Docente di Filosofia e Storia, ha pubblicato in riviste di settore, on-line e tradizionali, studi che concernono in particolare la Filosofia politica. Gli argomenti trattati riguardano autori come Aristotele, Agostino, Machiavelli, John Stuart Mill, Leopardi e tematiche più generiche come il rapporto tra l’etica e la politica, la relazione tra la legge e la giustizia, il liberalismo contemporaneo, la coppia politica destra e sinistra.

La persona di Socrate è una di quelle figure simboliche, universalmente riconosciute, che non conoscono tramonto, ammirate e ricordate per la loro peculiarità e, come nel suo caso, ancor più celebri perché vittime di una morte ingiusta.

Riconosciuto come uno dei suoi padri nobili, è spesso indicato come il simbolo stesso della filosofia – come dice qualcuno, non parlava per sé ma in nome della stessa filosofia –, eppure non ha mai scritto nulla e non ci ha lasciato nessuna opera dalla quale attingere il suo pensiero. Questa precisa scelta è dovuta alla sua personale convinzione che la scrittura snaturerebbe l’indole essenzialmente dialogica della filosofia. Ciò che conosciamo di lui, pertanto, lo dobbiamo al fatto che sia diventato un personaggio letterario, a partire dagli scritti del suo discepolo Platone. Vissuto ad Atene nel secolo IV a. C., è conosciuto come un seminatore di dubbi, il “tafano” degli ateniesi, per la sua innata capacità di suscitare inquietudine in coloro che accettavano di interloquire con lui. Passeggiando per le strade della polis, si avvicinava ai suoi concittadini e non li lasciava fino a quando non si rendevano conto che la loro presunta sapienza era del tutto inadeguata. Con la forza critica e dialettica del pensiero svolgeva una funzione sovversiva poiché, come scrive lo storico della filosofia antica Roberto Radice, la filosofia è per vocazione distruttiva, in quanto si impone negando le precedenti e con questo destabilizza lo status quo.

Non si allontanò mai da Atene se non durante la Guerra del Peloponneso, nelle battaglie di Potidea e Anfipoli. Durante il governo dei Trenta Tiranni si rifiutò di arrestare e condurre a morte un cittadino che era stato accusato ingiustamente, rischiando anche sanzioni per questo suo atteggiamento. Una volta ripristinata la democrazia, rimase inviso a molti per la sua amicizia – poi rotta – con Crizia, uno dei Trenta Tiranni, che era stato suo discepolo. E fu il regime democratico a sottoporlo a processo e a condannarlo a morte, nel 399 a. C. quando aveva 70 anni. Le accuse formulate da Meleto e Anito erano quelle di empietà (non riconosceva gli dèi della città) e di corruzione dei giovani. La sua morte, constata Hannah Arendt rappresenta la frattura definitiva tra la filosofia e la politica, poiché quest’ultima ha fatto ricorso alla violenza per eliminare l’uomo che per antonomasia incarnava l’onestà e il coraggio di dire il vero.

Secondo lo scrittore e filosofo francese Pierre Hadot ci sono due modi di intendere la filosofia, l’uno dedito alla pura speculazione, l’altro intende la ricerca come un vero e proprio stile di vita. Nel secondo caso Socrate è un modello indiscusso nei secoli. Quali sono dunque gli insegnamenti di Socrate, che cosa può suggerire anche a chi non sia un costante studioso di filosofia? Proprio perché intende la filosofia più come metodo e stile intellettuale – o, se si vuole, modo di vivere – che come dottrina o sistema di contenuti, può essere un punto di riferimento per tutti, un esempio con il quale chiunque si può confrontare. Nel dialogo platonico del Teeteto, egli afferma di praticare l’arte della maieutica, la stessa che esercitava sua madre Fenarete, che era una levatrice, ma mentre questa assisteva i corpi, Socrate si occupava delle anime, aiutava le menti a partorire e generare la verità, una verità non indotta da altri, ma proveniente dal proprio intimo e che consiste nel liberarsi dalle false certezze di cui si è prigionieri.

