Alessandro Della Casa (1983) è dottore di ricerca in Scienze storiche e dei Beni Culturali e assegnista presso l’Università della Tuscia. Ha conseguito l’abilitazione a professore di II fascia in Storia delle dottrine e delle istituzioni politiche (2022-2032). È autore di numerosi articoli e delle monografie Contro la tirannia della maggioranza. La democrazia secondo John Stuart Mill (il Prato, 2009), L’equilibrio liberale. Storia, pluralismo e libertà in Isaiah Berlin (Guida, 2014), Isaiah Berlin. La vita e il pensiero (Rubbettino, 2018) e La dinamo e il fascio. Volt, l’ideologo del futurismo reazionario (Sette Città, 2022). Nel 2022 ha ricevuto il Premio Isaiah Berlin - Monografie e il Premio Dino Garrone.

Recensione a: Volt, La fine del mondo, a cura di G. de Turris, GOG, Roma 2019, pp. 206, € 15.

Nel 1927, scrivendo di Volt (il conte Vincenzo Fani Ciotti) da poco ucciso, appena trentanovenne, dalla tubercolosi, Marinetti ricordava su «L’Impero» di averne ricevuto un messaggio quando era ancora al fronte a Vertoiba. Il sodale dell’avanguardia futurista, dai trascorsi cristiano-democratici e nazionalisti, gli riferiva di essere impegnato nella stesura di «novelle di una guerra interplanetaria. Spero di battere Wells ma vorrei star bene per battermi al tuo fianco contro gli austriaci per l’adorata Italia». Il frutto maggiore di tale cimento fu il romanzo fantascientifico La fine del mondo, la cui prima edizione risale probabilmente al 1921 per i tipi dell’editore Modernissima, recentemente ripubblicato a cura di Gianfranco de Turris, assieme a una selezione di articoli e saggi, per l’editore GOG di Roma.

Nel romanzo, dedicato a Benito Mussolini, Volt immaginava che negli anni ’40 del 2200 un’alleanza massonico-comunista guidata da Abramo Lattes (chiara allusione a Ernesto Nathan) si fosse impadronita del governo, insediato a Roma, degli Stati Uniti d’Europa, aderenti alla Società delle Nazioni. Scacciato il pontefice Silvestro XX dal Vaticano, per fare posto al parlamento europeo, il nuovo esecutivo aveva imposto quale religione ufficiale la teosofia. Già da tempo si è provato che l’«unità della materia» consente la convertibilità tra gli elementi, tra i quali la «piombide», attratta dai corpi siderali che la contengono allo stato naturale. L’applicazione di tale scoperta avrebbe consentito di abbandonare la Terra, su cui la vita è minacciata dalle cattive condizioni ambientali, tramite le eteronavi. A pensare di sfruttarla per la colonizzazione di Giove, abitato dai «feroci e giganteschi» lemuri – appellativo adoperato da Rudolf Steiner per le mitiche popolazioni di epoca atlantidea e da H.G. Wells per i morlocks di La macchina del tempo – sono gli esponenti del Partito Dinamico, indentificati sin dai nomi quali eredi dell’«antico Partito futurista nazionale»: Osvaldo Pinna (Ginna), Lunio Morra (Corra) e Icilio Pettinelli (Emilio Settimelli). A guidarli è Tomaso El Barka, un «poeta» di origini sudanesi, come la balia di Filippo Tommaso Marinetti del quale è una delle due trasposizioni nel romanzo. L’altra è l’elegante Marinette, che a Nizza – città in cui l’autore era stato effettivamente addetto consolare – si innamora di Paolo Fonte, alter ego Fani Ciotti. Come questi aveva conosciuto Marinetti nel 1916 sulla spiaggia di Viareggio, decidendo di entrare nell’avanguardia (il nome d’arte derivava proprio dalla raccolta Archi Voltaici, con cui il conte aveva esordito tra i paroliberi), così Fonte, ugualmente afflitto dalla tubercolosi, era stato folgorato dall’incontro con El Barka sulla riviera ligure:

Con furia iconoclasta mandò in polvere i suoi vecchi idoli, sputò su le sue reliquie più venerate, distrusse giocondamente, senza rimpianti tutto il passato. Un altro uomo più forte, libero e sano, si liberava cantando da l’involucro della sua protratta adolescenza. La vita, la vita vera lo aveva afferrato.

