Alessandro Della Casa (1983) è dottore di ricerca in Scienze storiche e dei Beni Culturali e assegnista presso l’Università della Tuscia. Ha conseguito l’abilitazione a professore di II fascia in Storia delle dottrine e delle istituzioni politiche (2022-2032). È autore di numerosi articoli e delle monografie Contro la tirannia della maggioranza. La democrazia secondo John Stuart Mill (il Prato, 2009), L’equilibrio liberale. Storia, pluralismo e libertà in Isaiah Berlin (Guida, 2014), Isaiah Berlin. La vita e il pensiero (Rubbettino, 2018) e La dinamo e il fascio. Volt, l’ideologo del futurismo reazionario (Sette Città, 2022). Nel 2022 ha ricevuto il Premio Isaiah Berlin - Monografie e il Premio Dino Garrone.

Recensione a: G. Borgognone, America Bianca. La destra reazionaria dal Ku Klux Klan a Trump, Carocci, Roma 2022, pp. 168, € 15,00.

Impegnato da un ventennio nello studio delle idee e dei movimenti di destra negli Stati Uniti, Giovanni Borgognone dedica America bianca. La destra reazionaria dal Ku Klux Klan a Trump (Carocci, Roma 2022) alla ricostruzione della storia e del carattere ideologico del nazionalismo bianco americano, inteso quale risposta reazionaria alle trasformazioni sociali e alle minacce che esse costituirebbero per i valori, i modi di vita e i privilegi di una molto spesso idealizzata comunità bianca.

Tale impostazione, capace di allargare progressivamente la propria capacità di attrazione, per il docente di Teoria e storia della democrazia all’Università di Torino, affonda le proprie radici agli albori della vicenda statunitense e ne accompagna – con modulazioni, narrazioni e pratiche variabili – l’intero corso fino ai giorni nostri, alimentandosi spesso di “teorie della cospirazione”.

«Fin dalle origini della storia della colonizzazione europea», nota Borgognone, «a suscitare le paure dell’America bianca aveva concorso una pluralità di fattori». Alle “streghe” e ai nativi temuti e perseguitati dai primi coloni puritani si erano aggiunti i presunti complotti dei britannici avversi alla “libertà americana”, dell’irreligioso “Ordine degli Illuminati”, del papato che avrebbe tentato di imporre la propria sovranità sulla neonata repubblica attraverso l’immigrazione cattolica irlandese, e degli abolizionisti che, sulla scorta di “astratti presupposti naturali di libertà, uguaglianza e indipendenza”, avrebbero distrutto il “modello comunitario organico” del Sud. La persecuzione dei neri e la resistenza all’attuazione del progetto di Ricostruzione successivo alla vittoria nordista sui confederati si erano fuse nel suprematismo del Ku Klux Klan, sorto in Tennessee nella seconda metà dell’Ottocento.

Esauritosi momentaneamente con l’accordo tra Repubblicani e Democratici, che aveva favorito l’emergere del sistema segregazionista delle “leggi Jim Crow”, il movimento aveva goduto di nuove fortune, non più clandestino, nei primi due decenni del Novecento. Aveva varcato i confini degli Stati meridionali, nutrendosi dell’ostilità verso gli immigrati non europei – mentre la nozione di caucasico ampliava in parte la categoria dei “bianchi” – e gli ebrei, indicati al contempo, anche a causa della diffusione del famigerato falso dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion, quali ispiratori delle cospirazioni dei “plutocrati” e dei bolscevichi. E intrisa di antisemitismo fu una non irrilevante parte del fronte isolazionista che, talvolta ispirandosi alle idee e alla simbologia naziste, si oppose al coinvolgimento statunitense nel conflitto con l’Asse.

Nel secondo dopoguerra il timore che una rete di cospiratori manovrati dall’Urss si fosse infiltrata fino ai massimi livelli dell’amministrazione andò a saldarsi, agli occhi di alcune componenti della destra, con quello suscitato dall’avanzare del movimento per i diritti civili. Tantopiù dopo che, con la sentenza Brown v. Board of Education emessa nel 1954 dalla Corte suprema presieduta dall’ex governatore repubblicano della California, Earl Warren, si avviò il processo di completa desegregazione. Se una parte del mondo intellettuale conservatore criticò la decisione appellandosi, come aveva fatto John Caldwell Calhoun all’epoca dell’abolizionismo, ai diritti dei singoli Stati contro le intromissioni federali, la John Birch Society, fondata nel 1958, indicò nel Dipartimento di Stato il “quartier generale comunista” e in Martin Luther King un inconsapevole agente di Mosca, e i segregazionisti trovarono un riferimento politico in George Wallace, governatore democratico dell’Alabama, che sotto la sigla dell’American Independent Party riuscì a imporsi in cinque Stati del Sud nelle elezioni presidenziali del 1968. Più marginali e più violente frange suprematiste, come l’American Nazi Party, organizzarono invece spedizioni punitive nei confronti degli afroamericani, proponendosi lo scopo di circoscriverne la presenza all’Africa e trovando in ciò un’aperta convergenza con il separatismo nero della Nation of Islam di Elijah Muhammad.

