Nicola Farinelli è laureato in Scienze Politiche presso il "Cesare Alfieri" (Università di Firenze).

In un piccolo, originale e prezioso libro dedicato a Firenze – Este sueño de piedra con nombre de ciudad – lo storico dell’arte spagnolo Mario Colleoni afferma:

A Pietro Perugino se le suele conocer, en parte injustamente, como maestro de Rafael, pero es inconmensurablemente más grande que su estelar pupilo. Perugino es a la pintura del Renacimiento lo que Guido Cavalcanti es a la literatura italiana: lira, ciprés, mármol.

E spiega:

No me excedo lo más mínimo. Transformó todos los géneros, poetizó el mundo con su modo de concebir la pintura, insufló el alma a la figura humana – el motu renacentista –, inventó tipologías que hoy nos parecen propias de su tiempo y que, en realidad, no solo eran atípicas, sino que sirvieron de modelo para que siglos más tarde siguieran reinterpretándose. Con su manera de ver la vida elevó el podio de los grandes artistas a la cumbre y, con todo, nadie pudo nunca imitarlo. Una figura irrepetible…

Il Perugino incommensurabilmente più grande di Raffaello.

Un’affermazione perentoria e sorprendente, quasi scioccante, per chi è abituato a considerare il genio di Urbino, assieme a Leonardo e a Michelangelo, la “punta di diamante” del Rinascimento.

Eppure è un giudizio che anche Ruskin e, va da sé, i Preraffaelliti avrebbero tranquillamente condiviso. E che chi scrive queste brevi note, da “profano” (non sono affatto un esperto di storia dell’arte) non esita a fare suo. Il Perugino infatti è stato uno dei maggiori protagonisti – insieme a Benozzo Gozzoli, i due Lippi, il Ghirlandaio, il Botticelli (!) e a tanti altri ancora (compreso qualche artista apparentemente minore, come può essere il Botticini…) – di quel paio di generazioni di “divini” pittori che rese il Quattrocento fiorentino una stagione miracolosa dell’Arte, una stagione insuperabile e di fatto insuperata. Tutto il resto, tutto quanto venuto dopo è soltanto decadenza, arte troppo “umana”, e poi troppo realistica. Compresi i tanto celebrati Michelangelo (parlandone come pittore) e Raffaello. Giudizio del tutto personale, ovviamente.

Ma a chi voglia giudicare da sé, di persona, o comunque conoscere meglio la vita, l’epoca e sopra tutto le opere di Pietro di Cristoforo Vannucci (questo è il suo vero nome) ora viene offerta un’occasione oserei dire irripetibile: la grande mostra che la città di Perugia ha organizzato in occasione del quinto centenario della morte dell’artista umbro. Bisogna affrettarsi però. “Il meglio maestro d’Italia. Perugino nel suo tempo”, questo il titolo dell’esposizione, chiude infatti l’11 giugno. E sarebbe davvero un peccato capitale perdersela.

Come recita il comunicato di stampa ufficiale, il progetto espositivo della mostra, composto da quasi settanta opere, ha scelto d’individuare solo dipinti del Vannucci antecedenti al 1505, anno che segna il punto più alto della sua carriera. L’obiettivo è quello di recuperare la giusta prospettiva, per restituire al Perugino il ruolo che gli avevano assegnato il suo pubblico e la sua epoca, quello di protagonista assoluto del Rinascimento. Troppo spesso infatti è prevalsa la tendenza a parlare del pittore in abbinamento ad altri grandi artisti del suo tempo: quindi il Perugino come allievo di Andrea del Verrocchio, oppure quale maestro di Raffaello Sanzio, o ancora il compagno di studi di Leonardo da Vinci.

La mostra vuole dare conto dei passaggi fondamentali del suo percorso artistico ed umano: dall’apprendistato nella bottega del Verrocchio alle fondamentali imprese fiorentine che fecero la sua fortuna, dagli straordinari ritratti alle monumentali pale d’altare. Per portare a termine questa indagine si è proceduto anche in senso geografico, seguendo di tappa in tappa gli spostamenti del pittore o delle sue opere attraverso l’Italia:

È sorprendente, infatti, come Perugino abbia lasciato tracce profonde del suo magistero in tutte le località della penisola toccate dalla sua attività, da nord a sud, a iniziare ovviamente dall’Umbria e dalla Toscana, teatri per eccellenza del suo lavoro, nonché sedi delle sue botteghe di Perugia e Firenze.

