Alessandro Della Casa (1983) è dottore di ricerca in Scienze storiche e dei Beni Culturali e assegnista presso l’Università della Tuscia. Ha conseguito l’abilitazione a professore di II fascia in Storia delle dottrine e delle istituzioni politiche (2022-2032). È autore di numerosi articoli e delle monografie Contro la tirannia della maggioranza. La democrazia secondo John Stuart Mill (il Prato, 2009), L’equilibrio liberale. Storia, pluralismo e libertà in Isaiah Berlin (Guida, 2014), Isaiah Berlin. La vita e il pensiero (Rubbettino, 2018) e La dinamo e il fascio. Volt, l’ideologo del futurismo reazionario (Sette Città, 2022). Nel 2022 ha ricevuto il Premio Isaiah Berlin - Monografie e il Premio Dino Garrone.

Recensione a: U. Spirito, L’avvenire della globalizzazione. Scritti giornalistici (1969-1979), a cura di D. Breschi, Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice – Luni Editrice, Milano 2022, pp. 400, € 25,00.

Nel secondo dopoguerra, e cioè nell’ultimo venticinquennio, abbiamo assistito ad una vorticosa trasformazione della vita sociale in tutto il mondo. Ma i mutamenti più profondi si sono verificati soprattutto nel quindicennio a noi più vicino, quando il problema delle comunicazioni ha raggiunto soluzioni imprevedibili fino a pochi anni prima e ha consentito una unificazione del nostro pianeta.

Così, il 17 luglio 1969, Ugo Spirito ragionava sul “Corriere della Sera” sul significato dell’evento che sarebbe avvenuto tre giorni dopo, l’allunaggio del modulo statunitense Apollo 11, successivo di appena 12 anni alla voce del Dizionario enciclopedico italiano che annoverava l’astronautica tra le “cose ‘possibili’”.

Già nel 1957 la capsula sovietica Sputnik II aveva condotto a orbitare attorno alla Terra un essere vivente, la cagnetta Laika, seguita nel 1961 dal primo umano, il cosmonauta russo Jurij Gagarin:

Se nel giro di due anni si può passare dall’affermazione della possibilità a quello della realtà, vuol dire che la rivoluzione mondiale procede attraverso un’opera creativa che va al di là della coscienza degli scienziati e dei tecnici che vi lavorano.

Nell’«unità interdisciplinare», costituita «senza volontà esplicita di nessuno», dell’astronautica Spirito riconosceva il tratto innovativo della «scienza di domani», «necessariamente sempre più anonima e collettiva», capace di radunare «uomini, energie e mezzi strumentali in dimensioni sempre più gigantesche e indomabili da singoli individui» e «raccogliere i contributi di popoli diversi e di sollevarli al piano di un’unica azione creatrice». La competizione di Stati Uniti e Urss nella corsa allo spazio attestava la convergenza sui medesimi “ideali scientifici” e “procedimenti pratici”, in vista di un identico fine:

È una nuova economia che si va instaurando, fuori di ogni dualismo e di pubblico e di privato: è il comunismo della scienza e della tecnica che va realizzando una rivoluzione che raggiunge le radici di tutta la società.

Già dall’articolo con cui si apre L’avvenire della globalizzazione. Scritti giornalistici (1969-1979), la selezione – curata da Danilo Breschi, autore di un’ampia introduzione al volume e profondo conoscitore dell’opera del filosofo (suo Spirito del Novecento. Il secolo di Ugo Spirito dal fascismo alla contestazione, Rubbettino 2010) – di pezzi giornalistici e di alcune interviste rilasciate da Spirito tra il 1969 e il 1979, anno della morte, si evincono le linee dell’accelerato processo di globalizzazione nel secondo dopoguerra, presentato nelle forme di un’epoca critica. Di questa, tra mera descrizione di una tendenza e più palese auspicio, egli preconizzava il superamento nell’adattamento alla trasformazione, tramite la riproduzione frattale della risoluzione della «molteplicità nell’unità» in tutti i livelli interrelati – da quello intraindividuale (con il superamento del dualismo tra anima e corpo e tra sfera privata e sfera sociale) a quello globale – e l’ambito della conoscenza, nei rapporti tra scienze umane e naturali.