Come il parto è preceduto da un travaglio, così anche la generazione della verità non è da meno, perché procura tormenti, quando non vere e proprie tribolazioni. Dalla riflessione interiore, dal ragionamento che produce il dubbio, dal dibattito che apre alla revisione delle proprie posizioni consolidate e sedimentate nel tempo, può nascere un uomo nuovo, ma proprio per questo è inevitabile la sofferenza ed è certo che l’animo ne esca lacerato. Ma come la gioia di una nascita umana fa dimenticare le pene sostenute nel travaglio, così la bellezza di essersi rinnovati non si può in nessun modo paragonare al momento doloroso in cui si avverte il passaggio dall’insensatezza alla piena consapevolezza. Menone, nell’omonimo dialogo, definisce la sensazione che procura l’incontro, e soprattutto il dialogo con Socrate, destabilizzante e affascinante nello stesso tempo e paragona il filosofo a una torpedine marina, un pesce che dà la scossa quando lo si tocca.

Socrate, anche prima di incontrarmi con te, sapevo per sentito dire che tu non fai altro che mettere in dubbio te e gli altri; ora, poi, come mi sembra, mi affascini, mi dài beveraggi, m’incanti, tanto da non aver più via d’uscita. […] Sono veramente intorpidito nell’anima e nella bocca e non so più come risponderti (Platone, Menone, 79 e-80 a; 80 b).

Socrate intorpidisce e paralizza gli altri non perché voglia insegnare loro qualcosa, non perché sia in possesso della chiave per leggere la realtà, ma semplicemente perché egli stesso è tormentato perennemente dal dubbio. Tuttavia è bene chiarire che l’azione di confutare l’altro, di mettere in rilievo le sue contraddizioni, di controbattere instancabilmente alle sue affermazioni non è fine a se stessa. Quando, sotto il peso delle stoccate, si frantuma il castello delle credenze socialmente consolidate, sorge finalmente la passione per la ricerca e se ne possono apprezzare il tono e le vibrazioni. Non si resiste più al prurito della curiosità, si viene dominati dal gusto di guardare sempre oltre, dove si scopre che la bellezza di molti bagliori luccicanti era del tutto illusoria e si ammirano sempre di più le forme plurali della libertà.

È questa la grandezza di Socrate, la sua parresia, il coraggio e la franchezza di dire le cose come stanno, di non chiudere gli occhi per quieto vivere. Ci vorrebbe un Socrate per ogni stagione, per scuotere i più quando sono vinti dall’inerzia della quotidianità e hanno smarrito la forza di guardare in un senso diverso da quello già tracciato. Ci vorrebbe un Socrate per ogni generazione, per pungolarci quando ci arrocchiamo nelle nostre sicurezze, quando si avvilisce l’esercizio del libero pensiero che è capace di mettere in discussione il dogma della consuetudine. Il pensiero non deve mai perdere la facoltà della provocazione e della negazione, nel senso filosofico del termine, per poter usufruire di una nuova prospettiva, diversa da quella che procede nella direzione della corrente, sempre uguale a se stessa. Del resto, come è stato molte volte rilevato, se non si avesse il coraggio di sottoporre qualcosa alla critica non ci sarebbero mai novità e cambiamenti. Tutti gli uomini, non solo i filosofi e gli intellettuali, non si dovrebbero mai sottrarre al dovere della riflessione sulle numerose questioni poste dalla vita. Non si può rinunciare all’audacia del pensiero per mera comodità o per vile tornaconto.

