Docente di Filosofia e Storia, ha pubblicato in riviste di settore, on-line e tradizionali, studi che concernono in particolare la Filosofia politica. Gli argomenti trattati riguardano autori come Aristotele, Agostino, Machiavelli, John Stuart Mill, Leopardi e tematiche più generiche come il rapporto tra l’etica e la politica, la relazione tra la legge e la giustizia, il liberalismo contemporaneo, la coppia politica destra e sinistra.

Recensione a: D. Fusaro, Demofobia. Destra e sinistra: la finta alternanza e la volontà di schiacciare il popolo, Rizzoli, Milano 2023, pp. 336, € 18,00.

«Destra e sinistra – la cui attualità oggi è pari a quella della dicotomia tra guelfi e ghibellini – esprimono in forme diverse lo stesso contenuto e, in questo modo, rendono possibile l’esercizio di una scelta manipolata»[1]. Con queste parole già alcuni anni fa Diego Fusaro esprimeva un concetto che ora sviluppa ulteriormente nel suo Demofobia. Il motivo per cui bisogna accantonare la vecchia distinzione tra destra e sinistra è legato alla dimensione dello spazio, imprescindibile in politica, che è mutato radicalmente dal tempo in cui la dicotomia è comparsa sulla scena. È indubbio che destra e sinistra hanno rappresentato visioni diverse in un mondo dotato di molte sfumature e gradazioni e il loro modo di rappresentare la spazialità politica del moderno è stata efficace. Su questo punto  Fusaro si espone chiaramente: gli uomini dell’epoca moderna si sono realmente avvalsi dell’orientamento offerto dal cleavage e chi lo nega commette un marchiano errore. Quello che egli chiama annus horribilis – il 1989 – ne ha semplicemente decretato la fine, non l’inesistenza. Il nuovo ordine mondiale globale che si è venuto a formare, però, è tutt’altra cosa, è una babele senza confini, in cui non è difficile smarrirsi. E in questo disorientamento nulla possono destra e sinistra per ricondurci sulla via maestra.

È opportuna allora una rivoluzione copernicana per riorganizzare lo spazio politico secondo una diversa prospettiva, in maniera tale che la schmittiana contrapposizione Freund un Feind, amico e nemico, coessenziale all’ecosistema politico, «possa tornare a fare presa sulla realtà magmatica della politica negli spazi post-euclidei della globalizzazione mercatista»[2]. Come dicevamo, è una questione di spazi, quegli spazi che la globalizzazione ha mandato in frantumi, distruggendo quelli che erano i confini naturali tra un luogo e l’altro. Dunque la globalizzazione è la principale protagonista, ma anche la principale responsabile. E la globalizzazione non è altro che l’affermazione assoluta del capitalismo nella sua forma assoluto-totalitaria[3].

Il capitalismo tradizionale, infatti, è caratterizzato dalla presenza di due classi sociali, fortemente diseguali e per questo in lotta e contrapposizione tra loro, mentre questa forma di «turbocapitalismo» è post-classista, caratterizzato dall’assenza di classi, ma nello stesso tempo contraddistinto da una grandissima e diffusa diseguaglianza. Che si tratti di un capitalismo post-classista non significa che non ci siano più proletari, anzi essi crescono regolarmente di numero, ma non possiedono più una coscienza di classe antagonistica e non sono più consapevoli di essere portatori di ideali comuni. D’altro canto anche parte della borghesia si sta avviando verso un processo di proletarizzazione e, come il proletariato, diviene sempre più succube del precariato, la vera condizione sociale universale della globalizzazione. Questo elevarsi del capitalismo alla forma post-classista rappresenta il suo vero trionfo, la sua vittoria incontrastata. Infatti, nella condizione primigenia della divisione in due classi tra loro avverse, esso viveva in una perenne condizione di fragilità, percorso da una contraddizione interiore che ne moderava le potenzialità. In un certo senso anche il capitalismo, in quel contesto, risultava minimamente precario, mentre ora che è diventato assoluto ha reso precari tutti gli altri.

