Nicolò Bindi (1991) si è laureato in Filologia Moderna all’Università degli studi di Pisa, discutendo una tesi su “Teoria e pratica del futurismo. Palazzeschi, Marinetti, Soffici”. Interessato principalmente agli aspetti stilistici, metrici e linguistici, sta concentrando le sue ricerche letterarie soprattutto sugli autori delle avanguardie storiche e del modernismo italiano ed europeo. Collabora con diverse associazioni culturali. È docente presso l'Istituto "Francesco Datini" di Prato.
L’invenzione della stampa a caratteri mobili è un evento rivoluzionario, in Europa. Questo, oltre a velocizzare la produzione di libri, ne incentiva anche la diffusione. In verità, già prima dell’avvento della stampa la produzione e la diffusione libraria era incrementata, in Europa. Nel XIII secolo, le università si erano ormai affermate come principali centri di cultura, a discapito dei monasteri. I classici del sapere venivano condivisi dagli insegnanti con gli alunni. Questi ultimi si occupavano della copiatura dei testi, per poterne avere copie personali. Il meccanismo era il seguente: il volume veniva sfascicolato e ogni studente prendeva un fascicolo da ricopiare; una volta concluso, scambiava il suo fascicolo con quello toccato ad un altro studente, fino a quando il volume non era completo.
Le università fecero anche da centro di diffusione culturale anche all’interno del mondo laico, tra mercanti, notai e medici. Questi potevano procurarsi testi di loro interesse con relativa facilità: in vari comuni italiani, infatti, erano nate delle vere e proprie imprese artigiane di copiatura e vendita di libri. In pratica, queste botteghe possono dirsi le antenate dei centri di stampa.
Altro aspetto che facilitò la diffusione dei libri fu la diffusione della carta dall’Oriente. Essa sostituì la pelle di capra, e rese anche la produzione dei volumi più veloce ed economica. Dunque, l’invenzione di Gutenberg, a metà del XV secolo, si posiziona in un momento decisamente favorevole nella produzione libraria, e trova dunque terreno molto fertile per radicarsi. Già verso la fine del 1400, le imprese di copisti precedentemente citate sono state sostituite da stampatori di professione. Tra questi merita ovviamente menzione la stamperia veneziana di Aldo Manuzio, che a cavallo dei secoli XV e XVI diventa il maggior produttore di libri stampati in Europa – le famose edizioni aldine.
Almeno fino al primo decennio del 1500 possiamo parlare di un periodo sperimentale: gli stampatori lavorano a stretto contatto con illustri umanisti, cercando soluzioni tipografiche a vari aspetti della lingua scritta ancora privi di una norma definita. In tal senso citiamo nuovamente Manuzio, che poté contare sulla collaborazione di uomini illustri come Erasmo da Rotterdam e Pietro Bembo. Proprio grazie al lavoro con quest’ultimo fu introdotto nella lingua italiana scritta il segno grafico dell’apostrofo, a indice di elisione.
In questo periodo a essere stampati sono principalmente sacre scritture, classici e libri di oramai acclarato valore. Ciò non significa che non fossero date alle stampe anche opere originali, come, ad esempio, l’enigmatica e raffinatissima Hypnerotomachia Poliphili, edizione aldina del 1499. Ben presto, la stampa dei libri diventa uno dei processi più importanti, all’interno del panorama culturale europeo. Addirittura, nel corso del XVI e del XVII secolo, la stampa di una qualsiasi opera inizia a coincidere come oggi con la sua pubblicazione – non più come prima, dove la pubblicazione coincideva con la divulgazione del testo manoscritto. Come spesso succede, però, nuove tecnologie portano in dono anche nuovi problemi. In questo caso, l’invenzione di Gutenberg solleva quasi da subito i seguenti problemi: se una stamperia pubblica un libro, quel libro può essere pubblicato anche da altri? Una casa editrice può stampare l’opera di un autore senza il suo consenso? A chi spetta il denaro delle vendite?