A ostacolare le aspirazioni dei dinamisti è però Lattes che, celebrando la «pace […] supremo dei beni» e latrice di un continuo progresso, proclama l’istaurazione del «regno dell’amore» nel mondo e la prossima unificazione di «tutte le razze planetarie» in un’unica società. Viceversa Fonte, convinto della necessità di «sterminare metodicamente» i lemuri per assolvere alla «ragione etica» della presa di Giove, identifica nella «Pace assoluta» la decadenza e la morte – come aveva fatto Marinetti – ed esalta la «virtù ignea e fondatrice della guerra» che aveva dato vita agli Stati e fatto nascere la «coscienza nazionale». I terrestri, dunque, avrebbero conseguito un sentimento unitario e sarebbero assurti «a una sfera più alta della storia», solo combattendo con un nemico oltre i propri confini. Non trovando alternative per la realizzazione del piano, Fonte si assume l’onere di una missione suicida nella basilica di San Pietro, durante una seduta plenaria del parlamento:

I rari passanti, che in quel mattino piovoso erravano sulle terrazze pensili del Pincio, videro il “cupolone” sollevarsi, balzare nel cielo, come un guscio d’uovo, e ricadere in pioggia di rottami dietro le colonne dell’alta facciata crollante.

Papa Silvestro, in lamentosa preghiera sulle rive del Tirreno, in ultimo assiste alla partenza dei giovani, la «parte migliore dell’umanità», sulle eteronavi dirette a sfidare le stelle.

Non è difficile leggere in quello che Pablo Echaurren ha definito un «pazzoide guazzabuglio politico avveniristico», dedicato a Benito Mussolini, una creativa rilettura degli eventi occorsi dalla fine della Grande guerra: la proposta wilsoniana dei “quattordici punti”, la nascita dei Fasci di combattimento, la questione fiumana, la vittoria elettorale di popolari e socialisti, il biennio rosso, la scissione del Partito Comunista d’Italia, nonché il complesso rapporto tra futurismo e politica.

Come nota de Turris, La fine del mondo è però anche la traduzione in termini narrativi del saggio voltiano Teoria sociologica della guerra, in cui si rivela l’influsso delle teorie di Vilfredo Pareto e, forse ancora di più, delle concezioni polemologiche di Ludwig Gumplowicz, che, oltre ad essere circolate tra gli elitisti, avevano influenzato gli ambienti del nazionalismo ben noti a Fani Ciotti. In quello scritto, redatto tra il 1917 e il 1918, inedito fino al 1980 e utilmente ricompreso nel volume di GOG, Volt argomentava l’instabilità e l’individualismo congeniti alla democrazia, emanazione secolarizzata del «libero esame protestante». E proponeva il recupero di un concetto di Stato «classico, organico ed autoritario», «guerriero ed aristocratico», che sostituisse alla «morale umanitaria», esemplificata dal pacifismo della tolstojana «non resistenza al male», la «morale imperialista» dei «valori etici della lotta ed il sacrificio dell’individuo alla collettività statale». D’altra parte, riteneva la guerra un fattore ineliminabile e persino progressivo della storia, poiché a essa si doveva la nascita delle nazioni, assecondando una spinta centripeta che avrebbe potuto condurre all’unificazione, inevitabilmente violenta, di tutti i popoli. Ma proprio tale conflittualità avrebbe funto da limite temporale e spaziale agli ampliamenti territoriali di Stati e imperi, sempre costretti a individuare un nemico esterno contro cui sfogare le tensioni che altrimenti li avrebbero dilaniati internamente.

Gli eventuali «Stati Uniti d’Europa», secondo Volt, avrebbero guerreggiato i popoli extraeuropei e un’ipotetica federazione mondiale avrebbe vissuto «rivoluzioni interiori», a meno di uno spegnimento delle passioni umane, dell’accettazione dell’«anarchia permanente» o, ipotesi che giudicava «meno assurda delle due precedenti», dell’«espansione al di fuori dei limiti del pianeta terrestre» dell’umanità come un’unica nazione. Una prospettiva, quest’ultima, che richiama effettivamente il quadro degli eventi immaginati in La fine del mondo, ma contemporaneamente va intesa sia come monito nei riguardi delle ambizioni imperialistiche che egli stesso – anche nelle vesti Fonte – coltivava sia quale argomentum ad absurdum, a cui Alfredo Rocco era peraltro ricorso pochi anni prima, per confutare la praticabilità di una graduale e pacifica unificazione sovranazionale.