L’estensione indeterminata del mercato e delle sue leggi ha provocato l’esautorazione della politica e il primato dell’economico. In questo processo il potere degli Stati nazionali è stato gradualmente intaccato a favore di enti sovranazionali postdemocratici, poiché non sono eletti da un consesso popolare e non dipendendo dal consenso democratico, cioè non hanno alcun legame diretto con la cittadinanza. Una vera e propria aristocrazia di «globocrati». La politica è così costretta a cedere il passo alla tecnica e all’expertise, paradossalmente proprio in nome della governabilità. Di fronte a tutti i vincoli esterni che si vedono imposti,

l’azione dei governi cessa vieppiù di essere un’organizzazione democratica della vita pubblica e delle risorse. Si ridelinea come pura regolamentazione tecnica: id est come «tecnopolitica» e mera prassi efficiente di gestione economica affidate a economisti («governi tecnici» che governano per il mercato, in nome della «governabilità») e a distanza di sicurezza dalle mediazioni democratiche. Sotto questo profilo […] la governabilità invocata dalla neolingua liberista non altro è se non il dominio della minoranza plutocratica sulla maggioranza pauperizzata, l’egemonia dei mercati apolidi sul popolo nazionale[4].

Il risultato è la trasformazione del governo in governance e dello Stato in garante della legge liberista del mercato. È la fine del politico, inteso come l’esercizio di un pubblico potere, sottoposto a precise regolamentazioni, che è orientato a plasmare la vita associata. Tale potere si dovrebbe fondare su un insieme di valori che presiedono l’agire collettivo in vista di un futuro da decidere e costruire insieme. Sul modo in cui costruire il futuro si dovrebbero vagliare prospettive diverse e alternative, in merito alle quali il consenso democratico si deve esprimere e deve scegliere il percorso ritenuto più idoneo. Con la governance non vi è più spazio per il dibattito politico né per la decisione sovrana, poiché si entra nell’alveo del “non c’è alternativa” e la gestione della vita pubblica consiste in un passivo adeguamento alle decisioni dei mercati internazionali, questi sì sovrani. E quanti si oppongono e resistono alla tabella di marcia della globalizzazione vengono tacciati di populismo, termine nuovo con il quale si vuole in definitiva negare legittimità al popolo, quando osa pretendere di uscire dalla spelonca nella quale è stato relegato e proporre un punto di vista diverso da quello dei sapienti tecnici, araldi dell’unico orizzonte possibile, quello del mercato globale.

Seguendo il discorso di Fusaro sembra proprio di essere entrati in quella gabbia d’acciaio, della quale non è possibile forzare le sbarre e dalla quale risulta inutile tentare la fuga, che Max Weber descrive come il destino dell’uomo nel capitalismo. Quest’ultimo sarebbe una sorte ineluttabile, coincidente con il processo di razionalizzazione dell’Occidente. Secondo il sociologo tedesco bisogna «saper guardare negli occhi il destino del proprio tempo»[5] e accettarlo virilmente. Il destino dell’uomo occidentale sarebbe quindi quello di ritagliarsi una libertà non al di fuori, ma all’interno della gabbia del capitalismo, scegliere uno dei valori che in essa fioriscono e acquisirlo come proprio, professarlo con assiduità. Se il proprio mondo non si può trasformare, è di necessità adeguarsi e affrontarlo quotidianamente[6].

Non è ovviamente questa l’intenzione di Fusaro, tuttavia anch’egli rintraccia una certa razionalità nel percorso che è stato condotto dal capitalismo. Richiamando esplicitamente l’intuizione di Costanzo Preve[7], l’autore descrive hegelianamente una periodizzazione del processo capitalistico, scandito in tre fasi, distinte da tre figure. «La prima fase del modo capitalistico della produzione […] è quella in cui, agli albori del moderno (dal XV al XVII secolo), il capitale viene al mondo, mediante la violenza dell’accumulazione originaria e della privatizzazione delle terre comuni»[8], è il momento il cui il capitalismo pone astrattamente se stesso. Nella fase successiva il capitalismo si aliena nella sua alterità, contrapponendo a se stesso una classe sociale che lotta contro di esso per abbatterlo, il proletariato. Si viene a creare una polarità conflittuale borghesia-proletariato che tende a negarsi reciprocamente. Vi si può scorgere, in termini hegeliani, «la figura dialettica Servo-Signore pienamente sviluppata: la borghesia dà lavoro al proletariato e, insieme, vive di quel lavoro. Per il tramite di quest’ultimo, […] il Servo proletario acquisisce coscienza di sé e della propria condizione e può agire in vista del trascendimento dell’ordine socio-politico»[9]. L’antagonismo al capitalismo, in realtà, si sviluppa anche all’interno del mondo borghese, in una piccola minoranza che, pur appartenendo alla classe dominante, si rende conto delle ingiustizie che quotidianamente si perpetrano nei confronti della maggior parte della popolazione. Un rimorso di coscienza li rende edotti del fatto che il paradiso in cui essi vivono genera l’inferno in cui risiedono gli altri. Questa porzione di mondo borghese è chiamata dall’autore «coscienza infelice borghese».

