Nicola Farinelli è laureato in Scienze Politiche presso il "Cesare Alfieri" (Università di Firenze).

Recensione a: V. Savioli, Verso Est. In moto da Riccione a Tokyo, Edizioni Il Cerchio, Rimini 2021 (nuova ediz. ampliata), pp. 260, € 25,00.

Siamo arrivati troppo tardi in un mondo troppo vecchio, come ha scritto lo spagnolo Arturo Pérez-Reverte in uno dei sui romanzi più belli.

Difficile negarlo. La Terra si è rimpicciolita, e si è anche imbruttita. C’è chi l’ha paragonata addirittura a un cassonetto rovesciato… La modernità è stata impietosa. La dimensione del viaggio, dell’avventura è stata cancellata, scomparsa forse per sempre. Surrogata dal turismo. Che nella sua versione di massa – chiunque viva in una qualsiasi città d’arte del nostro Paese lo sa bene – ha provocato danni irreparabili, devastando fisicamente i luoghi come un biblico stormo di cavallette e sopra tutto divorandone l’anima come un tumore maligno… Per fuggire oggi ci restano solo i sogni… Ed infatti – come cantava Francesco Gabbani qualche stagione fa, in un simpatico motivetto estivo – noi adesso “non partiamo mai / ci allontaniamo solo un po’”.

Eppure… Eppure, forse non tutto è perduto. Forse, anche se la via maestra del Viaggio è interrotta (probabilmente per sempre), ci sono ancora tanti piccoli sentieri avventurosi da poter percorrere…

Non è poi così difficile, in fondo, per chi ha buone letture, un poco di coraggio e la giusta disposizione d’animo: basta uscire di casa, chiudere la porta dietro di sé, spegnere ogni “dispositivo” e andare: “voltato l’angolo forse si trova / un ignoto portale o una strada nuova”, chi lo sa?

C’è chi ci prova almeno. C’è chi fatica sui polverosi cammini che conducono a Santiago di Compostela, chi si rifugia in un kibbutz, chi scappa dalla civiltà fino ad arrivare in Alaska, chi attraversa l’Asia coi mezzi pubblici inseguendo una profezia oppure la Francia intera -in diagonale, da sud-est a nord-ovest – a piedi, evitando i sentieri tracciati, per guarire se stesso.

E c’è chi, come Valerio Savioli, se ne va in moto da Riccione a Tokyo, insieme alla sua fidanzata, la gentile e coraggiosa Violante. Un viaggio davvero indimenticabile, uno di quelli – come tutti i veri viaggi, come tutte le vere avventure – da cui in realtà “non si fa più ritorno”. Un itinerario da “20.000 chilometri, forse qualcosa di più o forse qualcosa di meno”, non si sa dire con certezza perché “l’importante era partire avendo cura di tenere l’anteriore della moto costantemente verso est e metro dopo metro raggiungere la fine del mondo”.

E, per arrivarci alla fine del mondo, Savioli ha attraversato non solo spazi reali, ma anche geografie mitiche, rese tali da tanta letteratura, da tanti – forse troppi – sogni: pensiamo alle immense foreste siberiane e al misterioso e profondissimo lago Baikal, ai vagoni della Transiberiana, ma anche a Michele Strogoff corriere dello Zar, ai Cosacchi, al barone von Ungern-Stenberg, a Corto Maltese, a Dersu Uzala…

E noi, rimasti a casa, che altro possiamo fare se non confessare tutta la nostra invidia?! Anche qualora non fossimo – come il sottoscritto – degli appassionati di viaggi sulle due ruote. Un’invidia accresciuta dalla consapevolezza che oggi – e chissà per quanto altro tempo ancora – la sua resta un’avventura non replicabile: per colpa di uno sciagurato conflitto, le cui responsabilità – opinione personale – non ricadono certo tutte sul Cremlino.