Il merito di Socrate è quello di aprirsi al confronto con la pluralità delle opinioni, ma nello stesso tempo costringe ciascuno a renderne conto, obbliga ad una verifica comune, affinché le opinioni non si cristallizzino in verità arbitrarie. Socrate non intendeva proporre il punto di vista delle sue verità, ma contrastare il dogmatismo delle opinioni e chiedeva a tutti di esporre la propria visuale per poter migliorare l’opinione di ciascuno. Il pensiero è attività critica più che bagaglio di conoscenze oggettive.  Il pensare, secondo Hannah Arendt, è «la più libera e pura fra le attività umane», la facoltà di giudicare, della quale è componente essenziale la riflessione, ossia il dialogo che si svolge in solitudine tra sé e sé, il dialogo silenzioso dell’anima con se stessa. Anche in questo Socrate, scrive la filosofa tedesca, è stato un modello e, a riguardo, nel Gorgia ammette che preferirebbe essere in disaccordo con il mondo intero piuttosto che con se stesso. La capacità di pensiero fa in modo che ognuno porti dentro di sé un testimone a cui non può sfuggire in nessun luogo del mondo e che nessuna distrazione può far addormentare, un testimone che può in ogni momento costituirsi in tribunale e giudicare il proprio io. Al suo cospetto nessuno si può esimere dal rendere conto delle proprie azioni e dei propri pensieri.

Per l’autrice, Socrate è una sorta di antidoto contro la banalità del male. Come è noto, la Arendt partecipò come reporter al processo che si celebrò a Gerusalemme contro il gerarca nazista Adolf Eichmann tra il 1961 e il 1962. I suoi resoconti sono stati poi raccolti nell’opera intitolata La banalità del male. Da questa esperienza nasce la contrapposizione tra Eichmann e Socrate. Il primo non è descritto come un personaggio malvagio, anzi segue i suoi principi morali, a partire da quello dell’obbedienza, perché è un mero esecutore di ordini, al quale la sua coscienza conformista non rimprovera nulla. La sua obbedienza cieca e meccanica è dovuta proprio al fatto che è incapace di pensare, di riflettere criticamente su quello che sta facendo, sul contenuto di quegli ordini che gli erano stati imposti. La coscienza socratica, al contrario, guarda al di là del senso prescrittivo e di ciò che è già stato giudicato; il potere critico e negativo del pensiero diffida i soggetti dall’accettazione passiva di regole precostituite e dal compiere azioni che abbiano il sapore dell’ovvietà.

Un ulteriore aspetto dell’attività socratica è il contrasto alla falsa sapienza, che genera la superbia fondata sull’ignoranza. La ricerca della sapienza per Socrate è accompagnata dall’ansia di chi è consapevole dei propri limiti, di chi conosce bene i confini della propria conoscenza. Quando gli fu riferito il responso dell’oracolo di Delfi, che lo indicava come il più sapiente degli uomini, ne fu turbato e, per cercare di capirne il senso, si recò ad interrogare alcune persone che pensava fossero più sapienti di lui. Il tentativo fu deludente e confermò in lui la consapevolezza che se anche non era in possesso di una conoscenza adeguata, per lo meno non aveva la pretesa di essere un sapiente. E questo era un motivo in più per continuare a cercare e aiutare gli altri a fare altrettanto. Una vocazione che per lui valeva quanto la vita stessa. Nel discorso in sua difesa, infatti, prospettava la seguente possibilità.

Se voi dunque mi assolveste dicendo così: – Socrate, noi non vogliamo dare retta ad Anito; ti assolviamo, ma a una condizione: che tu non abbia a continuare nella tua ricerca né a dedicarti più oltre alla filosofia; se ti coglieremo ancora, morrai, – ebbene, o Ateniesi, se per mandarmi assolto mi poneste questa condizione, io allora così vi risponderei: – O Ateniesi, io ho per voi venerazione e affetto, ma debbo obbedire a Dio piuttosto che a voi; e finché avrò un soffio di vita e le forze me lo concederanno, non cesserò di filosofare, di esortarvi e di ammonire chiunque mi capiterà (Platone, Apologia di Socrate, 29 c).