La «coscienza infelice» non è che la lacerante elaborazione, da parte di alcuni frammenti della borghesia, dell’impossibilità di conciliare i propri valori emancipativi universali con lo sfruttamento schiavistico proprio del capitalismo, in cui pure è classe dominante. Come la «coscienza infelice» medievale di chi – così nella Fenomenologia dello Spirito – si sente scisso tra il mondo terreno e quello celeste, così la «coscienza infelice» della borghesia scaturisce dalla dolorosa esperienza della scissione tra la propria condizione materiale appagata nella reificazione capitalistica e l’idealità del sogno desto di un altrove finalmente sottratto all’alienazione[10].

Dunque, la contraddizione interna al capitalismo è data dal lavoro servile degli sfruttati e dalla riflessione della «coscienza infelice». Ma questa situazione è solo una fase del processo di evoluzione del capitalismo, non il capitalismo in quanto tale. Quest’ultimo può dirsi pienamente realizzato solo quando diventa assoluto, privo di ogni limite e di qualsivoglia opposizione, sia essa interna o esterna. E il capitalismo diventa assoluto-totalitario quando dalla fase tetica e da quella dialettica giunge «all’unificazione concreta della fase speculativa»: nel momento in cui il «feticismo della forma merce» diventa universale, si globalizza in ogni angolo della terra ma anche all’interno di ogni coscienza: quando tutto si compendia nel capitale e la forma merce arriva a mediare ogni genere di rapporto. Quello che si viene a costituire, allora, è un capitalismo post-borghese e post-proletario, costituito di una sola soggettività omologata, l’homo neoliberalis, «fluido e sempre in movimento, senza legami e senza identità, senza coscienza infelice borghese e senza coscienza oppositiva proletaria»[11]. A proposito di coscienza infelice, la nuova classe che domina la condizione attuale, l’aristocrazia finanziaria, un blocco di post-borghesi apolidi, che mercifica ogni aspetto della vita, non solo ne risulta sprovvista, ma appare dotata di una «incoscienza felice post-moderna», ossia l’assenza di ogni regolamentazione nei consumi e nei costumi. La mercificazione totale, appunto.

È qui che finisce la storia di destra e sinistra, risucchiate per intero, e totalmente confuse fino a sparire, nell’omogeneità del «paradigma turbocapitalistico», orizzonte insuperabile dei nostri tempi. Esse sono nate, hanno avuto un ruolo e hanno svolto una precisa funzione nella fase dialettica del capitalismo. Ora, invece, la destra pretende di rigenerare la famiglia, l’individuo e la nazione sulla base del libero mercato, che è il fattore principale della loro disgregazione. La sinistra, dal canto suo, estasiata dal mito del progresso, ha intrapreso un percorso di riconciliazione con il mercato, che nel progresso individua uno dei suoi punti di forza. Nel quadro del capitalismo post-classista destra e sinistra divengono pertanto parti interscambiabili, che si alternano. Non hanno nulla da proporre al di là di una realtà neoliberale, in cui il mercato la fa da padrone, amministrato da quel blocco oligarchico di tecnici ed esperti di cui si diceva in precedenza.

Tutto quanto è accaduto e sta accadendo non è altro che un processo coessenziale alla logica dello sviluppo del capitalismo. E destra e sinistra ora si muovono nell’orizzonte del capitale, accettato come destino naturale, al pari della gabbia d’acciaio weberiana.