Comunque sia, per parziale nostra consolazione, da questa straordinaria esperienza Savioli ha tratto un divertente e originale libro di viaggi: il «racconto di un pellegrinaggio in moto verso Est». È lui stesso a chiamarlo così, nell’introduzione. Mettendo in guardia gli eventuali lettori:

Intendiamoci subito: se quello che cercate è un diario di viaggio che si sussegue in tappe con chilometraggi, tempistiche, consumi di benzina, usura degli pneumatici e prezzi dettagliati di alberghi e ristoranti, rinunciate subito e non procedete. Nel caso che qualche buon’anima ve l’abbia regalato, dategli fuoco e lanciatelo dalla finestra.

Mi ha fatto tornare in mente il giovane Hermann Hesse alla scoperta dell’Italia all’inizio del Novecento, con tutta la sua diffidenza per le guide ad uso dei viaggiatori:

Chi durante un viaggio voglia davvero fare esperienza di qualcosa, voglia davvero gioire e arricchirsi interiormente, non si rovinerà certo il misterioso piacere del primo sguardo e della prima conoscenza con le cosiddette guide «pratiche». Chi giunge ad occhi aperti in un paese straniero, che conosce soltanto da libri e illustrazioni, ma che ama da anni, troverà ogni giorno tesori e gioie inaspettati, e quasi sempre nel ricordo l’esperienza ingenua e improvvisata ha la prevalenza su quanto era stato accuratamente preparato.

Certo, Savioli non è Terzani. Né Tesson. Ma grazie in particolare ad uno sguardo fresco e “meravigliato” ci regala una lettura piacevole e a suo modo avvincente. A cui contribuisce una prosa limpida ed efficace, non esente da un certo lirismo anche, a tratti, come in questo caso:

è proprio l’eccezione alla regola che rende le nostre esistenze meno scontate, la sfumatura che esiste tra il nero e il bianco, il crepuscolo in cui vibrano gli ultimi attimi del giorno prima che si conceda alla notte: la vita scintilla la sua essenza attraverso le rughe del tempo, che non è un cielo limpido ma una volta celeste dove le stelle siamo noi.

Classe 1984, romagnolo, Valerio Savioli è peraltro un personaggio interessante, da seguire con attenzione: è responsabile regionale dell’Associazione Culturale Identità Europea, collabora da anni con varie testate giornalistiche locali e nazionali tra cui “Il Primato Nazionale” e “Fuoco”, ma sopratutto è l’autore di un libro assai importante, fondamentale, anche questo pubblicato dalle Edizioni il Cerchio di Rimini: stiamo parlando di L’Uomo Residuo, il miglior testo che si possa trovare nella nostra lingua – a mio giudizio – su cancel culture e politicamente corretto. Un libro che tutti coloro che hanno a cuore le sorti dell’Europa, di cui tanto si parla in questi giorni, dovrebbero leggere.

Che cos’è l’avventura? È un salto verso la pienezza: l’avventura è il tempo pieno. L’amore e la sete d’avventura provengono dalla convinzione, forse superstiziosa, che non siamo fatti per vedere scorrere il tempo, per vedere come la nostra energia si dissangui e s’indebolisca nel vuoto – calcolabile, incalcolabile – del tempo. E quel tempo sincopato che ci misura – «Tizio, di tanti anni d’età» – è anche il bastone del capo, il volto di pietra del lavoro la cui routine ci defrauda. L’avventura è il tempo che se pure non è ancora oro, è già autentica ricchezza, tempo che non giustifica nessuno stipendio, tempo impossibile da comprare o da vendere; è il tempo che non si perde, che non passa, tempo che non devi ammazzare – non è l’ozio! – o distrarre, è il tempo che non è tempo ma eternità, o, ancor meglio, sospensione di ogni calcolo del suo trascorrere: il tempo intenso, il tempo appassionato… Affinché il tempo passi e sia calcolabile, ogni minuto deve essere formalmente identico ai minuti che lo prevedono e a quelli a venire: nell’avventura il tempo non può essere misurato, in quanto la qualità distingue e individualizza ciascuno dei suoi momenti e lo rende unico. Il tempo dell’avventura non può essere misurato, bensì raccontato. Per questo si situa ben oltre l’utile, mentre invece è intimamente legato al letterario (Fernando Savater).

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