Damiano Lembo (1990) è dottore in Scienze politiche presso l’Università di Pisa e cultore di materia in Storia contemporanea all’Università degli Studi Roma Tre. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Scienze Politiche presso l'Università di Pisa con una tesi dedicata a "La democrazia di Gaetano Salvemini nella cultura politica europea". Si interessa in modo particolare alla storia d’Italia e al pensiero politico italiano, soprattutto in relazione a liberalismo e democrazia, parlamentarismo e antiparlamentarismo, meridionalismo ed europeismo. Tra le sue pubblicazioni: Tra l'Italia e l'Europa: la proposta federalista di Gaetano Salvemini (in «Politics. Rivista di Studi Politici»”, 14, 2/2020, pp. 19-38); Il governo Fortis. Genesi, sviluppi, crisi (1905-1906) (in «Studium», 3/2022, pp. 436-460); Aurelio Saffi, Alessandro Fortis e l'eredità mazziniana(in «Itinerari di ricerca storica», XXXVII, 1, nuova serie, 2023, pp. 39-58); Gaetano Salvemini e la questione risorgimentale (in «Storia del pensiero politico», 13, 1/2024, pp. 39-62).

Recensione a: S. Bucchi, La filosofia di un non filosofo. Le idee e gli ideali di Gaetano Salvemini, Bollati Boringhieri, Torino 2023, pp. 320, € 26,00.

Il volume di Sergio Bucchi, uscito in occasione del centocinquantesimo anniversario della nascita di Gaetano Salvemini (1873-1957), si presenta come una sontuosa ricostruzione della traiettoria intellettuale e politica dello storico pugliese. Dedicato a Enzo Tagliacozzo, che situò Salvemini nell’alveo dei maestri della democrazia novecentesca, tale volume si colloca nel già vasto panorama degli studi salveminiani. Dopo quella di Charles Killinger del 2002, mancava in ogni caso da oltre vent’anni un’opera che prendesse integralmente in esame la lunga, complessa e intricata vicenda salveminiana, senza tuttavia la pretesa – puntualizza in apertura lo stesso autore – di assurgere a biografia esaustiva del pensatore di Molfetta.

Fra i suoi più importanti e autorevoli studiosi, Bucchi si muove con un’acclarata maestria all’interno dei testi e dei carteggi di Salvemini, opportunamente contestualizzati anche con il sussidio di un aggiornato e sostanzioso apparato bibliografico. Egli recupera e sistematizza inoltre nel libro una serie di suoi articoli, saggi e interventi in convegni, integrandoli, approfondendoli e riadattandoli al motivo ricorrente e predominante della narrazione: la non filosofia salveminiana. Sia pure rispolverata originalmente da Massimo Salvadori, la paternità di tale espressione si deve effettivamente attribuire a Norberto Bobbio; il pregio di Bucchi risiede perciò non solo e non tanto nell’averla egregiamente ed efficacemente riesumata, quanto piuttosto nell’essere riuscito a declinarla in modo assai specifico e pertinente sulla base delle diverse scansioni temporali dell’itinerario intellettuale e della militanza attiva di Salvemini.

Nonostante la siderale distanza che lo separava per ragioni ideologiche da tutti i sistemi dottrinali, ai suoi occhi troppo rigidi e dommatici per la comprensione e la spiegazione del divenire storico, Salvemini aveva una sua particolare filosofia gravitante attorno ai concetti di storia e democrazia. Come pure ha fatto recentemente Maurizio Degl’Innocenti da un’altra prospettiva, Bucchi tiene giustamente a sottolineare che per Salvemini i principi della dottrina democratica potessero «essere assimilati alle premesse fondamentali della concezione empiristica della storia» (p. 177). La sua era inoltre una filosofia improntata su una forte moralità che gli proveniva da uno spiccato interesse per l’apostolato di Giuseppe Mazzini, benché sganciata dai principali modelli idealistici. Al tempo stesso, era condizionata dal positivismo del suo maestro fiorentino, il liberale Pasquale Villari, e di un altro grande protagonista del movimento democratico risorgimentale, Carlo Cattaneo, manifestandosi concretamente in una continua guerra alle ingiustizie e ai privilegi sociali, peraltro non priva di rimandi al marxismo.

