Alessandro Della Casa (1983) è dottore di ricerca in Scienze storiche e dei Beni Culturali e assegnista presso l’Università della Tuscia. Ha conseguito l’abilitazione a professore di II fascia in Storia delle dottrine e delle istituzioni politiche (2022-2032). È autore di numerosi articoli e delle monografie Contro la tirannia della maggioranza. La democrazia secondo John Stuart Mill (il Prato, 2009), L’equilibrio liberale. Storia, pluralismo e libertà in Isaiah Berlin (Guida, 2014), Isaiah Berlin. La vita e il pensiero (Rubbettino, 2018) e La dinamo e il fascio. Volt, l’ideologo del futurismo reazionario (Sette Città, 2022). Nel 2022 ha ricevuto il Premio Isaiah Berlin - Monografie e il Premio Dino Garrone.

Recensione a
G.B. Guerri, Eretico o santo. Ernesto Buonaiuti, il prete scomunicato che ispira papa Francesco
La Nave di Teseo, Milano 2022, pp. 398, € 24,00.

Pubblicata originariamente nel 2001, a oltre venti anni di distanza torna, riveduta e ampliata, la biografia dedicata da Giordano Bruno Guerri a Ernesto Buonaiuti (1881-1946). Se nella prima edizione Buonaiuti era descritto come “eretico e profeta”, la nuova, sin dal titolo – Eretico o santo. Ernesto Buonaiuti, il prete scomunicato che ispira papa Francesco (La Nave di Teseo, Milano 2022) – mostra l’ulteriore, e davvero meritevole di attenzioni, passo in avanti nell’interpretazione. Il conflitto tra Buonaiuti e la gerarchia ecclesiastica, mette in luce l’autore, era iniziato già nelle sale del Seminario di Sant’Apollinare, nel quale il romano, terzogenito di un tabaccaio fiorentino, era entrato nel 1893. Lì era stato immerso nella filosofia della scolastica, trovandola ben presto un “mostruoso edificio filosofico in cui la Chiesa del Medioevo ha voluto rinchiudere tutte le anime pensanti”. I futuri sacerdoti erano resi incrollabilmente fedeli alle “proprie astrazioni”, in virtù di un estraniamento dal secolo, vedendosi preclusa la possibilità di entrare in contatto con il fermento della cultura moderna, scientifica e umanistica, alla conoscenza della quale Buonaiuti invece anelava.

Per appagare la sete di sapere iniziò dunque a procurarsi segretamente opere proibite di ambito filosofico possedute dalla Biblioteca nazionale di Roma, a partire dalle Critiche kantiane fino ai volumi del francese Maurice Blondel. Questi dovevano condurlo a condividere, con qualche qualificato distinguo, l’impostazione del “modernismo”. Il giovane ne aveva dedotto, per un verso, la tensione a rimontare al cristianesimo delle origini (di qui la preferenza per il termine “arcaismo”), dall’altro la necessità di sottoporre ad analisi storico-critica il cattolicesimo, in quanto “manifestazione storica transitoria”. Ciò, che venne a conoscenza dei superiori attraverso delazioni, già nel 1901 procurò a Buonaiuti l’espulsione dall’Apollinare, nel quale – ordinato sacerdote nel 1903 – sarebbe divenuto titolare della cattedra di Storia Ecclesiastica, da cui fu rimosso, con l’accusa di modernismo appunto, per essere destinato all’archivio della Congregazione delle Visite.

Si era allora all’apice della lotta di Pio X contro quel movimento che, come nota Guerri, in Italia, dopo una fase di mero riflesso delle vicende francesi, proprio per la “vicinanza della Santa Sede” stava sommando al carattere scientifico-religioso una connotazione “di azione e propaganda”, volta tanto all’innovazione nella Chiesa quanto alla trasformazione delle strutture sociali. Al 1909 risaliva la scomunica di Romolo Murri, fondatore della Lega democratica nazionale, che in quell’anno era stato eletto al Parlamento sulla base di un programma prossimo a quello radicale. Buonaiuti, che pure in gioventù aveva esposto pubblicamente il proprio favore per un “corporativismo cattolico” e aveva preconizzato la “fusione dei cristiani autentici […] con i socialisti leali”, avrebbe però finito per ritenere più vantaggiosa l’autonomia dalla politica per la Chiesa e per i fini che egli si proponeva.

E questi erano, avrebbe riassunto Giovanni Papini, innanzitutto di “rinnovare la Chiesa nella sua stessa costituzione interna”, conferire “un più moderno concetto dei rapporti fra coscienza e autorità”, offrire il riconoscimento di maggiori diritti dei laici in materia di fede e disciplina”. Ma si trattava anche di procurare una reinterpretazione dei contenuti dottrinari che, per quanto forse filologicamente corretta, alla Santa Sede non poteva non apparire pericolosamente deformante e in odore di eresia.

Nell’ottica di quello che Guerri definisce misticismo associato, Buonaiuti tentava di recuperare “l’ingenuità di pensiero” con la quale credeva che i primi cristiani avessero atteso collettivamente “la prossima venuta del regno di Dio in terra”; una prospettiva, questa, che gli sembrava collimante con quella della democrazia moderna e contraddetta, viceversa, dal sistema dogmatico e gerarchico imperante nella Chiesa. A incarnarlo, egli scriveva nel 1908 nell’anonimo Lettere di un prete modernista, erano primariamente i gesuiti (affetti da “superba ignoranza” e da un “proverbiale spirito di finzione e di raggiro, di odio e di vecchiume”), che non mancarono di attaccarlo ripetutamente sulle pagine di Civiltà Cattolica. A quello stesso anno risaliva il Programma dei modernisti, con cui – sempre in forma anonima, ma anche allora di facile attribuzione – il teologo aveva controbattuto all’enciclica Pascendi domicici gregis di Pio X, volta alla condanna degli appartenenti al movimento, “sintesi di tutte le eresie”, quali “peggiori” tra i “nemici della Chiesa”, avendo essi avevano affondato l’ascia della critica “alla radice stessa, vale a dire alla fede e alle sue fibre più profonde”. Proprio la mano del pontefice avrebbe vergato le dieci domande che a Buonaiuti furono rivolte nel 1909 dal commissario del Santo Uffizio, che gli chiese conto delle frequentazioni con sacerdoti sospesi, delle espressioni irridenti nei commentati ai pronunciamenti papali sulla Rivista storico-critica delle scienze teologiche – posta all’Indice di lì a poco – e della paternità, negata, del Programma.

