Nicolò Bindi (1991) si è laureato in Filologia Moderna all’Università degli studi di Pisa, discutendo una tesi su “Teoria e pratica del futurismo. Palazzeschi, Marinetti, Soffici”. Interessato principalmente agli aspetti stilistici, metrici e linguistici, sta concentrando le sue ricerche letterarie soprattutto sugli autori delle avanguardie storiche e del modernismo italiano ed europeo. Collabora con diverse associazioni culturali. È docente presso l'Istituto "Francesco Datini" di Prato.
Anche l’edizione di quest’anno lo ha irrimediabilmente e fortunatamente confermato: il monologo di Sanremo rappresenta un genere artistico a sé stante, degno di essere contemplato come uno dei pochi capolavori partoriti dall’Evo contemporaneo.
Esso si presenta come il momento serio e riflessivo di ogni lunga serata dell’Ariston. La frivolezza programmata, dunque, si sospende: l’ospite di turno prende la parola e cerca di regalare al pubblico un alto momento di televisione. Non vi è, in effetti, formula migliore per il disastro: il risultato ottenuto oscilla, solitamente, tra l’imbarazzante e il grottesco. Uno spettatore mediamente colto e provvisto di un ragionevole senso del pudore non può che provare empaticamente imbarazzo, alla visione di un tale scempio. «Perché lo sta facendo?», si chiede ingenuo. «Perché lo stanno trasmettendo?» si domanda poi. «Perché lo sto guardano?», sbotta infine. Ebbene, una sola risposta può soddisfare tutte e tre le domande: è inevitabile che così sia. Per comprendere meglio, è bene analizzare più profondamente i meccanismi che regolano quella raffinatissima forma d’arte che è il monologo sanremese.
La struttura è semplice e geniale al contempo: un personaggio famoso – o presunto tale (il motivo della fama è infatti secondario) – è individuato come ospite d’onore – talvolta anche co-conduttore – di una delle serate del Festival.
Di solito, a regolare la scelta è l’impatto che si crede possa avere sui “giovani”. Su questo punto è bene aprire una parentesi: i “giovani” a cui ci si riferisce non sono i “giovani” reali, poco propensi, in verità, ad avere eroi e idoli. Ci si riferisce, piuttosto, a una certa immagine stereotipata e costruita, che li vuole come una banda di hacker progressisti pronti a buttarsi nel fuoco per degli idoli virtuali costruiti su visibilità mediatica e statistiche di visualizzazione. Il presupposto, dunque, da cui si muove l’idea stessa del monologo è la seguente: usare quegli idoli per educare i “giovani”, per guidarli verso il Bene. Dietro tutto ciò è possibile annusare un calvinismo sui generis: il successo arride a chi possiede la Grazia, dunque è esempio di capacità e rettitudine. Ma se così non fosse? D’altronde, la persona comune, quella a cui il successo non fa nemmeno una smorfietta, non ha un’idea così divinata del successo. Qualcuno addirittura crede che questo possa essere dettato più dalla sorte che da altro. Ecco che il personaggio di successo si risente e si attiva per dimostrare il contrario: il monologo di Sanremo si presenta come occasione ghiotta per mostrare al mondo che non si ha avuto successo per caso, che la Grazia c’è, è lì presente e viva, tant’è che sono capaci Pastori di Popoli.
Il risultato? In ordine sparso: una donna adulta, sposata e con figli che di lavoro promuove sé stessa, scrive una lettera alla piccola sé stessa.
Ci si riprova: una giornalista, per dar prova di profondità, decide di portare l’unica cosa che i giornalisti riescono a concepire come profondo: un tema di stampo sociale.
Avanti un altro: una pallavolista, dichiarando di non voler passare da vittima, fa un resoconto della sua vita nel tentativo di passare da vittima.
Ma non solo: una signora, a quanto pare una comica, racconta agli spettatori che non ha figli, e che non si deve sentire in colpa per questo.
