Alessandro Della Casa (1983) è dottore di ricerca in Scienze storiche e dei Beni Culturali e assegnista presso l’Università della Tuscia. Ha conseguito l’abilitazione a professore di II fascia in Storia delle dottrine e delle istituzioni politiche (2022-2032). È autore di numerosi articoli e delle monografie Contro la tirannia della maggioranza. La democrazia secondo John Stuart Mill (il Prato, 2009), L’equilibrio liberale. Storia, pluralismo e libertà in Isaiah Berlin (Guida, 2014), Isaiah Berlin. La vita e il pensiero (Rubbettino, 2018) e La dinamo e il fascio. Volt, l’ideologo del futurismo reazionario (Sette Città, 2022). Nel 2022 ha ricevuto il Premio Isaiah Berlin - Monografie e il Premio Dino Garrone.

Recensione a: J.F. Kennedy, Ultimi discorsi, introduzione di G. Malgieri, Oaks editrice, Sesto San Giovanni 2023, pp. 296, € 24.

«Nessuno si aspetta che la nostra vita possa essere facile; certamente non in questo decennio, e forse nemmeno in questo secolo. Ma dovremo renderci conto di quali siano l’onere e la responsabilità che il popolo degli Stati Uniti ha sostenuto da tanti anni a questa parte», affermava John Fitzgerald Kennedy il 22 novembre 1963 a Fort Worth, poche ore prima di essere assassinato nella vicina Dallas.

A sessant’anni di distanza, quell’intervento si può leggere nel volume Ultimi discorsi, che convenientemente lo raccoglie assieme agli altri principali che il 35° presidente Usa tenne nel fatidico 1963 in cui si conclusero tragicamente l’esistenza di JFK e i poco più di “mille giorni” della sua amministrazione. Il volume consente di comprendere con un colpo d’occhio, come rileva Gennaro Malgieri nell’introduzione, la mistura di pragmatismo e visionarietà del disegno che Kennedy avrebbe inteso perseguire, tentando di contenere e convogliare a un nuovo proficuo slancio, con una sostanziale estensione della Nuova Frontiera oltre i confini statunitensi, le crescenti tensioni che si erano andate accumulando e che percorrevano tanto la società americana quanto il panorama globale.

Sul piano interno, a calamitare nel ‘63 buona parte dell’attenzione del presidente fu il processo di desegregazione razziale nel Sud, sostenuto dal crescente movimento per i diritti civili, contro il quale si era scatenata una feroce opposizione, giunta al ricorso a pratiche terroristiche e all’infanticidio. Certamente favorevole all’integrazione («La sfida è presente, la causa è giusta»), Kennedy provò a fare in modo che l’azione del governo federale non fosse percepita come un’indebita intromissione nella vita politica degli Stati né compromettesse l’alleanza tra l’anima settentrionale e l’anima meridionale del Partito democratico sino almeno dalla fine della guerra civile; ciò che portò a considerare timido, e poco più che formale, il suo impegno antirazzista. Se i discorsi kennediani recano traccia dell’imposizione al governatore democratico George Wallace di sciogliere la protesta per impedire l’immatricolazione di due giovani neri all’Università dell’Alabama, effettivamente l’opera legislativa fu accompagnata da una costante moral suasion che mirava a responsabilizzare le comunità locali nel superamento della segregazione. Questo, infatti, era presentato come un passaggio obbligato per l’inveramento degli «ideali americani», la conservazione della «pace del paese» e il conseguimento del «bene» delle stesse realtà maggiormente interessate dalla «difficile transizione». Perché gli Usa fossero fedeli alla libertà che predicava «nel mondo intero» – anche sostenendo la «smobilitazione del colonialismo» –, Kennedy proclamava nel corso di un discorso radiotelevisivo, «la razza» non avrebbe più potuto avere «posto nella vita o nella legge» e la Costituzione avrebbe dovuto essere «cieca di fronte al colore», garantendo l’uguaglianza delle opportunità a tutti i cittadini. Parole che, prima dell’emersione dei movimenti separatisti e dell’esasperazione della identity politics, dovevano sembrare ancora inappuntabilmente progressiste e che sarebbero risuonate, nell’agosto di quel medesimo anno, nel discorso tenuto da Martin Luther King sui gradini del Lincoln Memorial.