Proprio per dare una risposta a queste domande e per disciplinare un mercato ancora senza regole, nasce la “patente di privilegio”. La patente di privilegio è da considerarsi come un’antenata del moderno copyright; essa, infatti, assicurava a un editore il diritto esclusivo ma temporaneo per stampare una determinata opera e ricavare denaro dalla sua vendita. Per comprendere la precocità con cui si presentò il problema, basti pensare che la prima patente fu rilasciata nel 1469 a Venezia, allo stampatore Giovanni da Spira (con la durata di cinque anni). Ora, la patente di privilegio, per quanto costituisse un nobile tentativo di regolamentazione, non riuscì nel suo intento normativo. I privilegi rilasciati avevano valenza territoriale. Questo vuol dire che le patenti rilasciate dalla Repubblica di Venezia avevano valore solo nel territorio della Serenissima, e così via. Se il già citato Giovanni da Spira poteva godere di un monopolio di stampa in territorio veneziano, fuori dai confini patrii tutti i suoi diritti decadevano. L’unica autorità che poteva rilasciare patenti di privilegio universali era il papa.
Questo sistema non andava a ledere troppo gli editori, che potevano fare affidamento comunque sul mercato locale e sul pregio e la fama delle loro stampe. Anche in questo caso Aldo Manuzio fa scuola: oltre a essersi assicurato patenti di privilegio su tutte le opere da lui stampate, riuscì a ottenere la patente di privilegio anche sui particolari caratteri da lui utilizzati, creati dal famoso tipografo bolognese Francesco Griffo – inventore, appunto, del corsivo tipografico. A rimetterci, piuttosto, erano gli autori che mandavano la loro opera in stampa. Questi raramente riuscivano a guadagnare qualcosa dalla vendita libraria, perché raramente riuscivano ad ottenere patenti di privilegio. Gli editori, da parte loro, difficilmente pagavano gli autori. La pratica più diffusa, soprattutto nel XVII secolo, era quella di ricompensare lo scrittore donandogli un certo numero di copie stampate. Se anche avessero ottenuto le patenti delle loro opere gli introiti sarebbero stati minimi, anche perché l’autore in questione avrebbe dovuto comunque trovare un accordo economico con qualche centro di stampa. Ottenere il privilegio universale dal Papa, poi, era molto complesso, e per certi versi inutile. Anche se fosse stato concesso, la situazione non sarebbe cambiata: i controlli erano quasi nulli e le stampe non autorizzate erano all’ordine del giorno. L’esempio di Ariosto è indicativo: il poeta cercò, nell’arco della sua vita, di ottenere più patenti di privilegio territoriali possibile, al solo scopo di salvaguardare il suo Orlando Furioso da stampe clandestine – solitamente piene di errori e poco curate.
Con l’avvento della stampa cominciò dunque a muovere i primi passi anche il mercato librario, senza però che poeti e intellettuali riuscissero a sfruttarlo economicamente. Il loro destino restò ancora indissolubilmente legato alle corti. Anzi, il rapporto si rafforzò soprattutto in Italia: l’affermarsi di alcune ricche signorie dedite al mecenatismo, come la dinastia estense a Ferrara, fece sì che i poeti entrassero più stabilmente al servizio delle corti, grazie all’elargizione di vitalizi.
Ma dove non poté la stampa, riuscì parzialmente il palcoscenico.
A partire dalla seconda metà del XVI secolo si aprì una nuova via, ai poeti, per poter guadagnare denaro dalla propria arte: il teatro. Non che si presentasse come un percorso semplice: per iniziare il mestiere del drammaturgo era necessario legarsi a qualche compagnia di attori. Queste compagnie erano solitamente itineranti, dunque viste con grande sospetto e disprezzo. L’Inghilterra offre un ottimo esempio di tutto ciò: scrivere opere teatrali era proibito agli esponenti della nobiltà, poiché vista come una pratica giullaresca (per lo stesso motivo, ai nobili era vietata pure la pubblicazione di poesie). Le varie autorità cittadine, temendo che gli spettacoli teatrali provocassero trambusti e disordini indesiderati, proibirono la costruzione di teatri nel perimetro delle mura, così che questi sorgevano tutti fuori città. Questi teatri erano delle costruzioni in legno simili ad arene – dunque all’aperto – con il palcoscenico circolare circondato da tribune – con eccezione di un lato riservato ai camerini degli attori.
