Alessandro Della Casa (1983) è dottore di ricerca in Scienze storiche e dei Beni Culturali e assegnista presso l’Università della Tuscia. Ha conseguito l’abilitazione a professore di II fascia in Storia delle dottrine e delle istituzioni politiche (2022-2032). È autore di numerosi articoli e delle monografie Contro la tirannia della maggioranza. La democrazia secondo John Stuart Mill (il Prato, 2009), L’equilibrio liberale. Storia, pluralismo e libertà in Isaiah Berlin (Guida, 2014), Isaiah Berlin. La vita e il pensiero (Rubbettino, 2018) e La dinamo e il fascio. Volt, l’ideologo del futurismo reazionario (Sette Città, 2022). Nel 2022 ha ricevuto il Premio Isaiah Berlin - Monografie e il Premio Dino Garrone.

Recensione a: Y. Mounk, The Identity Trap: A Story of Ideas and Power in Our Time, Penguin Press, New York 2022, pp. 416, € 30,87.

Una delle convinzioni prevalenti del pensiero progressista novecentesco, scrive Yascha Mounk in The Identity Trap: A Story of Ideas and Power in Our Time, era «che gli esseri umani avessero lo stesso valore indipendentemente dal gruppo di appartenenza» e che «la missione della sinistra consistesse nell’espandere il circolo della simpatia umana oltre i confini della famiglia, della tribù, della religione e dell’etnia», proponendosi la realizzazione di «ideali universali come la giustizia e l’uguaglianza».

Favoriti dalla crisi del marxismo, e con crescente rapidità nello scorso decennio, quei princìpi, nei quali il politologo tedesco-americano è stato allevato, sono stati affiancati e poi scalzati dal «nuovo trend ideologico» della identity synthesis. All’universalismo, infatti, si sarebbe sostituito il ripudio dell’«esistenza della verità oggettiva», e l’obiettivo di una «società più armoniosa» avrebbe fatto spazio all’orgoglioso «richiamo all’etnia e alla religione», al «tribalismo».

Giudicandola per le società liberali e democratiche (di quella statunitense, in particolare) una minaccia solo apparentemente speculare a quella incarnata dal populismo autoritario e dalla destra illiberale indagati in Popolo vs. democrazia e Il grande esperimento, Mounk convenzionalmente indica la scaturigine della «svolta identitaria» nel postmodernismo francese. A partire dalla teoria del discorso di Michel Foucault, con la sua analisi delle categorie identitarie quali strumenti per normare e strutturare le forme di dominio sociale, e dalla confutazione di Jean-François Lyotard alle «grandi narrazioni», spinta fino allo scetticismo nei riguardi delle verità universali, tanto morali quanto scientifiche.

Alla riflessione foucaultiana era risalito il comparatista Edward Said interpretando, nel 1978, l’orientalismo quale disciplina tesa non a scoprire l’altro da sé orientale, ma a foggiarlo, incasellarlo e reificarlo, per consentire il controllo e l’egemonia culturale, politica ed economica occidentale. Lo stesso impulso allo smascheramento delle pratiche linguistiche di dominio si ritrova nella filosofa indiano-statunitense, influenzata dal decostruzionismo derridiano e ritenuta tra i fondatori dei Postcolonial Studies, Gayatri Chakravorty Spivak. Con lei si sarebbe compiuta una manovra che Mounk valuta decisiva per lo sviluppo della sintesi identitaria. Benché insostenibili costrutti teorici, i «marcatori d’identità», e l’essenzialismo da essi veicolato, avrebbero dovuto essere adottati strategicamente (ma, annota Mounk, avrebbero finito per farsi elemento strutturale della nuova ideologia) allo scopo di suscitare negli individui il senso di appartenenza ai gruppi subalterni e muoverli allo smantellamento delle «“narrazioni di sfruttamento” dell’Occidente».

Alle medesime fonti aveva attinto anche Derrick Bell – nel 1971 primo docente di legge afroamericano a Harvard –, rivendicando «diritti di gruppo» e trattamenti pubblici differenziati sulla base del colore, essendo deluso dall’incapacità di pervenire a una reale equità e a un superamento del razzismo da parte della piattaforma integrazionista di Martin Luther King e delle politiche liberal di desegregazione, volte, a suo parere, solo a modernizzare l’economia degli Stati meridionali e a cementare la società americana nella competizione geopolitica con l’Urss.

