Alessandro Della Casa (1983) è docente a contratto di Storia del pensiero politico presso l’Università della Tuscia. Ha conseguito l’abilitazione a professore di II fascia in Storia delle dottrine e delle istituzioni politiche (2022-2033). È autore di numerosi articoli e delle monografie Contro la tirannia della maggioranza. La democrazia secondo John Stuart Mill (il Prato, 2009), L’equilibrio liberale. Storia, pluralismo e libertà in Isaiah Berlin (Guida, 2014), Isaiah Berlin. La vita e il pensiero (Rubbettino, 2018) e La dinamo e il fascio. Volt, l’ideologo del futurismo reazionario (Sette Città, 2022). Nel 2022 ha ricevuto il Premio Isaiah Berlin - Monografie e il Premio Dino Garrone.

«Oggi la battaglia per la libertà d’espressione cambia a seconda di chi la combatte. Entrambe le fazioni [conservatori e liberal] difendono la libertà di dire ciò che si vuole, purché ciò che si vuole sia ciò che vogliono loro», scrive Federico Leoni in America contro. Gli Stati Uniti e la crisi della democrazia (Paesi Edizioni, Roma 2023) circa quello che è uno dei temi che vedono una polarizzazione del dibattito al di là dell’Atlantico.

La disputa sul primo emendamento della Costituzione americana è divenuta tanto più accesa ed estesa, dopo la risposta militare del governo di Tel Aviv ai massacri compiuti da Hamas il 7 ottobre 2023. In dicembre le presidentesse di Harvard, del Massachusetts Institute of Technology e della Pennsylvania State University erano state convocate dal Congresso per non aver condannato con sufficiente chiarezza gli episodi di antisemitismo avvenuti nei loro campus; nelle scorse settimane Minouche Shafik, president della Columbia University, è invece finita sotto l’attacco incrociato di docenti e di studenti, di entrambi gli schieramenti politici e delle organizzazioni che combattono l’antisemitismo. Le accuse che le vengono mosse sono di differente segno. Per un verso, non avrebbe saputo rendere il proprio ateneo un ambiente sicuro per la popolazione studentesca di origine ebraica. Per l’altro, avrebbe violato i diritti degli studenti e la libertà accademica, dapprima avendo negoziato con il Congresso le sanzioni da comminare a studenti e professori che avevano invocato pubblicamente la liberazione del territorio palestinese “dal fiume al mare” – ossia la sparizione di Israele – e, poi, avendo richiesto l’intervento della polizia per effettuare arresti tra i protestatari del Gaza Solidarity Encampment.

Alcune implicazioni di questi avvenimenti sono esaminate dallo storico della cultura Louis Menand nell’articolo Academic Freedom Under Fire, pubblicato sul «New Yorker» (29 aprile). L’Autore reputa innanzitutto allarmante, più che l’arresto degli studenti protestatari («dopo tutto, gli studenti volevano essere arrestati»), la loro sospensione e la preclusione a frequentare le lezioni: vale a dire il venire meno alle finalità educative dell’università, peraltro costretta a reintrodurre la didattica a distanza. Per Menand è il segno più evidente del rischio che corre la libertà accademica, intesa come la produzione di «studi e insegnamenti che vadano ad arricchire il bagaglio di conoscenze» in un contesto di isolamento dalle «interferenze esterne», economiche o politiche. Un’eredità, questa, della Lehrfreiheit affermatasi nella Germania ottocentesca. Essa, si spiega (ma Immanuel Kant probabilmente non sarebbe del tutto d’accordo), «proteggeva ciò che i professori scrivevano all’interno (ma non all’esterno) dell’accademia» dall’ingerenza pubblica, e fu trasposta nel contesto statunitense per tutelare i docenti dalle intromissioni dei finanziatori privati.

La vigilanza sull’ammissibilità delle opinioni, dunque, dovrebbe essere affidato agli stessi membri delle facoltà, che «giudicano il lavoro dei loro colleghi e decidono chi assumere, chi licenziare e cosa insegnare» in base al rispetto delle norme dell’indagine accademica:

Tutti i punti di vista e tutte le ipotesi devono essere testati in modo equo e il loro successo dipende interamente dalla capacità di persuadere con prove e argomentazioni razionali. Non sono ammessi giudizi a priori e non ci si può appellare a un’autorità superiore.