Gli fu suggerito anche di accettare l’esilio per avere salva la vita. Un’ipotesi che egli rifiutò decisamente, sia perché era innocente, e quindi non doveva fuggire dalla legge, sia perché svignarsela in altre città non poteva essere in nessun modo, per una persona come lui, una soluzione. Lo chiarì nel discorso tenuto dopo la prima votazione, con la quale il tribunale lo dichiarò colpevole, senza definire ancora la sanzione. Il suo processo riguardava un reato per cui la legge non stabiliva una pena precisa. Sia l’accusatore che l’accusato presentavano quindi una loro proposta. Meleto aveva già suggerito la pena di morte contestualmente all’atto di accusa. In questo momento, dopo aver ribadito di non meritare alcuna pena in quanto innocente, espresse le sue considerazioni sull’ipotesi dell’esilio, caldeggiato dagli amici, ma che probabilmente era il vero obiettivo dei suoi nemici, i quali speravano che per evitare la morte si allontanasse dalla città. A riguardo Socrate spiegò che ovunque egli si fosse recato non avrebbe potuto fare a meno di agire come aveva fatto in Atene. In ogni luogo egli avrebbe ripreso gli stessi discorsi e avrebbe attratto a sé, insieme all’attenzione dei giovani, l’odio dei concittadini e, pertanto, sarebbe stato di nuovo bandito. Qui pronunciò quelle che forse sono le parole più illuminanti, in merito a quella che possiamo definire l’attività socratica. Egli non se ne potrebbe in nessun modo astenere, perché

il più gran bene per l’uomo è fare ogni dì ragionamenti intorno alla virtù e ad altri argomenti su cui mi avete udito parlare ed esaminare me e gli altri; e se aggiungo ancora che una vita senza esame non merita di essere vissuta, voi mi credereste ancora meno. Tuttavia, o Ateniesi, questa è la verità: solamente non è facile persuadervene (Apologia, 38 a).

Ragionare e riflettere su qualsiasi argomento riguardi la vita è l’attività più eminente per l’uomo, poiché una vita senza esame, che cioè non esamina, non mette in questione tutto quanto accade e ci circonda, non è degna di essere vissuta. È una verità di cui però, conclude amaramente Socrate, non tutti sono convinti.

Dicevamo della parresia di Socrate, della sua franchezza nel parlare. Sul Socrate parresiasta si è soffermato Michel Foucault. Quando il filosofo ateniese si difende dall’accusa di essere un corruttore di menti tramite la parola, replica che egli in realtà non sa parlare, non possiede l’abilità del discorso, non utilizza un linguaggio di belle parole e frasi eleganti, come fanno invece i suoi accusatori. Il compito dell’oratore non è convincere, ma dire la verità e non importa la forma in cui la si esprime. La modalità di parola è un aspetto importante, secondo Foucault, della parresia socratica.

Socrate ammette che l’oratoria dei suoi avversari l’aveva talmente affascinato che stava dimenticandosi di se stesso. L’abilità di parola, osserva il filosofo francese, provoca l’oblio di sé, mentre la parola semplice, ma vera, conduce alla verità di se stessi. Verità di sé e oblio di sé sono quindi gli estremi della questione. La missione di Socrate è allora quella di vegliare sugli altri, ammonendoli a occuparsi primariamente non dei loro onori, non delle cariche pubbliche che possono assumere, non delle ricchezze, ma di se stessi, intendendo con ciò la ragione, la verità e l’anima: la cura di sé. Nella cultura greca e in Socrate la parresia si distingue sia dalla profezia – perché non trasmette parole divine, ma anzi le sottopone ad esame – sia dall’insegnamento inteso come trasmissione di conoscenze, perché non consiste in contenuti da trasmettere ma nel porre domande che aumentano interrogativi e incertezze, per guardarsi dalle false conoscenze.