Ulteriore istanza di cui i suprematisti vennero a farsi interpreti fu quella per il libero possesso delle armi. Al 1975 risale il romanzo a puntate The Turner Diaries del neonazista William Pierce, docente di fisica all’Università dell’Oregon. Lì si immaginava che, in risposta a una compressione del Secondo emendamento, un militante razzista facesse esplodere un edificio federale con una bomba composta di fertilizzante combustibile, similmente a quanto sarebbe avvenuto a Oklahoma City a metà anni Novanta. Difatti, pure grazie alla sempre crescente facilità di propaganda e di organizzazione, proprio in quel decennio che vide l’impoverimento delle aree rurali accresciuto dai processi di globalizzazione, si verificò la proliferazione di milizie volontarie e la realizzazione di attentati da parte di autoproclamatisi “Patrioti”, pronti a spiegare il paventato disarmo della popolazione nel quadro di una cospirazione – sulla cui esistenza convenivano anche frange della sinistra – ordita da elementi deviati di Washington, Federal Reserve, Council on Foreign Relation, Trilateral Commission e Nazioni Unite per annientare la sovranità americana. Taluni tentarono di rispondere promuovendo la nascita di aree di autogoverno per contrastare l’imposizione di quello che venne a essere chiamato “Nuovo Ordine Mondiale”, espressione peraltro improvvidamente adoperata nel 1991, nell’annunciare l’inizio dell’operazione Desert Storm, dal presidente George H. W. Bush.

Il libro segnala una svolta decisiva nella destra reazionaria di inizio millennio con l’affermarsi della Alt-Right (ossia la destra alternativa a quella, eterogenea, istituzionale). Questa, rinunciando ai simboli consueti, rilanciava invero «vecchie proposte e ossessioni» («dalla chiusura totale dei confini nazionali, alle crociate contro il globalismo, contro il femminismo, contro l’omosessualità, contro il controllo delle armi»). Eppure si poneva innanzitutto l’obiettivo di «modificare la mentalità collettiva attraverso le idee», recuperando la nozione di metapolitica nel senso che aveva nella Francia ottocentesca: un approccio che si rivolgesse «alla dimensione religiosa della politica, interrogandosi sulle radici sacre, i simboli mitici, i valori escatologici». Vennero a costituire importanti riferimenti l’esperienza della Nouvelle Droite e dei suoi principali teorici: da Alain de Benoist, con la curvatura che questi aveva dato al gramscismo e alle tesi della Scuola di Francoforte, a Guillaume Faye, con l’introduzione di una logica differenzialista nei riguardi delle identità. Ma pure le idee di René Guenon e di Julius Evola ebbero un ruolo fondamentale nell’elaborazione di una «concezione ‘palingenetica’ della temporalità», caratterizzata da una visione della storia che prospettava, dopo la catastrofe il “ritorno alla grandezza”, prefigurato dalla Alt-Right nella ricostituzione di un etnostato bianco in cui convivano modernità tecnologica e un restaurato ordine “tradizionale”.

Nella designazione di Steve Bannon, che proprio da Guenon ed Evola si diceva influenzato, quale stratega della campagna che avrebbe condotto Donald Trump alla vittoria sotto le insegne dei Repubblicani, secondo Borgognone, inizia il processo di normalizzazione dell’apparato ideologico della Alt-Right e della destra reazionaria, che inizia a conquistare «una certa ‘rispettabilità’», venendo declinato, con il contributo mediatico della Alt-Lite, in una forma più soft, dunque, maggiormente condivisibile per l’elettorato, ormai prevalentemente bianco, del partito di Abraham Lincoln.

Per un verso, si potrebbe rinviare “il successo negli ultimi decenni delle idee identitarie, suprematiste, etnonazionaliste e antigovernative dell’America bianca” anche all’«esposizione prolungata di normali cittadini all’incantesimo delle teorie della cospirazione», le quali si manifestano specialmente nelle «fasi critiche della storia nazionale». Borgognone ne descrive una ventina (non scaturite solamente da settori che si definiscono di destra): da quella relativa alla guerra d’indipendenza, che sarebbe stata una risposta al presunto tentativo britannico di «porre fine alla libertà coloniale», fino ad arrivare a QAnon e a quelle relative al Great Reset, divergenti dalle precedenti per l’incapacità di fornire una spiegazione, «sia pure incongrua sul piano epistemologico», dei processi storici e di manifestare «una chiara visione ideologica». D’altra parte, l’espansione delle narrazioni reazionarie sarebbe stata favorita dalla messa in stato d’accusa dell’intera storia nazionale, «rappresentata solo come persistenza di torti, iniquità  e violenze» e del «nazionalismo civico» – che cementava  il melting-pot americano attorno a un “destino comune” nel rispetto di “istituzioni condivise” –, agevolata dall’affermarsi in campo progressista della “politica identitaria”, la quale ha assecondato lo scivolamento dalle rivendicazioni inclusive delle minoranze discriminate all’affermazione postmodernista del riconoscimento di irriducibili differenze di gruppo.

Per interrompere il circolo vizioso servirebbe superare quella che all’inizio degli anni Novanta lo storico Arthur Schlesinger Jr. definì “la disunione dell’America”: come scrive Borgognone, occorrerebbe «contrastare gli effetti corrosivi della identity politics […] adottando un approccio olistico nelle politiche pubbliche, favorendo esperienze di comunanza, condivisione, inclusione, partecipazione e imponendo la massima trasparenza nei processi di decision-making, nell’orizzonte di una rilegittimazione delle pratiche e delle istituzioni democratiche. Ma si tratta, chiaramente, di un lungo percorso».

 

 

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