Alessandro Della Casa (1983) è dottore di ricerca in Scienze storiche e dei Beni Culturali e assegnista presso l’Università della Tuscia. Ha conseguito l’abilitazione a professore di II fascia in Storia delle dottrine e delle istituzioni politiche (2022-2032). È autore di numerosi articoli e delle monografie Contro la tirannia della maggioranza. La democrazia secondo John Stuart Mill (il Prato, 2009), L’equilibrio liberale. Storia, pluralismo e libertà in Isaiah Berlin (Guida, 2014), Isaiah Berlin. La vita e il pensiero (Rubbettino, 2018) e La dinamo e il fascio. Volt, l’ideologo del futurismo reazionario (Sette Città, 2022). Nel 2022 ha ricevuto il Premio Isaiah Berlin - Monografie e il Premio Dino Garrone.

Recensione a: J. Kekes, Moderate Conservatism: Reclaiming the Center, Oxford University Press, New York 2023, pp. 264, € 31,58.

Girando e girando nella spirale che si allarga

Il falco non può udire il falconiere

Le cose crollano; il centro non può reggere;

Mera anarchia è scatenata sul mondo;

La corrente torbida di sangue è scatenata, ovunque

Il rito dell’innocenza è sommerso;

Ai migliori manca ogni convinzione, mentre i peggiori

Sono pieni di appassionata intensità.

I versi con cui nel 1919 William Butler Yeats testimoniava il presagio apocalittico di una Seconda venuta ricorrono frequentemente nelle analisi delle epoche ritenute critiche. I valori che, fino a quel momento, hanno informato e sorretto la convivenza perdono mordente e non sono più uditi per la contestazione di altri princìpi che intendono soppiantarli; la coesione (il centro) si frammenta. È allora necessario, o auspicabile, trovare un nuovo vocabolario morale condiviso o tentare di ammodernare o di restaurare quello che si sta lacerando, restituendo solidità alle relazioni sociali. Ad esempio, si richiamò a Yeats lo storico Hans Kohn, praghese trapiantato negli Stati Uniti, commentando la devastazione materiale e spirituale che stava deflagrando con l’espansionismo nazista. E ancora lo fece Arthur Schlesinger, nell’inedito scenario della Guerra fredda, teorizzando a vantaggio della coalizione democratica un vital center, per tanti versi coincidente al consensus trasversale che avrebbe retto per un ventennio, fino a quella che lo stesso harvardiano chiamò Crisis of Confidence.

I timori di Yeats e i fini di Schlesinger sono riattualizzati in Moderate Conservatism: Reclaiming the Center da John Kekes. Autore, nella seconda metà degli anni Novanta, di un dittico di volumi (Against Liberalism e A Case for Conservatism), nei quali registrava la forte contrapposizione in America tra il campo liberale e quello conservatore, e si schierava nel secondo, il filosofo afferma ora che, con il senno di poi, quelli aperti dalla caduta dei regimi socialisti appaiono «bei tempi». Agli Usa, unica superpotenza rimasta, il panorama globale e quello interno si offrivano perlopiù sgombri dalle minacce che si sarebbero fatte pressanti nel nuovo millennio. Liberali e conservatori, ancora sostanzialmente ali del medesimo centro moderato, «concordavano sulla fedeltà al sistema politico americano, alla Costituzione» e sull’impegno verso un nucleo di «beni politici primari». I fini, insomma, generalmente coincidevano; le divergenze, contenute entro i limiti di un’opposizione leale, riguardavano piuttosto sfumature interpretative, il peso specifico di tali beni e i mezzi per conseguirli. Eppure, mentre si manifestavano il terrorismo internazionale e cresceva il protagonismo cinese, lo spazio dei moderati si contraeva e prendevano il sopravvento, in ogni aspetto della completamente «politicizzata» vita statunitense, le speculari tendenze estremiste.

I «populisti a destra» e gli «egualitari a sinistra» appaiono a Kekes parimenti inflessibili nella convinzione che, in ogni occasione, debba pienamente imporsi, per ragioni morali e indipendentemente dal contesto, dalla congiuntura e dalle concrete possibilità, quello che le proprie teorie riconoscono come il «BENE» principale, fino a pretendere di riplasmare alla luce di questo l’intero assetto della società. Infatti, citando Adam Smith, Kekes scrive che l’estremista erige «il proprio giudizio a standard supremo di giusto e sbagliato»: dunque è indisponibile al dialogo, alla ricerca di accordi con gli avversari, che reputa nemici immorali e non appartenenti alla medesima comunità politica, e rifiuta la ragionevole mediazione, per tentativi ed errori, tra i valori, ossia la politica. Da qui discende l’esasperata conflittualità che, il filosofo paventa, rischia di porre termine al modello democratico costituzionale: se ciò avvenisse, «la mera anarchia» sarebbe «scatenata sul nostro mondo».

Pertanto il volume si propone di argomentare in favore della «visione politica pratica» (non una «teoria universale») del «conservatorismo moderato». Attraverso tale attitudine si affronterebbero i «problemi perenni» che la realtà presenta con crescente intensità, senza illudersi di eliminarli e tutelando, con continui aggiustamenti, il «vital center», lo sfondo morale un tempo comune alle varie anime nazionali e nel quale la «maggioranza apolitica» negli Stati Uniti tuttora si riconosce.