Sul versante internazionale, ovviamente monopolizzato dal confronto con l’Urss, l’eloquenza di Kennedy fu invece volta a rafforzare innanzitutto l’«unità dell’Occidente». Negli interventi che scandirono il viaggio nel Vecchio Continente, compiuto tra il 23 giugno e il 2 luglio, e in particolare le tappe tedesca, irlandese e italiana, Kennedy, come nota Malgieri, risalta l’enfasi sulla necessità di tutelare il comune patrimonio storico, morale, religioso delle due sponde del «mare nostrum» atlantico, unite nella condivisa civiltà occidentale ritrovata dopo il secondo conflitto mondiale. Saldata dal contributo fornito dagli emigranti europei alla costruzione materiale della società americana e dal retaggio intellettuale che ne aveva nutrito l’ethos ed era ancora lì inverato, per il presidente, quell’eredità si sostanziava nei princìpi di «libertà» («assenza di una tirannide esterna» ed estensione del «progresso economico e sociale») e «democrazia» («l’anteporre cioè l’individuo allo Stato, la comunità al partito e l’interesse pubblico all’interesse privato»).

Queste, JFK asseriva al comando militare della Nato a Napoli, costituivano invero la «meta dello sviluppo dell’umanità» intera. E gli Usa e l’Europa occidentale, di cui auspicava l’unificazione, egli affermò durante il ricevimento al Quirinale, avrebbero dovuto conservarsi «salde dimore di libertà, edifici che tutto il mondo possa ammirare e imitare, ma nei quali alcun tiranno possa mai penetrare». Un richiamo alla City upon a Hill, preconizzata per l’America dal puritano John Winthrop nel 1630, che, più celato, era già presente nel celebre discorso pronunciato il 26 giugno sulla piazza del municipio di Berlino Ovest. E a diversi commentatori sembrò che la situazione di quell’«isola fortezza della libertà» di cui ogni «uomo libero» avrebbe potuto dirsi cittadino, enclave in uno Stato costretto a costruire muri per impedire ai sudditi di fuggirne, avesse indotto Kennedy a una sin troppo dura reprimenda del sistema comunista, la quale pareva distanziarsi dai più concilianti toni del Peace Speech proferito un paio di settimane prima a Washington. Restava, però, che per il presidente la ricerca di una coesistenza pacifica non poteva prescindere dall’inflessibilità sui princìpi e dal mantenimento di polveri asciutte (e aumentate, ammodernate, potenziate, come egli vantava in vari interventi), sia pure non testate nell’atmosfera, secondo quanto avrebbe sancito in agosto il trattato tra le due superpotenze sulla messa al bando degli esperimenti nucleari nell’atmosfera.

I discorsi “europei” attestavano, a ogni modo, che, accanto agli arsenali, il baluardo alla penetrazione sovietica era individuato nel connubio inscindibile tra sviluppo economico, giustizia sociale (la “libertà dal bisogno”) ed istituzioni democratiche. Come il New Deal aveva salvato il capitalismo e la democrazia americane da possibili rivolgimenti indotti dalla crisi del ’29, come il Piano Marshall aveva consentito di riedificare e mantenere società libere e alleate sulle macerie dell’Europa dell’Ovest, così – postulava la “teoria della modernizzazione” – il sostegno americano all’avanzamento economico, scientifico e tecnologico dei paesi di recente decolonizzazione o dell’ancora “arretrato” Sud America, secondo la logica degli stadi sintetizzata da W.W. Rostow, avrebbe consentito di evitare il replicarsi della dinamica cubana, che nell’autunno dell’anno precedente aveva condotto sull’orlo del conflitto nucleare.  Ciò si evince chiaramente dalle parole kennediane per celebrare la fine della secessione in Congo, poi nella conferenza dell’Alleanza per il Progresso svoltasi in Costa Rica, fino all’intervento che il presidente non ebbe modo di declamare a Dallas:

La forza militare americana non può è non deve essere sola a contrastare le velleità del comunismo internazionale. La nostra forza dipende, in conclusione, dalla sicurezza e dalla forza altrui ed è per tale ragione che il nostro apporto militare ed economico riveste ed estrinseca un ruolo basilare nel porre in grado coloro che vivono alle frontiere del mondo comunista di preservare la propria libertà di scelta. Il nostro aiuto a questi Paesi può risultare difficile, rischioso e costoso. Ma non possiamo stancarci nel proseguimento di tale compito.

Le previsioni, convalidate in vari contesti, sarebbero naufragate, anni dopo, nelle giungle vietnamite, assieme alla vecchia tradizione liberal di cui Kennedy fu uno degli ultimi interpreti. L’importanza della vigilanza, quali «sentinelle», sui valori di libertà e democrazia, rimarcata nei suoi Ultimi discorsi, mantiene però tutta la sua validità nei nostri, non meno difficili, anni.

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