Le analogie riscontrabili con opere precedenti, probabili fonti di ispirazione, fanno ritenere che vi fossero ulteriori messaggi che il romanzo intendeva veicolare. Volt, difatti, aveva immaginato la definitiva vittoria sulla forza di gravità e la realizzazione di abitazioni e mezzi naviganti nel cosmo pure nel voltiano Velocità, “romanzo sintetico” pubblicato sulla rivista «Dinamo» nel 1919, e nei manifesti futuristi dell’«architettura dinamica», nei quali si prefigurava un imperialismo urbano che avrebbe infine condotto il pianeta a divenire «una sola città, alleata con Venere e Mercurio contro gli abitanti di Marte». E certamente, come sottolinea il curatore, poteva aver avuto il riferimento dei lavori fantascientifici di Jules Verne e di Wells, e degli italiani Ulisse Grifoni, Paolo Mantegazza e Anton Ettore Zuliani. Eppure ancora più rilevanti, sotto il profilo politico e ideologico, appaiono le affinità con il romanzo ucronico (magari letto nella traduzione francese del 1913-1914) Stella Rossa (1908) del bolscevico Aleksandr A. Bogdanov e di due classici moderni del profetismo cristiano apocalittico, I tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo (1900) di Vladimir Sergeevič Solov’ëv e Il Padrone del mondo (1907) del sacerdote anglicano fattosi cattolico Robert Hugh Benson.

In Stella Rossa si è immersi in una situazione sostanzialmente speculare a quella del romanzo di Volt. Il rivoluzionario russo Leonid, infatti, è convinto da un alieno dalle sembianze umane a recarsi su Marte per mezzo di una navicella, detta proprio eteronef, che attraversa lo spazio sfruttando la «materia di tipo negativo». Lì scopre che l’efficientissimo ma algido sistema socialista di Marte è messo a repentaglio dalla penuria di materie prime che, al contrario, abbondano sulla Terra. E mentre una marziana raccomanda – come Lattes – una proficua «Alleanza tra i Mondi» fondata sulla «ragione suprema» dell’«amore», un secondo alieno propugna – come Fonte – una migrazione di massa che, per l’ostinato e geloso patriottismo dei terrestri, esigerà inevitabilmente «lo sterminio incondizionato dell’umanità».

Negli altri due romanzi, invece, si immagina la creazione degli Stati Uniti d’Europa, la cui presidenza plenipotenziaria è affidata a una misteriosa personalità, vicina alla massoneria e dall’aura messianica, rivelatasi in ultimo l’Anticristo, che annuncia l’avvento della pace universale sulla scorta di un «umanitarismo», un «cattolicesimo senza cristianesimo» o «cristianesimo senza Cristo» che, nel caso di Solov’ëv, è connesso alla «non resistenza al male» di Lev Tolstoj, da Volt esplicitamente biasimata in Teoria sociologica della guerra. Anche in Il Padrone del mondo, inoltre, si assiste alla distruzione di San Pietro, ma per decisione dell’Anticristo, il cui antagonista, eletto pontefice, assume il nome di Silvestro, il medesimo dell’imbelle papa di La fine del mondo.

Assonanze, queste, che appaiono significative tanto più perché dimostrano come quel romanzo sui futuristi/dinamisti già celasse molte delle convinzioni che Fani Ciotti avrebbe organizzato ed esposto solo qualche anno dopo. Quando, mirando a fare del movimento e del regime mussoliniani, la cui dottrina aveva riassunto nella triade di nazione, espansione e gerarchia, il «braccio secolare» della reazione cattolica all’antropoteismo modernista che aveva contrapposto a «Cristo, il dio-uomo», «l’uomo-Dio, cioè l’Anticristo», Volt sarebbe divenuto il teorico dell’«estrema destra» fascista e l’ideologo del «futurismo reazionario».

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