Bucchi cerca con successo di compattare un paradigma teorico contrassegnato da tensioni argomentative ingenerate dalla coesistenza di fattori contrastanti, proponendo una soluzione di continuità tra l’evoluzione di Salvemini in ambito storiografico e le sue istanze politiche costantemente sorrette, fino all’ultimo, dalla triade inscindibile di liberalismo, democrazia e socialismo:

Liberalismo, democrazia, socialismo sono, nell’ordine, le tappe essenziali del processo che segnò il più grande movimento di emancipazione che la storia avesse conosciuto: movimento che aveva avuto nella Rivoluzione Francese la sua fase nascente e aveva poi caratterizzato di sé la formazione dell’Europa civile dell’Ottocento. Sono i lemmi del lessico politico del secolo diciannovesimo: fra di essi c’è distinzione, ma non contrapposizione. E sono i lemmi intorno ai quali Salvemini costruì la sua visione politica (p. 221).

L’Autore individua nel distacco dal manicheismo marxista e nell’accostamento a Cattaneo un punto di cesura determinante nella parabola storica e intellettuale di Salvemini, che coincise anche con la sua avvertita esigenza di interloquire con le teorie elitiste. Tale punto di cesura funse in lui da apripista a un dialogo sempre più assiduo fra liberalismo e socialismo in prospettiva del pieno compimento della democrazia, malgrado la sua acerrima critica riservata alle condotte giolittiane. Essa non fu d’altronde mai rinnegata, ma in seguito rivista e lucidamente inserita nel processo di democracy making durante il «dibattito politico e storiografico accesosi nell’Italia uscita dal fascismo intorno all’eredità di Giolitti» (p. 201).

È nel passaggio dal XIX al XX secolo che viene fissato il momento in cui Salvemini imparò «a opporre la concretezza di Cattaneo» agli «schematismi di un marxismo ridotto a ideologia» (p. 38), anche se il picco della sua attenzione verso il filosofo lombardo sarebbe stato raggiunto nel 1922 con l’introduzione a un’antologia cattaneana: essa rappresenta infatti «uno dei più brillanti scritti di Salvemini sul Risorgimento» (p. 109), per lo studio del quale egli aveva rivendicato la transizione dalla «storia aneddotica alla storia scientifica» (p. 87). La scoperta di Cattaneo comportò innanzitutto un’inversione di marcia nell’impostazione metodologica di Salvemini, agli esordi prevalentemente orientata dai parametri del classismo e del determinismo economico alla Achille Loria, come ben si evince da Magnati e Popolani in Firenze (1899), «il majus opus medievistico […] che gli aveva permesso di andare giovanissimo in cattedra» (p. 61).

Le conseguenze di tale scoperta si resero già evidenti in opere dello spessore di Rivoluzione francese (1905), di cui Salvemini andava particolarmente fiero, e si estesero frattanto al piano della riflessione teorica e della lotta politica portandolo a ricusare in via definitiva il sovversivismo, verso cui aveva sempre nutrito seri dubbi, quale mezzo per il conseguimento della democrazia. Salvemini si faceva ora interprete di un «altro socialismo» (p. 120), distante dalle rabbiose istanze della rivoluzione proletaria tanto quanto dal riformismo sociale di Filippo Turati, a suo avviso colpevole di aver tralasciato le esigenze dell’intera classe lavoratrice a beneficio esclusivo delle aristocrazie operaie e favorito una potenziale degenerazione oligarchica nell’iter emancipatorio delle masse. Proponeva un nuovo riformismo, civile e politico, tale da produrre effettivi benefici sul terreno sociale ma a partire dall’allargamento all’intera popolazione delle conquiste del liberalismo, senza in ogni caso illudersi che le moltitudini contadine del Mezzogiorno fossero in grado di utilizzare sapientemente strumenti come il diritto di voto prima di essere state istruite dal più edotto proletariato settentrionale. Lo storico pugliese coniugava così la rivendicazione dei diritti del liberalismo con l’uguaglianza postulata negli assiomi socialisti e il senso del dovere e della solidarietà che contraddistingueva la democrazia risorgimentale.

