Alfonso Lanzieri (1985) ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Filosofia presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Presso lo stesso ateneo è attualmente docente a contratto di Bioetica. È inoltre borsista di ricerca presso l’Università del Molise. Dal 2016 è docente incaricato presso la Facoltà Teologica di Napoli e l’ISSR “Duns Scoto” di Nola-Acerra. È docente di ruolo di Filosofia e Storia nei Licei. Si interessa principalmente di filosofia morale e filosofia della mente. Ha pubblicato saggi e articoli su riviste nazionali e internazionali. La sua ultima monografia è Il corpo nell'anima. Henri Bergson e la filosofia della mente (Mimesis, 2022).

Parlare dell’autunno significa avventurarsi non solo in un repertorio di immagini stagionali, ma in una vera e propria figura di pensiero. Non si tratta di un motivo secondario, né di un ornamento retorico. Nella dottrina degli Stoici, ad esempio, troviamo molteplici prove di una connessione tra l’alternarsi delle stagioni come espressione del Logos universale: il cosmo, ordinato e razionale, si manifesta nel ciclo eterno di primavera, estate, autunno e inverno. Ogni mutamento climatico non è casuale, ma parte di un ordine necessario al quale l’uomo deve accordarsi. L’inverno con le sue prove, l’estate con la sua pienezza, l’autunno con il raccolto e la primavera con la rinascita diventano metafore etiche. Vivere secondo natura vuol dire non ribellarsi al freddo né esaltarsi nel calore, ma trovare equilibrio, esercitare resilienza e serenità interiore.

Il legame tra stagione e pensiero è stato esplorato da molte figure, sia in modo estemporaneo che in maniera più sistematica e consapevole, anche in tempi più recenti. Del resto, la metafora delle “stagioni della vita” è una delle più usate, e pure abusate. Albert Camus, per citare un contemporaneo, raccoglie a suo modo queste intuizioni. Nei suoi scritti dedicati all’estate mediterranea, il sole, la luce e il calore non sono solo dati atmosferici, ma esperienze esistenziali: affermare la vita nella sua intensità, anche di fronte all’assurdo. Dove gli Stoici vedono necessità cosmica, Camus scorge un’occasione di gioia lucida e tragica: vivere l’estate come celebrazione del presente, sapendo che verrà l’inverno.

Focalizzandoci sull’autunno, possiamo valorizzare dei riferimenti espliciti in Nietzsche. Nelle pagine di Umano, troppo umano, ad esempio, il filosofo tedesco osserva: «Gli aristocratici-nati dello spirito non sono troppo frettolosi; le loro creazioni appaiono e cadono dall’albero una tranquilla sera d’autunno, senza essere frettolosamente desiderate, sollecitate, spinte dalla novità. Il volere incessantemente creare è cosa volgare, e rivela gelosia, invidia, ambizione. Se si è qualche cosa, non si ha realmente bisogno di far nulla, — e tuttavia si fa molto. Sopra gli uomini “produttivi”, c’è una specie ancor superiore». Non tutto ciò che è maturo coincide con ciò che è saturo, e non tutto ciò che è pieno coincide con ciò che è riempito. La pienezza non si confonde con la saturazione: essa non consiste nel colmare ogni vuoto con la produttività febbrile, nel sovraccaricare lo spazio con l’estensione di sé, bensì nell’atto opposto, nel ritirarsi che consente a ciò che è essenziale di apparire. Si comprende così che il senso dell’autunno non è la mera malinconia del declino, cui spesso è associato. Può anche essere il farsi spazio di ciò che, finalmente, può essere raccolto. La pienezza, in questa prospettiva, non è un accumulo di quantità, ma un atto qualitativo. Un frutto è “pieno” non perché è sovraccarico, ma perché ha raggiunto il proprio grado di maturazione, il punto in cui è compiuto e, proprio per questo, si offre.