Nel 1915 i suoi studi gli valsero la docenza di Storia del cristianesimo all’Università di Roma, alla quale la Santa Sede rispose nel 1916 con la sospensione a divinis a seguito della pubblicazione buonaiutiana della nuova Rivista di scienza delle religioni. Buonaiuti rimediò prestando un giuramento di obbedienza al magistero ecclesiastico, soprattutto in materia dottrinale, di fronte al cardinale Pietro Gasparri, segretario di stato di Benedetto XV. Ma scarsa era la sincerità del voto, tanto che, dopo aver legato nelle sue lezioni il sacramento eucaristico ai banchetti sacri dei misteri di Osiride, nel 1920 attribuì a San Paolo la convinzione – da lui stesso probabilmente condivisa – che fosse “l’unità” sentita dai partecipanti all’eucaristia ad “avallare […] la prodigiosa trasformazione del pane fisico in pane divino”. Era abbastanza perché il Santo Uffizio, con l’approvazione di Benedetto XV, gli comminasse una prima scomunica e la sospensione, in quanto eretico pertinace negatore della transustanziazione. Messo di fronte all’alternativa tra il mantenimento della docenza universitaria e l’abiura arricchita da incarichi di rilievo (forse la direzione della Biblioteca Vaticana), Buonaiuti scelse la prima opzione, salvo poi rinnovare la richiesta di perdono. La seconda scomunica giunse nel 1924 per i contenuti di due brevi saggi. Questa volta a nulla valse la supplica rivolta a Pio XI. Anzi, nei due anni seguenti, si sommarono il divieto (lungamente non rispettato) di vestire l’abito ecclesiastico e l’ammonimento ai fedeli di evitare la vicinanza al “traviato sacerdote”, mentre Pietro Fedele, successore di Giovanni Gentile al ministero dell’Istruzione del governo Mussolini, sostanzialmente lo estromise dalla cattedra per destinarlo a un modesto incarico alla Biblioteca Vallicelliana.

Come bene argomenta Guerri, Buonaiuti e il suo diritto a insegnare vennero a trovarsi – tra promesse e intimidazioni – al centro della partita che, nel contesto delle trattative per il superamento della questione romana, si disputava tra lo Stato fascista e il Vaticano, anche nella contesa per le coscienze degli italiani. Questa passò pure per il giuramento imposto dal regime ai docenti universitari. A differenza di coloro che, convintamente o meno, proclamarono la propria lealtà, di coloro che si sottrassero preferendo un anticipo del collocamento a riposo, o di cattolici che, giurando, nel foro interno fecero salvi “i diritti di Dio e della Chiesa” (secondo la formula escogitata dal pontefice e da Gemelli), Buonaiuti – antifascista, avrebbe detto nel 1941, perché fedele all’“inviolabile libertà dell’uomo” – pur potendo far valere l’esonero dall’insegnamento, rifiutò di adempiere all’obbligo sulla base delle “precise prescrizioni” del Vangelo di Matteo:  “non giurate affatto: né per il cielo, perché è il trono di Dio; né per la terra, perché è lo sgabello per i suoi piedi; né per Gerusalemme, perché è la città del gran re. Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno”.

Tra i docenti universitari che non giurarono (dodici in tutto) e sopravvissero al crollo del fascismo fu l’unico a non essere reintegrato, pur avendone il diritto per età. Se Alcide De Gasperi minacciò la crisi ministeriale pur di impedire la restituzione dell’incarico universitario e si oppose a che il comunista Ambrogio Donini, allievo di Buonaiuti, ricevesse il sottosegretariato agli Esteri, Benedetto Croce chiarì che non si poteva pensare di “fare una guerra di religione per Buonaiuti”.

“Antifascista per i fascisti, anticattolico per i cattolici, anticomunista per i comunisti, Ernesto Buonaiuti non poteva essere accettato nell’Italia di allora, né lo sarebbe in quella di oggi”, scrive Guerri, che pure rileva quante convinzioni dello scomunicato vitando, morto nel 1946 senza che si potesse celebrare un funerale cattolico, si ritrovino nel corso intrapreso dal Vaticano a partire dal pontificato di Angelo Roncalli, che di Buonaiuti era stato amico in seminario, fino a giungere a quello attuale. “Benché non lo abbia mai citato”, Guerri valuta e auspica, “papa Francesco sembra incarnare lo spirito più profondo del messaggio buonaiutiano, nel comune tentativo di allontanare la Chiesa dalla chiusura in se stessa – e dalla degenerazione del dogma – in nome del discernimento e della misericordia: per riscoprire un cristianesimo che si fa esperienza etica nel ritorno al Vangelo”. Ora “Roma” verrebbe riformata “con Roma”, così come sarebbe piaciuto all’”iperscomunicato”, al punto di far ipotizzare il riconoscimento del suo “ruolo di profeta” da parte di un “papa gesuita”.

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