In questo quadro Bucchi sostiene con assoluta padronanza contenutistica che l’allontanamento di Salvemini dal Partito socialista italiano (1911) non possa essere ridotto a una sconfessione del socialismo tout court, intravedendo al contrario nel concretismo della rivista salveminiana «L’Unità» (1911-1920) la lineare prosecuzione di un’azione politica che si modulava a seconda del decorso storico. E sulla scia di Gaetano Pecora, che ha parlato di una storia lunga proprio in riferimento al rapporto di Salvemini con il socialismo, l’autore del volume sottolinea che la pubblicazione di Tendenze vecchie e necessità nuove del movimento operaio italiano (1922) fosse, «già dal titolo, […] quanto mai esemplare della mai sopita ricerca da parte di Salvemini di forme originali di socialismo, che, senza metterne mai in discussione l’ispirazione etica e politica da cui traeva origine, si confrontassero con una realtà in continua evoluzione» (p. 138).

Ciò contribuì all’ulteriore avvicinamento di Salvemini ai principi del liberalismo e successivamente all’ammissione che soltanto nelle dinamiche istituzionali della democrazia liberale potessero risiedere le più adeguate garanzie delle libertà fondamentali di fronte ai sistemi totalitari.

Nel 1925 Salvemini fu costretto all’esilio, muovendosi tra Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti e facendo poi definitivamente ritorno in Italia soltanto nel 1949 per dedicarsi al «progetto di terza via» (p. 236) sullo sfondo dell’antagonismo politico-elettorale che vedeva coinvolti Democrazia cristiana e Partito comunista italiano. Nel solco di una tradizione di studi in parte inaugurata da Killinger – e proseguita con il volume a cura di Patrizia Audenino, l’introduzione alle lettere americane redatta da Renato Camurri e, più recentemente, il libro di Alice Gussoni sull’esperienza londinese di Salvemini – Bucchi si impegna a confutare e addirittura a capovolgere l’immagine quasi caricaturale dell’esule precedentemente proposta da Gaspare De Caro, evidenziando l’alto significato della riflessione politica di Salvemini nel periodo da fuoriuscito.

Protagonista nel 1927 della famosa polemica sul fascismo con il drammaturgo irlandese George Bernard Shaw – già ampiamente sviscerata da Gaetano Quagliariello – Salvemini si trasferì all’inizio degli anni Trenta in terra americana, dove visse stabilmente a seguito dell’ottenimento di una cattedra alla Harvard University. Posizionandosi in continuità con le ricerche di Giulio Azzolini e Fabio Grassi Orsini su Salvemini e la teoria delle élites, Bucchi mostra come quelli fossero stati anni assai fecondi per lo storico pugliese, durante i quali pervenne alla formulazione di un’elegante teoria democratica profondamente condizionata dall’elitismo. Gli influssi di Mosca, soprattutto, si erano già palesati nell’Italia politica nel secolo XIX (1925), saldandosi poi «all’esperienza maturata a contatto con la prassi politica anglosassone» (p. 166). Ma poiché l’elitismo italiano non fu l’unico modello teorico a incidere sulla meditazione democratica di Salvemini, Bucchi tende giustamente a sottolinearne di gran carriera, ricollegandosi anche alle tesi interpretative offerte da Pier Paolo Portinaro, il retrogusto milliano e le similarità con le elaborazioni realistiche del contemporaneo Joseph Schumpeter. Se con quest’ultimo Salvemini aveva in comune la consapevolezza che la competizione elettorale costituisse l’elemento probatorio di una liberaldemocrazia, con John Stuart Mill condivideva l’idea dell’insanabile imperfezione dei sistemi politici e sociali.

In tutti gli scritti americani sulla democrazia, scrive effettivamente Bucchi a tale proposito, l’intellettuale di Molfetta «non aveva mai mancato di porre l’accento sull’assunto su cui si fondano libertà e democrazia: il fatto che nessuno è infallibile e che nessuno, persona o gruppo che sia, possiede il segreto del buon governo» (p. 174).

Loading