Si resta nel medesimo orizzonte in Così parlò Zarathustra, in cui si legge: «Bisogna finire di lasciarsi mangiare, quando gli altri trovano in ciò il gusto maggiore: ciò sanno coloro che vogliono essere amati lungamente. Ci sono certamente mele immature, cui è destino attendere sino all’ultimo giorno d’autunno: e in una sola volta divengono mature, gialle e aggrinzite. In alcuni invecchia prima il cuore, in altri lo spirito. E alcuni son vecchi nella lor gioventù: ma chi è giovane tardi, resta giovane a lungo». Non tutti i frutti maturano allo stesso tempo: alcuni sono pronti già in estate, altri devono attendere la fine dell’autunno, quando diventano dolci proprio nel momento in cui raggrinziscono. Questa immagine, se applicata agli uomini, suggerisce che i tempi della maturità interiore non sono uguali per tutti. C’è chi “invecchia presto”: il cuore si indurisce o lo spirito si appesantisce già in giovinezza. Altri invece sbocciano tardi, come frutti d’autunno, e proprio per questo conservano a lungo una freschezza giovanile. Nietzsche capovolge così la logica comune: non chi si consuma subito, ma chi matura lentamente, custodisce più a lungo la propria vitalità. L’autunno diventa quindi metafora di una saggezza vitale: non rifiuto della decadenza, ma riconoscimento che il tempo della pienezza può coincidere con l’inizio del tempo del declino. Essere “gialli e aggrinziti” non è perdita, ma segno di compimento: il frutto ha raggiunto la sua verità. Nella luce obliqua dell’autunno si delinea il profilo di chi non si lascia consumare troppo presto, di chi accetta la metamorfosi come via verso la durata.

Per questo, conviene insistere sul punto, fioritura e declino non sono vincolati in modo rigido alle stagioni anagrafiche della vita. La tensione tra germogliare e maturare, tra aprirsi e raccogliere, accompagna ogni fase dell’esistenza. Anche i giovani conoscono momenti autunnali di raccoglimento e raccolto, così come gli anziani possono conoscere improvvise, e inaspettate, primavere di fioritura. Parlare di autunno non significa dunque automaticamente discutere di una vecchiaia che comincia ad avvicinarsi, ma di un modo di vivere il tempo: il tempo che porta frutto, che sa cadere senza spegnersi, che alterna slancio e ritiro. La sapienza dell’autunno è trasversale, e invita ciascuno, a qualunque età, a riconoscere che la vita non è mai una linea unica, ma un ritmo di cicli, di maturazioni e di rinascite. Ritorna la differenza tra pienezza e riempimento: una vita piena non è una vita “occupata”, straripante di eventi, di attività, di esperienze. Una vita piena è piuttosto quella che, avendo conosciuto il limite, si ritrae, si concentra, lascia spazio. Il riempimento si afferma colmando, la pienezza agisce concentrandosi. Quest’ultima è una forma di azione che non appare come atto violento, ma come attrazione silenziosa. La vita in pienezza non ha bisogno di imporsi, perché muove da sé, attira, genera movimento proprio nella quiete: ciascuno qui può pensare alle esistenze che ha incontrato lungo il sentiero della propria via  ̶ un genitore, un maestro, un’insegnante  ̶  che hanno saputo ispirarci ed essere per noi punto di riferimento, non tanto o solo per quello che ci hanno dato, ma per come erano, perché dalla loro vita promanava un’energia silenziosa, una presenza che non cercava di convincere con argomenti o di conquistare con gesti eclatanti, ma che semplicemente irradiava autenticità, una forza mite, che attraeva con l’erotica di una vita vissuta in pienezza, capace di trasmettere fascino, uno slancio vitale che, come avrebbe detto Bergson, rompe gli schemi dell’inerzia e apre al nuovo. Ciascuno di noi può nominare almeno una persona che corrisponde a questo identikit, spero. Accanto a queste figure abbiamo percepito che la vita, quando è piena, non scorre come un orologio fatto di istanti giustapposti, ma come durata viva: un tempo che si addensa, che vibra, che ci avvolge. Cosa ci seduce, più precisamente, di queste esistenze? Il loro essere ánthropos téleios. L’espressione aristotelica delinea l’uomo compiuto, colui che ha portato a maturità la propria natura, non privo di difetti, ma capace di trasparenza, coerenza e unità interiore. In questa umanità vediamo che la pienezza non coincide con la perfezione formale, ma con la forza creatrice che si dona naturalmente, come un frutto maturo che nutre senza proclamarsi.

