rabbinica, per Berlin; una famiglia di ebrei tedeschi laici e progressisti, per Arendt) e le circostanze dell’emigrazione (per il primo, ancora bambino, organizzata con cura dai genitori per sottrarsi alle imposizioni dei bolscevichi; per la seconda, in età già adulta, per sfuggire con urgenza alle persecuzioni naziste) sulle successive prese di posizione. Queste compendiavano più di una antitesi in seno alla storia e alla cultura occidentali: tra la rivoluzione fenomenologica ed esistenzialistica e la rivoluzione analitica; tra l’accento posto su una natura umana pienamente realizzata nell’esercizio politico della libertà e l’insistenza sulla necessità di arricchire e tutelare la concreta esistenza individuale, attraverso un’area sottratta all’interferenza della società e dello Stato (e ciò si sarebbe riflettuto nelle divergenti reazioni verso le ribellioni degli studenti americani negli anni Sessanta: guardate con ottimismo da Arendt, per Berlin erano una manifestazione di iperpoliticizzazione «barbarica» e «nichilista»); tra i modelli di società – le due «isole di libertà», nella formula di Hiruta – che, nell’ottica idealizzante degli stranieri bene accolti, erano stati assunti come metro di paragone più o meno esplicito per giudicare la bontà di altri sistemi e modi di vita: l’America arendtiana, ancora ricolma dello «spirito rivoluzionario» dei padri costituenti, e la solida e tollerante Inghilterra berliniana, devota ai princìpi di prudenza e di continuità.

Ovviamente, nel corso del raffronto, Hiruta approfondisce con acutezza tematiche di non poco interesse, che sicuramente concorsero a confermare l’avversione di Berlin per Arendt, ma probabilmente non la esacerbarono al punto di farla perdurare anche oltre l’esistenza in vita di lei. Tale atteggiamento ricorda in forma amplificata, come l’autore registra, quello riservato allo storico ebreo di origine polacca Isaac Deutscher – marxista critico del nazionalismo ebraico e lodatore della tradizione “eretica” dell’«ebreo non ebreo» –, al quale Berlin aveva contribuito a precludere un incarico accademico per ragioni che aveva detto tanto personali quanto politiche, aggiungendo però di non avere particolari preclusioni verso gli studiosi di sinistra o dichiaratamente marxisti.

Probabilmente a giocare la parte del leone anche nella vicenda oggetto del libro furono proprio quelli che Berlin considerava i travagliati rapporti di Arendt con l’appartenenza ebraica e con il sionismo. Se ne ha una traccia nella lettera che Berlin inviò a Mary McCarthy nel 1964: lì spiegava di credere che il fine propostosi da Arendt con Eichmann in Jerusalem non fosse stato la ricerca della «verità», ma l’imposizione di un «atto di autoflagellazione» per la passata militanza sionista; ed egli dubitava fosse stato «giusto farlo così tanto in pubblico». Berlin, insomma, da un lato pareva paventare che il presunto “odio di sé” di Arendt mettesse in dubbio la funzione “normalizzatrice” della condizione ebraica da lui attribuita alla stessa nascita di Israele. Dall’altro gli appunti da lei mossi a Israele dovevano confliggere intollerabilmente con l’astensione dalla critica pubblica che, a giudizio di lui, gli ebrei della diaspora avrebbero dovuto osservare – e lo stesso Berlin la osservò almeno fino all’ascesa del Likud, nella metà degli anni Settanta – per tutelare una nazione che egli considerava costantemente sotto assedio. «Il posto per criticare la politica dello Stato d’Israele, almeno per gli ebrei,» avrebbe infatti scritto nel 1973, tornando a riflettere sul processo a Eichmann, «è a Gerusalemme piuttosto che a Londra e a New York».

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