Come si vede, sono obiettivi ambiziosi, ma che sembrano essere stati pienamente raggiunti: la mostra è infatti bellissima, ben organizzata e costruita in modo intelligente. Opportuna e didatticamente efficace ad esempio ci è parsa – nella disamina del periodo formativo dell’artista – la scelta di affiancare due Madonne con bambino, praticamente coeve, l’una attribuita al Verrocchio, l’altra ad un giovane Perugino: dal confronto emerge evidente quanto forte fosse ancora in quel momento il debito col maestro del pur già talentuosissimo allievo e fors’anche una relativa immaturità del secondo. Ma si tratta solo di un esempio.

L’unico difetto riscontrato, personalmente, in questa mostra è stato rappresentato dall’eccesso di affluenza, che – complici anche gli spazi forse un po’ troppo angusti – ha reso meno fruibile il percorso espositivo, diventando a tratti anche un po’ fastidioso. Devo però confessare che la mia visita si è svolta un sabato mattina…

Fra le tante opere che è possibile ammirare in questo irrepetibile evento vanno almeno ricordate: il giovanile capolavoro, l’Adorazione dei Magi del 1475-1477, sorta di straordinario biglietto da visita con cui il Vannucci si presenta a Perugia (già autonomo o indipendente dagli stilemi verrocchieschi, per quanto non ancora del tutto maturo, secondo il severo Vasari) e allo stesso tempo introduce la pittura fiorentina in Umbria (in un certo senso si potrebbe anche affermare che vi introdusse il Rinascimento tout court); poi la celebre Lotta fra Amore e Castità del 1503, che “deluse” almeno in parte la committente, l’esigente Isabella d’Este; ed ancora, lo stupendo Sposalizio della Vergine del 1504, che così infine torna a casa, sia pure per breve tempo. Mancano invece, purtroppo!, La Madonna con il Bambino tra san Giovanni Battista e santa Caterina d’Alessandria e il raffinato ed elegante Tondo della Vergine in trono con il Bambino tra santa Rosa, santa Caterina d’Alessandria e due angeli, entrambi realizzati fra il 1490 e il 1495 ed entrambi oggi conservati al Louvre. Del secondo è presente invero una copia, realizzata proprio dalla bottega del Perugino, ma non deve che essere che un pallido riflesso dell’originale

“Il meglio maestro d’Italia. Perugino nel suo tempo”, l’indovinato titolo della mostra è ripreso da una lettera che il banchiere e mecenate Agostino Chigi scrisse al proprio padre nel novembre del 1500. E testimonia perfettamente la fama ed il successo che in vita riuscì a raggiungere il pittore umbro. Un primato artistico e commerciale di enormi proporzioni. Grazie al Vasari – come sempre una vera e propria miniera d’oro di informazioni – sappiamo infatti che il Perugino «venne dunque in pochi anni in tanto credito, che de l’opere sue s’empié non solo Fiorenza et Italia, ma la Francia, la Spagna e molti altri paesi dove elle furono mandate. Laonde tenute le cose sue in riputazione e pregio grandissimo, cominciarono i mercanti a fare incetta di quelle et a mandarle fuori in diversi paesi con molto loro utile guadagno».

Il Vasari, che non lo amava (arriva addirittura a chiamarlo «cervello di porfido»), ci dice anche che «fu Pietro persona di assai poca religione, e non se gli poté mai fare credere l’immortalità dell’anima»”. Una persona alla quale evidentemente piaceva campare bene: «Aveva ogni sua speranza ne’ beni della fortuna, e per danari avrebbe fatto ogni male contratto. Guadagnò molte ricchezze, e in Fiorenza murò e comprò case, ed in Perugia ed a Castello della Pieve acquistò molti beni stabili». Su questo tutta la documentazione giunta fino a noi è concorde: era un uomo molto attento ed abile nella gestione dei propri affari. A questo proposito, chi ne ha possibilità vada a vedere il delizioso affresco del Martirio di San Sebastiano conservato nella Chiesa di San Sebastiano a Panicale, sul Lago Trasimeno, e chieda al custode come mai l’unica parte un po’ rovinata dell’opera è quella che i ritrae i committenti della stessa: ne ricaverà un istruttivo nonché divertente aneddoto.