Si coglie bene questo aspetto nella disamina a cui l’allievo di Giovanni Gentile a più riprese, soprattutto sulle colonne del “Giornale d’Italia”, sottoponeva il «concetto» e i meccanismi della democrazia. Essendo essa fondata sul principio moderno dell’eguaglianza, per cui il medesimo peso ha il volere di ciascuno, applicava il «criterio quantitativo» dell’identificazione di valore e numero; e così agevolava la “violenza” della più ristretta maggioranza. E, quando non lasciava il passo all’avvento di un “potere personale” (il dispotismo d’un seul, aveva scritto Alexis de Tocqueville) per ovviare alla «disgregazione della convivenza sociale» tra volontà contrapposte, facilmente degenerava nella “demagogia” partitocratica, favorita dal tramontare delle “fedi” e degli “ideali”. Proprio al 1969 risaliva il saggio spiritiano, ripubblicato nel 1971 da Rusconi assieme alla risposta di Augusto Del Noce nel fortunato Tramonto o eclissi dei valori tradizionali?, preannunciante la fine di religioni, filosofie e ideologie politiche a vantaggio dei valori scientifici e tecnici.

Paradigmatica del trapasso delle ideologie era la deformazione subita dal Partito comunista italiano negli anni del compromesso storico – del quale, per Spirito, Togliatti aveva effettivamente posto le basi con l’inserimento dei Patti lateranensi nella Costituzione – e dell’eurocomunismo. La «realtà» del Pci, affermava il filosofo nel 1976, «è limitata a una prassi politica che si esaurisce nel presente e non anticipa nessun avvenire», se non la promessa di «maggiore e più facile benessere» senza rinunce e la speranza di pervenire a una «comunione di potere» assieme alla Democrazia cristiana, mentre la Chiesa del declinante cattolicesimo «rinnega i suoi sacri principi». Ciò che solo poteva contrapporsi a simile deriva era «un regime veramente comunista», in grado «di dare a chi è veramente capace di lavorare e di sacrificarsi per il bene comune». Ma questa non era la destinazione verso cui aveva marciato, dopo l’iniziale illusione, il movimento giovanile sorto nel ’68 («Rimase soltanto lo stato d’animo della delusione e della contestazione»); né poteva più essere di riferimento, poiché anch’essa era ormai sulla china dell’imborghesimento, l’Unione sovietica, da Spirito visitata e apprezzata nell’autunno del 1956 su invito del filocomunista Movimento Mondiale per la Pace (ma maggiore era stata la fascinazione, nel 1960, per la Cina del “Grande balzo in avanti”).

L’anacronismo degli istituti della democrazia liberale occidentale, refrattaria all’espansione del metodo tecnico-scientifico e del criterio della competenza invalso in ogni altro settore, si palesava maggiormente nell’ingovernabilità tipica del caso italiano, contraddistinto da una Costituzione “antifascista” che del fascismo, Spirito credeva, aveva conservato molti pilastri e certamente quelli più reazionari: il Concordato e il codice Rocco su tutti. La soluzione che egli prospettava era il suo comunismo, una rivisitazione del corporativismo, nel quale aveva confidato che si inverasse la vena rivoluzionaria del fascismo: fondamentale era ancora per lui lo «scandalo» del convegno ferrarese del 1932, quando la proposta della “corporazione proprietaria” gli aveva attirato nel regime la fama di bolscevico. Se la collaborazione alla rivista dell’Istituto di Studi Corporativi di Gaetano Rasi era l’unico punto di contatto che riconosceva con l’area del Movimento sociale, verso il cui «atteggiamento di destra» dichiarava peraltro «estrema incompatibilità», il rinato e diffuso interesse per il corporativismo e l’impegno governativo per la pianificazione economica negli anni ’70 spingevano il filosofo a prospettare l’abbandono del «sistema democratico, elettoralistico, maggioritario, degli incompetenti, e passare al governo dei migliori». Aboliti i partiti, non corrispondenti «all’esigenza dell’unità e dell’oggettività», si sarebbero istituiti gli «organi legislativi informati dal sapere scientifico e dagli interessi della produzione», appropriati alla «programmazione della vita sociale» e alla coordinazione dei «bisogni concreti del paese». La funzione legislativa, dunque, sarebbe stata affidata a una Camera che rappresentasse «tutti gli organi dello Stato» (dalla scuola all’esercito), affiancata da una «Camera dei sindacati», ufficialmente inclusi nel processo decisionale. Si trattava, dunque, di «spostare il problema politico sul piano della scienza».