Per quanto le autorità pubbliche vedessero di cattivo occhio queste esibizioni, le recite teatrali godevano invece di un grande successo di pubblico, oltretutto eterogeneo, dato che esistevano biglietti di diverse tariffe. I meno abbienti pagavano il biglietto più economico, potevano così assistere allo spettacolo in piedi, attorno al palcoscenico, esposti a qualsiasi tipo di intemperie. Gli aristocratici usufruivano delle tribune coperte. La nobiltà, dunque, non poteva produrre testi teatrali, ma poteva assistervi; pure la regina apprezzava le recite teatrali, in quel caso, però, gli attori erano chiamati ad esibirsi a corte. Addirittura, i nobili potevano prendere alcune compagnie teatrali sotto la loro protezione, assicurando loro un rilievo sociale maggiore rispetto ad altre. Ovviamente, anche il sovrano stesso poteva farsi protettore di una compagnia, che automaticamente diventava la più importante del regno.
Gli incassi del teatro riguardavano il proprietario e gli attori. L’autore, da parte sua, si guadagnava da vivere o vendendo i suoi copioni, o arrivando a un accordo con la compagnia teatrale. Più opere di successo scriveva, più era considerato abile, più veniva pagato. Shakespeare, con i proventi dei suoi drammi, acquisì una quota della compagnia teatrale con cui lavorava, che proprio grazie a lui era diventata la più famosa del regno. Sul successo di un drammaturgo gravava ovviamente anche il giudizio del sovrano: la produzione e la compagnia shakespeariana poterono contare sul favore sia di Elisabeth che del suo successore: questo assicurò al poeta un discreto successo economico.
Il caso di Shakespeare, però, non deve trarre in inganno: il mestiere del drammaturgo era costantemente legato alla risposta del pubblico o al favore dell’aristocrazia, dunque viziato dal terrore dell’insuccesso.
Nel corso del XVII secolo il genere teatrale acquisì maggiore rilevanza sociale tanto in Inghilterra che nel resto d’Europa. La conformazione architettonica dei teatri cambia, diventando più simile a quella che conosciamo oggi. Non solo, cominciano a essere costruiti dentro il perimetro delle mura cittadine e ad essere considerati edifici prestigiosi. Il mestiere del drammaturgo diventa a tutti gli effetti uno dei pochi con cui un letterato riesce a guadagnare buone somme di denaro. In questo caso, è necessario appellarsi a Molière. Egli, infatti, non cerca più di guadagnare denaro tramite la vendita del copione o tramite la sua pubblicazione a stampa, bensì comincia a stipulare accordi con i proprietari dei teatri: la rappresentazione dell’opera in cambio di una percentuale sulla vendita dei biglietti. Il fatto che questa operazione convenisse a Molière, conferma quanto precedentemente detto sugli introiti derivanti dalla stampa.
La possibilità di introiti derivanti dall’esercizio della propria scrittura, però, non emancipò comunque i poeti dalle corti. A parte il sistema di protezione già citato, i vari poteri riuscivano a mantenere un certo controllo sulle produzioni tramite la censura. I testi delle varie rappresentazioni non dovevano contenere critiche all’operato o alla figura del sovrano. Questa pratica è molto diffusa, ad esempio, in Francia, nel periodo che va da Richelieu al re Sole. I passi sospetti o non graditi erano solitamente espunti o rimaneggiati. In questo caso, è indicativo il finale del Tartuffe di Molière. Avere il favore del sovrano aveva ancora un’importanza dirimente per la carriera di un drammaturgo. Il legame con le corti dunque non è solamente di tipo economico, ma anche relativo allo status sociale dello scrittore. Tramite la sua autorità, il signore poteva dare, al poeta e al drammaturgo, quella fama e quel riconoscimento sociale che era difficile guadagnarsi solo con le proprie forze. Parimenti, il signore poteva anche rovinare una volta per tutte l’immagine di un suo potenziale protetto. Questo provocava tensioni, paure e invidie all’interno del mondo delle Lettere, nonché amare riflessioni sulla sorte e sulla mutevole fortuna degli individui. Per osservare un’evoluzione nella condizione del poeta, sarà necessario attendere il XVIII secolo.