Insomma, ancora prima di essere un artista, il grande artista che oggi giustamente celebriamo, il Vannucci era un vero e proprio imprenditore. E allo stesso tempo, se il Vasari non mente, anche una specie di “materialista”. Un aspetto estremamente paradossale, visto quello che dipingeva (Madonne e Santi) e soprattutto come lo dipingeva. Credo che nessuno meglio di Ruskin l’abbia saputo esprimere:

nel Perugino – e per questo gli ho riservato il primo posto, dinanzi a tutti – semplicemente non c’è tenebra, nessun errore. Qualsiasi colore risulta seducente, e tutto lo spazio è luce. Il mondo, l’universo appare divino: ogni tristezza rientra nell’armonia generale; ogni malinconia nella pace.

Prima di chiudere, un’ultima annotazione, qualcosa di più di una mera e simpatica curiosità, una precisazione non priva d’interesse. Il soprannome di Perugino è due volte sbagliato. Innanzitutto tutto perché Pietro di Cristoforo Vannucci non era di Perugia, ma di Città della Pieve (all’epoca Castel della Pieve). Fra l’altro nella bella cittadina umbra si può visitare l’Oratorio di Santa Maria dei Bianchi che ospita uno stupendo affresco del Perugino, che anche da solo meriterebbe una gita. E poi è sbagliato, il soprannome, perché il Vannucci non dipingeva alla maniera umbra, ma alla toscana, anzi alla fiorentina proprio. Che apprese – come oramai sappiamo – nella bottega del Verrocchio, nel capoluogo toscano, nei primi anni settanta del Quattrocento, ove lavorò a contatto insieme ad altri giovani talenti, quali Leonardo da Vinci, il Ghirlandaio, Filippino Lippi e il Botticelli (una tale concentrazione di geni pare quasi impossibile e dà letteralmente le vertigini…) E fu proprio lui invece, come già ricordato, a portare la pittura fiorentina in Umbria, o come la definiva il Vasari, “la maniera moderna”.

Infine alcune informazioni, per così dire, di servizio. Il libro di Colleoni citato in apertura è Contra Florencia, pubblicato nel 2019 da La Línea del Horizonte Ediciones; ovviamente non è stato tradotto in italiano. La bibliografia sul Perugino, come è immaginabile, è oramai vastissima. Molte di queste pubblicazioni si possono trovare nel bookshop della mostra stessa. Come introduzione comunque mi è risultato molto utile il volume edito da Rizzoli-Skira in collaborazione col Corriere della Sera nella collana I Classici dell’Arte, che vanta anche un ricchissimo apparato iconografico (gli devo fra l’altro la bella citazione di Ruskin). Interessante ed originale è pure il lavoro di Antonietta Petetti, Pietro Vannucci. Una storia di provincia, delle edizioni Ali&No. Indispensabile resta poi sempre l’opera del Vasari, Le Vite.

E dove si tiene la mostra? Alla GNU, la Galleria Nazionale dell’Umbria, nello stupendo Palazzo dei Priori, lungo il corso principale dell’elegante centro medioevale di Perugia. Che non a caso si chiama Corso Pietro Vannucci. L’ingresso alla mostra da diritto anche all’entrata alla Galleria, che è uno dei musei italiani più importanti, un vero e proprio scrigno di inestimabili tesori. Recentemente ristrutturata e con nuovi allestimenti (ottima l’idea dei video con l’ingrandimento dei particolari dei quadri, che altrimenti sarebbe ben difficile apprezzare), offre ai visitatori un impressionante catalogo di capolavori dell’arte umbra ed italiana, in particolare fra il Duecento e il Rinascimento, con opere di Duccio di Buoninsegna, Gentile da Fabriano, Beato Angelico, Piero della Francesca (il celeberrimo Polittico di Sant’Antonio), Benedetto Bonfigli, il Perugino stesso (ulteriori opere, non presentate alla mostra), il Pinturicchio (con la sorprendente Pala di Santa Maria dei Fossi) e tantissimi altri ancora. Un motivo in più, qualora ve ne fosse bisogno, per visitare Perugia e la mostra sul Perugino.

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