Il fondamento del capitalismo assoluto-totalitario non è più, in ambito socio-economico, la scissione tra la borghesia a destra e il proletariato a sinistra. E non è nemmeno più, politicamente, l’antitesi tra destra e sinistra. Il nuovo fundamentum del global-capitalismo è, invece, la generalizzazione non classista e onniomologante della forma merce a ogni sfera del simbolico e del reale. […] Il turbocapitalismo non è né borghese né proletario. E non è neppure di destra né di sinistra. Ha appunto superato e risolto queste antitesi, valide e operanti nella sua precedente fase dialettica. Con l’avvento del turbocapitalismo, il proletariato e la borghesia vengono «superati» e «sciolti» in una nuova plebe postmoderna […] di consumatori individualizzati[12].

Tramontata l’epoca di destra e sinistra, superata oggettivamente in senso hegeliano, il contrasto politico della nostra epoca, il modo in cui si declina attualmente l’antitesi amico-nemico è quello tra l’oligarchismo liberista dell’alto e il populismo – che Fusaro intende in chiave socialista – del basso. È qui che sorge quello che l’autore chiama «demofobia», ossia il disprezzo, l’«odio conclamato», secondo le sue precise parole, che l’establishment, l’oligarchia che risiede nell’“alto” della sfera sociale e globale nutre per la sovranità popolare, per quella parte del popolo che non si sente da essa rappresentata e rivendica il diritto di non essere esautorata di ogni potere decisionale. Tale demofobia si concretizza nel discredito che si tende ad attribuire a tutto ciò che riguarda il popolo e il suo bisogno di recuperare sovranità. Il primo atto di questo atteggiamento – era stato già accennato – è l’utilizzo del tutto dispregiativo del termine “populismo”, associato all’antipolitica o a forze politiche antidemocratiche. Si configura la lotta hegeliana tra il Signore global-elitario e il Servo nazional-popolare. Il primo vuole unificare un mondo-mercato, reso neutro cancellando le radici culturali dei diversi popoli. Il secondo vi si contrappone elevando come un vessillo le differenti e molteplici culture e tradizioni popolari e nazionali.

Nella difesa delle proprie identità culturali dalla minaccia dello sradicamento globalizzante, il popolo del basso deve prendere come modello, secondo Fusaro, il profilo teorico di Antonio Gramsci. Questi ribadisce costantemente il bisogno di fare riferimento al popolo, affinché l’ascesa delle masse possa assumere una valenza di carattere «nazional-popolare»[13]. Questo può avvenire se il popolo sofferente unisce i propri intenti e la propria capacità di «sentire» alla capacità di «sapere» degli intellettuali, i quali sono in grado di interpretare e difenderne le rivendicazioni. Tale unione esprime la «demofilia», che si esplica nella promozione sociale, economica e culturale del popolo.

Nel determinare i caratteri della sfida del popolo contro la demofobia, Fusaro in realtà allude ancora – per l’ultima volta – a quelle che sono le definizioni di destra e sinistra. Se il Signore dell’alto ha idee di destra – deregulation, privatizzazione – e valori di sinistra – libertinismo e radicalismo –, il Servo del basso deve far proprie idee di sinistra – difesa strenua del lavoro e potenziamento della spesa pubblica – e valori di destra – identità, comunità e tradizioni. Non si tratta, a suo dire, di un ibrido e un’ennesima commistione consociativa di cui la politica è stata spesso protagonista, ma della volontà di respingere sia la destra che la sinistra per riconciliarne le aspirazioni in una prospettiva diversa, anticapitalista, rivoluzionaria e nel contempo conservatrice.

NOTE

[1] D. Fusaro, Il futuro è nostro. Filosofia dell’azione, Bompiani, Milano 2014, p. 74.

[2] Id. Demofobia, cit., p. 229.

[3] Ivi, p. 102.

[4] Ivi, p. 143.

[5] M. Weber, La scienza come professione, Rusconi, Milano 1997, p. 115.

[6] Ivi, p. 113.

[7] Cfr. C. Preve, Storia dell’etica, Pétite Plaisance, Pistoia 2007, pp. 44 ss.

[8] D. Fusaro, Demofobia, cit., p. 88.

[9] Ivi, p. 89.

[10] Ivi, p. 90.

[11] Ivi, p. 96.

[12] Ivi, p. 106.

[13] A. Gramsci, Quaderni dal carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, I, p. 374.

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