Nietzsche, con il suo linguaggio di metamorfosi, ci aiuta a tradurre questa intuizione: l’autunno è il tempo in cui la vita si lascia cadere senza rinunciare a sé stessa, il tempo in cui la fecondità si manifesta proprio nel lasciare andare. Da questo punto di vista, l’autunno ci insegna che la pienezza non coincide con il permanere, ma con il compiersi. L’uomo che pretende di permanere sempre nella primavera — di fiorire ininterrottamente — vive nell’illusione di un’eterna giovinezza, che si rovescia facilmente in stanchezza e vuoto. Solo chi sa attraversare l’autunno può conoscere la vera densità della vita: non quella che riempie di stimoli, ma quella che consente di abitare la misura, di riconoscere il limite non come ostacolo, ma come condizione di senso: si deve imparare a vedere la necessità dell’autunno. Accogliere l’autunno significa accogliere il limite come parte della pienezza, non come sua negazione. È qui che la filosofia si fa cura dell’anima, non perché offra consolazioni a buon mercato, ma perché indica un esercizio spirituale: vivere la vita come una totalità che non censura nessuna delle sue stagioni. La pienezza non è un eccesso, ma un equilibrio. Non consiste nel fuggire dal limite, ma nel gustarlo, nel riconoscere che la compiutezza di un’esistenza si misura anche nella capacità di ritirarsi, di lasciare andare, di aprire spazio. Il frutto che cade non è un fallimento, è il compimento del suo percorso. L’uomo che accetta di cadere come il frutto, che non teme l’autunno, conosce quella che Nietzsche chiama la “grande salute”: la forza di dire sì a tutto, anche al tramonto.

Si tratta, a tal proposito, di distinguere, come facevano i greci, tra zoé e bíos. Zoé è la vita in senso assoluto, la vitalità eterna che scorre attraverso tutte le forme viventi, indifferente al nascere e al morire dei singoli. Non conosce la morte, perché non conosce confini: è la forza della germinazione perenne, della linfa che rinasce. Bíos, invece, è la vita individuale, la traiettoria singolare e irripetibile di un essere concreto: la mia vita, la tua, quella di un animale amato, di un volto che passa. Ora, paradossalmente, è proprio bíos a custodire il desiderio di vivere. Perché soltanto chi fa esperienza del limite, soltanto chi incontra il tramonto, può dire davvero: “voglio vivere”. Una vita che non conosce il finire, come quella della pura zoé, non desidera: è indifferente, uniforme, già in un certo senso priva di tensione. L’autunno è la stagione che ci aiuta a entrare in confidenza con questo ritaglio del bíos che ciascuno di noi è. La bellezza del suo declinare – i colori che si accendono mentre la natura si prepara alla caduta – ci insegna che la pienezza non consiste nell’illimitato, ma nella capacità di abitare un tempo finito, un ritmo segnato dal tramonto. La vita in pienezza non consiste nell’inondare la contingenza: è potenziamento della propria singolarità, riconoscimento che ciò che è destinato a finire acquista intensità proprio grazie al suo limite. L’affermatività assoluta, di contro, è morte, vita zombificata. Chi perde di vista lo scarto tra zoé e bíos cerca di vivere nell’indistinto, nell’infinito che diventa allagamento di ogni foro individuale, e così tende – magari inconsapevolmente – alla violenza: all’invasione, alla sopraffazione, all’impossibilità di lasciare spazio alle altre vite. L’autunno, invece, ci ricorda che la singolarità non è contro le altre singolarità: come ogni foglia che cade, essa è parte di un ritmo più ampio, e proprio per questo può risplendere nella sua irripetibile fragilità: ciascuno deve vivere la propria vita e deve morire la propria morte, nel brulichio naturante delle vite naturate.

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