Chiamando a supporto il magistero di un ampio pantheon di pensatori – da Aristotele a Edmund Burke, da Michael Oakeshott a Peter Frederick Strawson –, Kekes sostiene che il «benessere» sociale dipende da due ordini di condizioni: le universali e le contestuali. Le prime sono composte dai «requisiti umani», le universali e basilari necessità della natura umana. Le seconde racchiudono beni politici e non politici, che i moderate conservatives giudicano al contempo correlati e vicendevolmente incompatibili nella loro pienezza, soggetti a variazioni di significato, rilevanza e modalità di soddisfazione scendendo dall’universale all’individuale, entro ogni livello della scala e in ragione delle esigenze del momento. La politica è allora chiamata a promuovere, entro i limiti e le possibilità delineate dai due ordini di condizioni, il rispetto dei requisiti umani e la tutela relativa dei beni politici, a partire da quelli che Kekes ritiene precipui nella vicenda americana: «rule of law, giustizia, uguaglianza legale e politica, libertà e proprietà privata».

L’opera della politica, però, sempre più spesso deve espletarsi in presenza di «situazioni caratterizzate da volatilità, incertezza, complessità e ambivalenza» (VUCA situations, nella terminologia degli studi strategici), che confutano l’utopia monistica e universalistica che si diano un unico corso e un unico parametro valoriale sempre applicabili e, in ultimo, latori di un’armoniosa soluzione ai problemi umani. A tali astratte e apodittiche convinzioni, i cui esiti potrebbero rivelarsi disastrosi, il filosofo contrappone un metodo giudicato più responsabile, che scompone il processo valutativo in tre stadi. Il primo attiene la «relativa importanza dei beni primari»; il secondo, i modes (i vari domini nei parametri dei quali la situazione specifica va analizzata) più consoni al soddisfacimento di essi; il terzo, «la protezione dell’intero sistema politico americano che include tutti i vari beni politici e non politici, le modalità di valutazione e le attitudini personali». In condizioni ordinarie come in più gravi frangenti, l’«arte della politica» deve compiere scelte «ragionevoli» che, tenendo conto delle esigenze e delle possibilità del momento, causino la «minore perdita» (giacché, quasi inevitabilmente, il guadagno da un lato comporta la decurtazione in un altro) tra i valori, i quali sono tutti «incorporati nel sistema politico» americano.

Kekes spiega che questo è la rete dei particolari significati attribuiti ai valori, delle loro gerarchie, delle regole e delle pratiche di comportamento formali e informali di una società. Ed è lungo tale rete, e grazie a essa, che si sviluppano le concezioni morali, le aspettative e le condizioni materiali di ciò che, in quel preciso contesto, si direbbe una “vita buona”. Per questo, il sistema politico ordinato è sia ciò che il conservatorismo moderato ritiene si debba proteggere sia il più sicuro «standard a cui ci possiamo affidare» per orientarci nelle scelte e calibrare i dosaggi tra i beni, dal momento che esso ha superato la «prova del tempo». Kekes precisa che ciò non implica che il sistema sia o debba essere immutabile. Anzi, proprio la «flessibilità», la capacità di accogliere parziali cambiamenti per venire gradualmente incontro alle mutevoli esigenze, ha permesso ai suoi «termini di cooperazione» di continuare ad attrarre il consenso trasversale di più generazioni di americani, che hanno preferito non rimpiazzarli con un’alternativa di società astrattamente elaborata né «abbandonarli», trasferendosi in un’altra società reputata più responsiva verso i propri interessi.

Se l’argomento del tacito consenso appare più vicino alla tesi del “plebiscito di tutti i giorni” di Ernest Renan, da David Hume già preventivamente criticato assieme alle teorie contrattualistiche, dichiaratamente humeano è il tenore dell’intero discorso di Kekes: «Un governo consolidato ha l’infinito vantaggio derivante dal fatto del suo avvenuto consolidamento […]. Procedere dunque a caso in questo problema, o tentare esperimenti sulla base di un ragionamento e di una filosofia presupposti, non potrà mai essere l’intendimento di un magistrato saggio, che avrà riverenza per quanto porta i segni del tempo; e, quantunque, possa tentare qualche cambiamento per il progresso del pubblico bene, tuttavia egli adatterà quanto più possibile le innovazioni alla struttura precedente, conservando l’integrità dei pilastri e dei sostegni principali della costituzione».

Restaurare una cornice morale condivisa, il centro vitale, contrastando la frammentazione e la polarizzazione accentuatesi negli ultimi decenni, dunque, è il presupposto per la pacifica declinazione di concezioni di vita e attitudini politiche differenti, ma capaci di contribuire al miglioramento della società. Pertanto quella di Kekes appare una proposta metapolitica degna di attenzione, anche oltre i margini del conservatorismo (e non sembra casuale che talvolta l’autore scriva più genericamente di moderates) e dei confini statunitensi.

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