I cittadini di Atene, ad ogni modo, hanno potuto udire la voce di Socrate solo privatamente perché ha rinunciato a salire sulla tribuna per parlare alla folla. Il motivo è spiegato dallo stesso filosofo: se si fosse occupato attivamente di politica all’epoca sarebbe già morto. Un personaggio scomodo come lui, che non si faceva problemi a denunciare la decadenza e la corruzione delle istituzioni, sarebbe stato ben presto odiato, perché mettere in evidenza pubblicamente l’ingiustizia e l’illegalità significa mettere a repentaglio la propria vita. Non si tratta tuttavia di una pavida rinuncia, ma della consapevolezza che in questo modo non avrebbe recato vantaggio a nessuno, avrebbe perso la possibilità di occuparsi dei suoi concittadini e prendersi cura di loro, stimolandoli, correggendoli, esortandoli. Altre occupazioni, come magistrature e interessi privati, gli «avrebbero procurato salvezza», ma non avrebbero giovato né a lui né ai suoi. Ha preferito, invece, «recare […] a ciascuno di voi privatamente il maggior beneficio possibile, cercando di persuaderlo a non avere cura delle sue cose prima che di se stesso, affinché divenisse quanto più possibile buono e saggio» (Apologia, 36 c).

La rinuncia all’atto parresiastico pubblico per Socrate ha una finalità pratica e, paradossalmente, di utilità pubblica: evitando lo spazio pubblico e la morte ha potuto fare qualcosa per gli altri in forma privata. Non ripudiava il pubblico, ma trovava il modo di farlo crescere attraverso il privato. Il silenzio politico a favore di forme diverse di espressione pubblica – è stato fatto notare – è una condizione non estranea al mondo degli intellettuali, che ha contraddistinto anche l’attività dello stesso Foucault. Quando la parola provocatoria, che invita a rileggere criticamente il presente, non è ascoltata, a prescindere dalla costituzione democratica o non democratica del potere (non dimentichiamo che Socrate fu condannato dalla democrazia) quello che appare un silenzio non è un rifiuto, ma una forma diversa di testimonianza.

Se Socrate non guarda in faccia a nessuno e cerca sempre di scrutare l’orizzonte al di là delle apparenze, se non si spaventa di mettere in discussione qualsiasi cosa, potrebbe sembrare un po’ fuori luogo la sacralità che attribuisce alla legge. All’amico Critone che cercava di convincerlo con tutte le ragioni possibili di salvare la vita attraverso la fuga, rispose che se entrambi fossero scappati le Leggi della città li avrebbero raggiunti e avrebbero interrogato Socrate sui motivi della sua scelta, ricordandogli che con il suo gesto avrebbe distrutto loro e tutta la città (Platone, Critone 50 a-b).

Le Leggi ricordano al fuggiasco che ogni uomo è cittadino solo grazie ad esse e non può essere ammessa alcuna violenza nei loro confronti. Una salvezza raggiunta a scapito delle Leggi non avrebbe prodotto una vita degna. L’anticonformismo di Socrate si ferma di fronte alla santità della legge. In questo è figlio del suo tempo. Si possono cambiare le leggi, ma finché sono in vigore non è lecito opporsi ad un’ingiustizia contravvenendo alle regole.

Nei secoli a seguire in molti si porranno la domanda sul rapporto tra legge e giustizia e il quesito su come comportarsi nel caso in cui una legge sia palesemente ingiusta. Socrate, accusato ingiustamente, non si è sottratto e si potrebbe discutere se questo sia conforme o in contraddizione con il suo modo di agire. Durante il regime dei Trenta Tiranni, l’abbiamo visto, si rifiutò di eseguire una sentenza ritenuta iniqua, ma per se stesso non fece altrettanto. Comunque, al di là di queste interpretazioni, ciò che dobbiamo accogliere come eredità socratica è la sua esortazione ad osare sempre con il pensiero.

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