La comunità universitaria, dunque, di fronte alle recenti manifestazioni avrebbe dovuto trovare il «modo di controllarsi da sola», tollerando la «maggior parte delle forme di espressione», ma vietando «gli scontri fisici, le minacce o le molestie e l’interruzione delle attività». L’evolversi degli eventi, invece, dando l’impressione che i «campus fossero fuori controllo», avrebbe minato la fiducia nel funzionamento del sistema e dei suoi protocolli e avrebbe aperto un ulteriore varco per chi mira a estendere il controllo politico sulla vita e sulla didattica degli atenei, sulla falsariga di quello che gli Stati attuano nelle scuole primarie e secondarie.

Certo, puntualizza Menand, non poco controverso è l’argomento che la libertà accademica contempli la tutela della didattica laddove sia intesa come «indottrinamento». Ancora più ardua egli ritiene la definizione, e perciò la protezione, della «libertà di imparare».

Alcuni studenti – scrive – riferiscono di non sentirsi liberi di esprimere le proprie opinioni, perché ciò che dicono potrebbe essere recepito come offensivo o lesivo da altri studenti, e i docenti si trovano a riconsiderare i testi che assegnano, perché gli studenti potrebbero rifiutarsi di confrontarsi con opere che ritengono politicamente discutibili. Gli insegnanti temono di essere denunciati anonimamente e di essere sottoposti a un’indagine istituzionale. Istruttori e studenti possono anche, inutile dirlo, subire un processo da parte dei social media. Non sono condizioni di lavoro ottimali per il business della conoscenza. Si può perdere la discussione in un confronto accademico, ma bisogna sentirsi liberi, in aula, di dire la propria senza essere sanzionati.

Paradossalmente, si sottolinea nell’articolo, tale situazione è anche una conseguenza inintenzionale delle norme emanate a partire dalla metà degli anni ’60 per tutelare i diritti civili e condizioni di parità, che però hanno finito per alimentare quello che i critici chiamano il regime del coddling (letteralmente, “delle coccole” o “del viziare”). «Le persone che dicono di sentirsi “insicure” solo per il fatto di trovarsi in una stanza con qualcuno con cui non concordano ricevono le risorse per chiedere che venga fatto qualcosa», e le vittime di discriminazione possono portare in giudizio gli atenei, e non i responsabili individuali, per gli abusi patiti: «Le università vivono nel costante timore di essere portate in tribunale perché qualcuno è stato trattato in modo diverso».

Del resto, allorché concepita come impegno alla riproduzione di opinioni meramente ereditate o di ruoli perlopiù ascritti, la stessa interpretazione della «diversità» finisce per porre un ostacolo all’educazione liberale:

Se si dice agli studenti che sono stati ammessi in parte a causa della loro razza, nell’interesse della diversità dei punti di vista, essi potrebbero pensare che ci si aspetta che rappresentino i punti di vista che si presume abbiano i membri del loro gruppo razziale. Pensare in questo modo è antitetico all’obiettivo tradizionale dell’educazione liberale, che è quello di portare gli studenti a pensare fuori dagli schemi in cui sono nati.

Lo sgombero dell’occupazione della Hamilton Hall della Columbia da parte della polizia newyorkese e le manifestazioni che coinvolgono gli atenei della Ivy League riecheggiano quanto avvenne nel 1968, in occasione delle contestazioni contro il coinvolgimento degli Stati Uniti – all’epoca amministrati dal democratico Lyndon Johnson – nella guerra in Vietnam. E, come notato da vari commentatori, possono similmente far presagire una crescita dei consensi per i Repubblicani nelle presidenziali di novembre. Ma le questioni coinvolte sono più rilevanti di quelle riportate dalla cronaca o delle previsioni elettorali: vanno a toccare i nervi scoperti e le contraddizioni della società liberale e democratica, e non soltanto di quella americana.

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