Commentando il giudizio sul tramonto dei valori metafisico-teologici, Del Noce aveva affermato nel 1971 che lo scientismo positivistico al quale Spirito era giunto in quell’ultima fase – e nel quale si era formato negli anni dell’adolescenza in Abruzzo e degli studi di giurisprudenza all’Università di Roma – non contraddiceva la fedeltà all’attualismo gentiliano al quale aveva opposto in La vita come ricerca del 1937 il problematicismo del «pensare significa obiettare», da Gentile rigettato. E il positivismo dell’aretino pareva a Del Noce prossimo, più che a quello di un Ardigò, all’impostazione di Comte, certo che dalla spiegazione sufficiente del passato si traesse «la direzione mentale dell’avvenire». Eppure la convinzione che si potesse far seguire un momento “dogmatico” a quello “critico” nell’indagine sul futuro, che Spirito più volte dava prova di avere accarezzato, sembrava infine arenarsi. In buona parte a causa della dinamica che un decennio prima aveva consentito di esaltare i meriti della scienza di domani. La rivoluzione mondiale della globalizzazione, nel determinare l’«unificazione sensibile del pianeta», aveva pure comportato l’iperspecializzazione e la “frammentazione” di ogni scienza; ciò che impediva di «soddisfare il bisogno della interdisciplinarità», indispensabile per una «conoscenza più comprensiva in senso unitario» e all’organizzazione del «mondo che abbiamo scoperto».

La pretesa della filosofia come scienza del tutto era già venuta meno e si dissolveva anche «ogni effettiva capacità di un sapere sintetico di significato positivo»: «La vera sintesi sarà nel processo che si realizzerà, attraverso la risoluzione delle parti, del molteplice, nell’unità che riuscirei a derivarne. Se non sappiamo tutto, non possiamo far altro che attendere», nel «passaggio da un mondo di vita a un altro non ancora sperimentato o sperimentato unicamente in forme appena accennate», scriveva Spirito nel marzo 1979.

Il 9 maggio, a pochi giorni dalla morte del filosofo, su «Vita» usciva l’articolo Superficialità ed ambiguità, nel quale si legge: «La mia cultura deve ingigantirsi. Il mondo si è rimpicciolito e ingrandito, ma continua in ogni caso a non darmi tregua. Debbo sapere, prendere atto della scoperta di ogni giorno. […] La competenza verso la perfezione. E la cultura verso il vuoto. Non perché la cultura venga a mancare di quantità o perché diminuisce di proporzioni. Ma proprio per il contrario. L’«informazione» ci costringe all’ignoranza. Non abbiamo più la possibilità di sapere quello che ci è necessario e anzi indispensabile. Non facciamo in tempo». Da pochi giorni una donna – in quanto tale, per Spirito, priva delle «doti necessarie per il potere» – si era insediata a Downing Street e avrebbe contribuito a indirizzare la rivoluzione mondiale lontano dalle mete organicistiche e antindividualistiche che Spirito aveva atteso e nelle quali aveva sperato.

Rileva Francesco Perfetti, autore di una delle interessantissime testimonianze (le altre sono di Giuseppe Bedeschi, Hervé A. Cavallera e Antonio Russo) con cui si chiude il volume, che la vita di Spirito è un «documento» delle «contraddizioni e dei travagli del suo secolo». E L’avvenire della globalizzazione viene ora a confermarlo.

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