In ciascuno di questi casi, ma anche di molti passati agli archivi delle scorse edizioni, il tentativo di far passare un messaggio universale naufraga miseramente sugli scogli della più cruda autoreferenzialità. Questo vale anche nel caso della giornalista, poiché anche la sensibilizzazione sui temi sociali ha radici profonde nell’autopromozione e nel narcisismo – nonché pochi sbocchi pratici. Dato che non sempre chi recita il monologo è effettivamente provvisto di doti recitative, spesso il sentimentalismo di cui questi testi sono intrisi – degni del peggior naufragio romantico – scadono addirittura nella farsa grottesca: tentativi malriusciti di commuoversi, lacrime che non vogliono saperne di uscire, voce tremante nei momenti sbagliati. Insomma, coloro che si presentano sul palco dell’Ariston per ispirare i cuori degli spettatori e dimostrare che si è avuto successo effettivamente perché si ha una marcia in più, falliscono miseramente in diretta nazionale, davanti a uno share che supera il 60%.
Ci si dovrebbe, a ragione, aspettare fischi, rimostranze, uno share destinato a declinare vertiginosamente. Invece no: applausi, condivisioni social, citazioni sui giornali, successo di dati. Un rito collettivo innalza inverosimilmente tali esperienze a momento cardine della TV di stato. Ovviamente vi è anche chi critica, chi inveisce, ma sempre in un rapporto dialettico: attaccare i contenuti del discorso significa comunque averlo visto; anzi, denunzia pure una certa attesa dell’evento. Così, anche il dover apertamente dichiarare la propria estraneità al fatto – ovvero di non aver neanche acceso la TV – è sintomo di innocenza, poiché ciò parte da una volontà di distinguersi dalla maggioranza. Il presupposto è comunque che “tutti hanno visto”, che “tutti sanno”.
Come mai questo richiamo così potente, per un prodotto di così palese inadeguatezza? È proprio in questo che sta il capolavoro artistico del monologo, il suo più alto ruolo all’interno dei nostri tempi: esso, infatti, inscena e performa la più pura ed essenziale forma di aspettativa.
Leopardi stesso, nello Zibaldone, afferma che per quanto disilluso, l’uomo non potrà mai accettare completamente il nulla. Le illusioni che la propria vita abbia un senso, insomma, sono talmente potenti che la ragione non potrà mai riuscire a disfarsene completamente. In questi termini va analizzata anche la nostra questione.
Per quanto disilluso e scettico nei confronti della persona famosa di turno, lo spettatore non può fare a meno di incuriosirsi. D’altronde, ha davanti a sé quel che reputa una persona di successo, vincente, e per quanto una parte di sé lo avverta che tale persona non possieda, in effetti, il segreto della vita o la formula della felicità, non può fare a meno di cedere e ascoltare ciò che ha da dire. Dall’altra parte, ovvero da quella “vip”, si ha la volontà di accontentare l’esigenza del pubblico, ma la palese impossibilità di farlo, dimostrata sistematicamente dal fatto che tutti questi monologhi cadono presto e facilmente nell’oblio. A questo processo di rimozione rapida abbiamo assistito anche nella corrente edizione: è bastato che un ventenne prendesse a calci dei fiori in diretta, perché il monologo della più grande influencer del mondo cadesse in secondo piano. Ciò che ci viene rivelato è che non sussiste alcuna differenza di merito tra osservatore e attore (da intendersi, in senso generico, come colui che compie l’atto), e che a dividere i due schieramenti, più che la Grazia, o la morale, pare essere solo il concetto di vergogna – più accentuato nell’osservatore, quasi assente nell’attore.
L’esperienza del monologo mette alla luce tutto questo, ovvero scopre la verità che si cela dietro il meccanismo odierno dello star system: una lunga serie di aspettative create, sistematicamente deluse; un tentativo pedagogico naufragato per la poca consistenza della dottrina.
In questo ruolo epifanico, si rivela un legame parentale tra il monologo sanremese e il coro della tragedia – per quanto queste due forme d’arte si trovino, eticamente ed esteticamente, agli antipodi. Come talvolta il coro aveva il compito di rivelare la verità dietro l’azione messa in atto sul palcoscenico, così il monologo sanremese svela l’Orrore Supremo che sta dietro all’odierno sistema mediatico. L’incapacità della diva o del divo di turno, la sua totale assenza di contenuto, è un fatto che si palesa davanti ai nostri occhi con una tale forza, con una tale veemenza che non possiamo fare a meno di applaudire, accettandola completamente e annullandosi con essa, o rifiutarla in toto, in reazione ai tempi. Un aut aut esistenziale, a cui solo le più grandi produzioni artistiche possono far giungere. Parafrasando Montale, è necessario attraversare il monologo di Sanremo per comprendere noi stessi. Da qui l’istinto che ci muove verso di esso.