Il testimone di Bell era stato raccolto dalla sua allieva Kimberlé Crenshaw, fondatrice della Critical Race Theory e teorica della posizionalità e dell’«intersezionalità»: percezioni e giudizi dipendono dalla «conoscenza situata» di ciascun soggetto, modellato dall’«intersezione di differenti identità» (culturali, etniche, di genere, di abilità, di classe). Mounk rileva che, per un verso, tali concezioni hanno comportato la fiducia nella necessaria solidarietà tra tutte le lotte delle collettività marginalizzate, d’altro canto la negazione di una «prospettiva neutrale» è stata esasperata fino a un radicale soggettivismo, postulando l’«incommensurabilità» e l’«incomunicabilità» dell’esperienza tra i soggetti e i gruppi identitari.

La fusione di queste formulazioni, talvolta estremizzate rispetto a quanto inteso dai loro primi teorizzatori – alcuni dei quali avrebbero effettivamente preso le distanze dall’uso fattone –, dopo essersi fatta strada nei campus americani, ha iniziato una «lunga marcia attraverso le istituzioni», i luoghi di lavoro, le corporations e i principali mezzi di stampa, monopolizzando l’opposizione all’amministrazione Trump.

Per Mounk, però, gli elementi combinati della identity synthesis presentano fallacie e contraddizioni che ne fanno una «trappola» per i loro stessi fautori e per l’intero fronte progressista, come già alcuni anni addietro aveva rimarcato Mark Lilla in The Once and Future Liberal. Ad esempio, l’esclusione a priori della comprensione tra esseri umani che hanno appartenenze differenti revoca il riconoscimento – o persino la ricerca – di un terreno morale transculturale che permetta lo sforzo empatico indispensabile alle pratiche solidali, nega la natura processuale e discorsiva di ogni cultura, il dialogo, il confronto e l’arricchimento reciproci. Le ingiunzioni all’embrace race e le pratiche di «separatismo progressista», attuate in alcune istituzioni educative private, ribaltano poi la prospettiva dell’integrazione nel comune tessuto sociale e misconoscono l’istanza dell’autoascrizione volontaria di ciascun individuo, la cui libertà di scelta risulta coartata. Così, asserisce il politologo, non soltanto viene impedito il superamento dei pregiudizi e dei conflitti attraverso la collaborazione intergruppo tra pari, ma è deliberatamente rafforzata l’autoidentificazione della medesima popolazione bianca sulla base del colore. Ciò che, a dispetto di quanto preconizzato da alcuni teorici della politica dell’identità, difficilmente spingerà i bianchi a lottare contro i privilegi di cui, proprio per il fatto di essere bianchi, sono accusati di essere portatori.

«Le politiche pubbliche sensibili alla razza», applicate anche in contesti nei quali altri dovrebbero essere gli eventuali parametri preferenziali – nel libro ci si sofferma soprattutto su quello sanitario –, tendono allora «a consolidare le divisioni tra i differenti gruppi identitari» in competizione perpetua, «aumentando le probabilità di futuri conflitti» e rendendo «più arduo supportare un generoso welfare state», favorito viceversa dalla convinzione di appartenere a una comunità coesa e non frammentata.

La identity synthesis, insomma, allontanerebbe la meta prefissata dell’equità, che Mounk, pur non negandone le imperfezioni, reputa ancora meglio conseguita e ulteriormente implementabile all’interno del modello liberale, e in virtù degli assunti del liberalismo contestati dalla politica dell’identità: l’uguaglianza di dignità, di diritti e di doveri di ognuno, da cui discendono le regole della «democrazia», la difesa della «libertà individuale», la limitazione dell’«autorità dello stato» e l’insistenza sull’universalità dei valori e sulla neutralità delle regole. In questo nucleo di princìpi, secondo il politologo, si riconosce ancora la «maggioranza ragionevole» degli americani e attorno a esso potrebbe tatticamente raggrupparsi un’ampia porzione trasversale dello spettro politico-culturale. O almeno coloro che sono intenzionati «a impegnarsi per una società in cui categorie come razza, genere e orientamento sessuale contano molto meno di quanto facciano ora, perché ciò che ciascuno di noi può raggiungere – e il trattamento reciproco tra tutti – non dipende più dal gruppo in cui siamo nati», e affinché «quello che abbiamo in comune in ultimo diventi più importante di quello che ci divide».

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